Bibliomanie

Editoriale
di , numero 52, dicembre 2021, Editoriale,

Editoriale
Come citare questo articolo:
Daniele Serapiglia, Editoriale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, dicembre 2021

Negli ultimi anni, l’accademia italiana ha rafforzato il proprio interesse verso lo sport e le sue implicazioni storiche, sociali e culturali1. Solo tra il 2020 e il 2021 sono stati pubblicati quattro numeri monografici dedicati alla materia su importanti riviste come “Passato e Presente”2, “Diacronie”3, “Trame”4, “Novecento.org”5, mentre ormai rappresentano realtà consolidate pubblicazioni scientifiche come: “Lancillotto e Nausica”, “Eracle. Journal of Sport and Social Science” e “Storia dello Sport. Rivista di Studi Contemporanei”6. In questo contesto, si inserisce il numero 52 di “Bibliomanie”, che propone una special issue su Sport e identità: narrazioni e rappresentazioni. A ispirare questo tema sono state diverse pubblicazioni, dedicate in ambito internazionale al rapporto tra sport, identità locali e nazionali, tra cui è necessario menzionare l’opera pionieristica Sport and the British di Richard Holt7 e The Sporting Life di Robert Colls8. Visto il taglio interdisciplinare della nostra rivista, che si dipana tra letteratura, semiotica e storia, a stimolare l’elaborazione di questo numero è stato il progetto del Centro Nazionale delle Ricerche, “Umanità nel Pallone”. Quest’ultimo, ideato nel 2017 da Maurizio Lupo, ha visto la partecipazione di studiosi provenienti da diverse aree delle scienze sociali, con l’obiettivo di dare allo studio del calcio una visione a 360°9. Con la stessa ambizione, allargando il campo dal calcio allo sport in generale, nel giugno scorso abbiamo lanciato la call di “Bibliomanie”, a cui hanno risposto storici, semiologi, sociologi, ma anche esperti di cinema e letteratura. Tali studiosi, privilegiando comunque il calcio quale oggetto di studio, hanno contribuito a organizzare un monografico, che, sebbene si basi sull’aggiornamento di studi già noti, consente nel suo insieme di dare ai lettori una prospettiva dinamica rispetto al ruolo dello sport nella “costruzione” di alcune importanti identità locali e nazionali. Prima però di passare all’analisi del presente numero, appare opportuno fornire al pubblico alcuni strumenti che definiscano il rapporto tra sport e identità, dimostrando come in un contesto globale, quest’ultimo sia spesso diventato l’espressione di nazionalismi e localismi10.
Secondo De Coubertin, le gare tra gli atleti di differenti nazioni dovevano rappresentare un mezzo per raggiungere l’armonia internazionale e la pace universale. Riproposti oggi, tali ideali e i grandi eventi che ruotano attorno ad essi, come i giochi olimpici, dovrebbero rappresentare lo sport in quanto quinta essenza di una globalizzazione garantita dall’interesse dei media, che diffondono le immagini e i racconti delle varie competizioni in tutto il mondo11. La cultura sportiva, però, non si è sempre omogeneizzata a livello mondiale: la popolarità e l’impatto globale del calcio, ad esempio, non hanno eroso la peculiarità delle diverse esperienze nazionali12. Il concetto stesso di cultura sportiva si è spesso modellato nei vari contesti nazionali e regionali, dove si sono creati quegli stereotipi fondamentali per l’esaltazione delle esperienze locali. Pensiamo alla nazionalizzazione del linguaggio tecnico calcistico in voga negli anni tra le due guerre mondiali, ma anche alla caratterizzazione retorica degli stili di gioco. In Italia, dall’inizio del secolo e soprattutto durante il fascismo, alcuni giornalisti hanno contribuito a nazionalizzare i termini inglesi che contraddistinguevano questa disciplina. Per esempio, il football divenne “calcio” e il goalscorer fu denominato “cannoniere”, in onore alla retorica guerresca propria del tempo13. Questo processo fu simile in molti altri paesi del globo. La stampa locale fu importante anche per la creazione del mito degli stili di gioco locali e delle figure retoriche che caratterizzavano una specifica nazionale. Per esempio, durante le olimpiadi di Anversa del 1920, nacque il mito delle “furie rosse”. Tale definizione era volta alla descrizione della “foga” del gioco della rappresentativa spagnola durante quell’edizione delle olimpiadi, ma diventerà di lì in poi la denominazione della nazionale del grande stato iberico, grazie soprattutto all’uso che ne fu fatto durante gli anni del franchismo (1939-1975)14.
Quest’ultimo esempio ci induce a comprendere come alcune immagini possano rappresentare in patria e all’estero l’essenza stessa di una nazione. La facilità con cui tali stereotipi sono entrati nell’immaginario pubblico ha fatto sì che lo sport fosse oggetto di un continuo tentativo di strumentalizzazione politica da parte dei vari governi. Ciò spiega perché i grandi eventi internazionali creino le condizioni per la riaffermazione delle società nazionali15. Non dobbiamo, però, pensare allo sport come a un semplice riflesso della politica16. Dobbiamo al contrario prendere in considerazione diversi altri fattori: oltre a quello politico, fondamentale si rivela quello “sentimentale”. Per questo motivo dobbiamo tenere presente che il rapporto tra lo sport e le masse è rafforzato da una serie di emozioni irrazionali quali la gioia e la tristezza, ben visibili analizzando il tifo17. È bene sottolineare, poi, che lo sport non rappresenta uno “spazio chiuso”, ma si inserisce nel sistema del consumo del tempo libero18. Per questo negli studi sulla relazione tra sport e identità è importante comprendere come una determinata disciplina sia assurta a pratica e spettacolo di massa. Appare dunque fondamentale approfondire come uno sport sia entrato in contatto con l’edonismo estetico e sentimentale dei cittadini nel Novecento, durante un periodo di progressiva globalizzazione dei consumi, tenendo presente alcuni fattori quali «l’innovazione tecnologica, l’espansione del mercato, l’intervento dello stato»19.
A partire da tali considerazioni è possibile legare l’analisi all’evoluzione sociale di un dato sport a quella politica. Ciò ci consente di applicare allo studio della pratica sportiva la teoria di Colin Campbell, spogliata dalla sua dimensione religiosa, circa «la logica culturale della modernità», in base alla quale quest’ultima nasce «dalla tensione tra sogno e realtà tra piacere e utilità»20. Come la moda per Campbell, lo sport «offre uno spazio “onirico” in cui compensare le delusioni del quotidiano», proponendo modelli di vita «lontani dalla banalità», che possono rispondere al bisogno di sognare ed evadere21. Viste nella prima metà del XX secolo in termini utilitaristici dalle classi dirigenti per allontanare gli uomini dai vizi derivanti dal tempo libero come l’alcolismo, o per creare generazioni di soldati, le discipline sportive hanno saputo anche ritagliarsi una dimensione onirica, creando piacere tra atleti e spettatori. Lo sport dunque ha concretizzato, a livello emotivo, sia il concetto stesso di nazione, sia quello di comunità locale e le competizioni nazionali e internazionali hanno permesso l’identificazione visiva di entrambe. Nel caso della nazione, ciò ha determinato la connessione sentimentale tra gli atleti e gli spettatori, stimolando la creazione di rituali e simbologie «che hanno reso tangibile il sentimento nazionale»22.
In questo senso è utile riflettere su come la pratica sportiva possa rientrare nel processo di governmentality teorizzato da Michel Foucault: per molte formazioni politiche lo sport era stato visto come il mezzo per disciplinare lo spazio sociale, nel quale inquadrare e organizzare la popolazione; il mezzo attraverso il quale lo stato poteva esercitare sugli individui il “biopotere”, inteso come pianificazione della tutela dell’individuo attraverso la cura del corpo, ma anche tramite la manipolazione dell’immaginazione23. Tale manipolazione, però, difficilmente si è concretizzata là dove è stata tentata. Negli stessi regimi totalitari, la contestualizzazione dello sport nell’ambito del loisir ha creato spazi nei quali venivano veicolati messaggi contraddittori rispetto all’uso propagandistico che i governi volevano fare dell’attività fisica. Pensiamo ancora al calcio: se è vero che questa disciplina poteva unire i cittadini di un determinato regime intorno alla rappresentativa nazionale, è altresì vero che poteva diventare un elemento altamente divisivo durante le competizioni locali, creando sovente le condizioni per violenti scontri tra le tifoserie di una stessa nazione. Ciò ci porta dunque ad affermare che per studiare il rapporto tra sport e identità nazionale è sì necessario prendere in considerazione come lo stato cerchi di strumentalizzarlo, ma anche come cerchi di controllarlo in quanto contraddizione dell’età contemporanea24.
Dopo questa premessa possiamo comprendere perché la classe politica abbia cercato di utilizzare lo sport quale strumento per la costruzione dell’identità nazionale. Ciò è avvenuto per due motivi. In primo luogo, lo sport con la sua vocazione pedagogica poteva aiutare a creare, attraverso l’educazione fisica dei giovani, “l’uomo nuovo” di un determinato stato-nazione25. In secondo luogo, lo spettacolo sportivo attraverso i media poteva rafforzare l’unione nazionale intorno alla vittoria di un campione o di una squadra che ostentava i simboli della patria: un mezzo per rendere visibile la propria “comunità immaginata”, che, come scriveva Eric Hobsbawm, poteva essere resa tangibile da undici persone su un campo di calcio26. Gli studiosi che si sono occupati di questo tema hanno avuto tutti uno stesso punto di riferimento, l’opera di Benedict Anderson, Le comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi. Attraverso questo libro, Anderson ha spiegato come l’identità nazionale sia una costruzione artificiale basata sulla dimensione sacra del nazionalismo: «per la nazione si è disposti a morire, ricorda spesso Anderson, il suo immaginario è quello di una collettività immortale che affonda le sue radici all’inizio della storia. Il sacro è ritenuto, quindi, una costante della vita sociale umana e il mondo moderno non fa eccezione; la sua novità consiste soltanto nel fatto che la forma nazionale assume essenzialmente un carattere secolare»27. Anderson sottolinea come le identità nazionali siano parte del patrimonio culturale di persone che non si conoscono, ma che si rivedono in stereotipi comuni, costruiti su tre piani: religioso, mediatico e amministrativo. A rafforzare la creazione della comunità immaginata, infatti, contribuisce anche la rete amministrativa statale. Negli uffici pubblici sono esposti una serie di elementi comuni che richiamano all’unità nazionale, quali bandiere, stemmi, foto del capo di stato. Tali elementi contribuiscono a far penetrare nella società quello che Michael Billig ha definito “nazionalismo banale”, che corrisponde appunto a un sentimento di appartenenza comune creato grazie alla presenza quotidiana nella vita dei cittadini dei simboli della nazione e del suo apparato statale28. Proprio questi stessi simboli sono presenti anche sulle maglie di un determinato atleta o di una determinata squadra nelle competizioni internazionali, ma anche nel corredo simbolico presente nel quotidiano dei tifosi (bandiere, sciarpe, gagliardetti e poster ecc.). In tale contesto, i media sono fondamentali per la penetrazione nella società del “nazionalismo banale”: in occasione dei grandi eventi internazionali, i giornalisti televisivi, radiofonici e della carta stampata sono i primi a tratteggiare le competizioni con contorni patriottici e stereotipi identitari. Per questo sono d’accordo con Lee e Maguire, secondo i quali i media hanno contribuito a costruire un’identità comune nell’ambito della nazione29, sottolineando però come, in maniera contraddittoria, hanno anche contribuito al rafforzamento di identità locali, non solo regionali, ma anche cittadine. É in questi contesti che a partire dal secolo scorso alcuni sportivi sono entrati nell’immaginario degli appassionati, assurgendo alla dimensione di eroi moderni, simbolo identitario di una comunità nazionale o locale30.
Proprio alla figura di un eroe sportivo è dedicato il primo articolo di questo numero “Bibliomanie”. Luca Bifulco, infatti, dedica il suo saggio a Diego Armando Maradona e ai meccanismi che lo hanno reso un simbolo per la comunità di tifosi napoletani. Sulla figura di George Best è incentrato il contributo di Gino Scatasta, che ne tratteggia un profilo tra pubblico e privato, mettendone in risalto la funzione simbolica. Nel terzo articolo, Paolo Demuru presenta un’analisi semiotica del ruolo del calcio nella vita politica, sociale e culturale del Brasile degli anni Dieci del Ventunesimo secolo, affrontando, in particolare, il percorso che ha portato dalla sconfitta per 7 a 1 del Brasile contro la Germania ai mondiali del 2014 (il cosiddetto Mineirazo) all’elezione alla presidenza della Repubblica di Jair Bolsonaro. Sempre legato a una metodologia semiotica è il quarto elaborato, dedicato da Giovanni Bove all’analisi delle opere di Jean-Michel Basquiat incentrate sul tema sportivo.
Una parte importante del monografico si concentra sul caso spagnolo. Se infatti l’articolo di Juan Antonio Simón inquadra il ruolo del calcio nella costruzione dell’identità nazionale e di quelle locali nel grande stato iberico, quello di Igor Santos Salazar è dedicato al rapporto tra l’Athletic Club di Bilbao e la realtà basca. Sempre per quanto riguarda la prospettiva locale, Sergio Giuntini, uno dei pionieri della storia dello sport italiana, analizza come la Lega Nord di Umberto Bossi abbia cercato di usare lo sport per il rafforzamento dell’identità padana.
Facendo un passo indietro, Alberto Molinari ha incentrato il suo lavoro su come, nel 1953, nel contesto del dibattito sulla “legge truffa”, una partita tra Italia e Ungheria ebbe un forte risvolto simbolico per la costruzione dell’identità collettiva italiana del dopoguerra. Agli anni del fascismo invece, sono dedicati il testo di Tiziano Iannello sull’idea dell’Uomo Nuovo e quello di Francesco Pellegrini su Arpinati. Il numero monografico si chiude con l’articolo di Domenico Guzzo sulla nascita del giro d’Italia; mentre nella rubrica note e riflessioni è presente il contributo di Emanuela Liverani sul calcio secondo il regista Ken Loach.
Oltre ai temi di carattere “sportivo”, il numero 52 di “Bibliomanie” ha dato comunque spazio ad altri interessanti studi. Nel suo saggio Salvatore Pugliese analizza l’opera di Emilio Lussu La Marcia su Roma e dintorni. Riccardo Pierotti, invece, esamina il materiale di propaganda dei partiti di massa nel 1946, mentre Luigi Montuori discute di padre Felix A. Morlin e del Movimento Pro Deo. Paola Scrolavezza, infine, discute del gusto del ricordo e dell’oblio nelle parole di Chorus of Mushrooms di Hiromi Goto.

Note

  1. Questa curatela è stata possibile grazie alla Fundação para a Ciência e a Tecnologia e al Fondo Sociale Europeo: progetto n. SFRH/BPD/107789/2015.
  2. Cfr. Pietro Causarano, Francesca Tacchi, Lorenzo Venuti (a cura di), Sport popolare e popolarità nello sport, in “Passato e Presente”, 111, 2020.
  3. Cfr. Jacopo Bassi, Eleonora Belloni (a cura di), Più che un club. Tifoserie e identità storiche, in “Diacronie”, 42, 2020.
  4. Ilaria Magnani, Nicola Bottiglieri (a cura di), Sport letteratura e dintorni, in “Trame di letteratura comparata”, 4, 2020.
  5. Gianluca Fulvetti e Stefano Pivato (a cura di), Storia dello sport, in “Novecento.org”, 16, 2021 (consultato il 4 dicembre 2021).
  6. Per una visione esaustiva sullo stato dell’arte della storia dello sport in Italia leggasi: Eleonora Belloni, Nicola Sbetti, Oltre il guado. L’affermazione della storia dello sport in Italia, in Claudio Mancuso (a cura di), Percorsi di sport e antropologia dello sport, Bologna, il Mulino, 2021, pp. 29-39.
  7. Richard Holt, Sport and The British: A Modern History, Oxford, Oxford University Press, 1989.
  8. Robert Colls, This Sporting Life: Sport and Liberty in England 1760-1960, Oxford, Oxford UP, 2020.
  9. Alcuni risultati del progetto sono consultabili nel volume: Maurizio Lupo, Antonella Emina (a cura di), Visioni di gioco. Calcio e società da una prospettiva interdisciplinare, Bologna, il Mulino, 2020. Tale opera rappresenta solo il primo tassello di un progetto più ampio, l’Academic Football Lab, ovvero uno spazio di confronto volto al rafforzamento degli studi accademici sulla disciplina.
  10. È bene precisare che le considerazioni che seguono sono tratte da: Daniele Serapiglia, Sport e Stato-nazione, in Luca Bifulco, Mario Tirino (a cura di), Sport e scienze sociali, Rogas, Roma, 2019, pp. 241-254.
  11. John Hargreaves, Freedom For Catalonia? Catalan Nationalism and the Barcelona Olympic Games, Cambridge, New York, Melbourne, Cambridge University Press, 2003.
  12. Richard Giulianotti, Football. A Sociology of the Global Game, Cambridge, Polity Press, 1999.
  13. John Foot, Calcio, 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, Bur, 2010, pp. 1-3.
  14. Alejandro Quiroga, Football and National Identities in Spain. The Strange Death of Don Quixote, Basinstoke, Palgrave Macmillan, 2014, pp. 19-47.
  15. Lincoln Allison, Sport and civil society, in “Political Studies”, 46, 1998, pp. 709–26.
  16. Cfr. Hargreaves, Freedom For Catalonia?… , cit.
  17. Norbert Elias, Eric Dunning, Quest for Excitement: Sport and Leisure in the Civilising Process, Dublin, University College Dublin, 2008 (Ed. or. 1986); Sven Ismer, Embodying the nation: football, emotions and the construction of collective identity, “Nationalities Papers”, 39, 2011, pp. 547-565.
  18. Pierre Bourdieu, L’État, l’économie et le sport, “Sociétés et Représentations”, 7, 1998, pp. 13-19.
  19. Paolo Capuzzo, Culture del consumo, Bologna, il Mulino, 2006, p. 9.
  20. Colin Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, Roma, Edizioni del Lavoro, 1992, p. 340.
  21. Ann-Mari Sellerberg, La Moda, in Costanza Baldini (a cura di) Sociologia della Moda, Roma, 
Armando, 2008, pp. 222-240.
  22. Cfr. Anthony, D. Smith, National Identity, London, Penguin, 1991.
  23. Cfr. Jakob Nilsson, Sven-Olov Wallenstein (a cura di), Foucault, Biopolitics and Governmentality, Huddinge, Södertörn Philosophical Studies, 2013.
  24. Cfr. Gino Germani, Sociologia della modernizzazione, Bari, De Donato, 1971.
  25. Appare opportuno precisare che per “uomo nuovo” si intendeva un individuo che potesse rappresentare in patria e all’estero tutta una serie di stereotipi di una determinata nazione. Tali stereotipi erano rappresentati dalla vigoria fisica, dall’intelligenze e dal rispetto dei valori della patria, per salvaguardare la quale, era giusto anche l’estremo sacrificio del singolo. Sul tema leggasi: Alessio Ponzio, Shaping the New Man: Youth Training Regimes in Fascist Italy and Nazi Germany, Madison, University of Wisconsin Press, 2015; Georges Bensoussan, Paul Dietschy, Caroline François, Hubert Strouk (a cura di), Sport, corps et sociétés de masse. Le projet d’un homme nouveau, Paris, Armand Colin, 2012.
  26. Eric Hobsbawm, Nations and Nationalism since 1780, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p.143. A suffragare tale affermazione gli studi presenti nel volume: Fabien Archambault, Stéphane Beaud, William Gasparini (a cura di), Le football des nations. Des terrains de jeu aux communautés imagines, Paris, Editions de la Sorbonne, 2016.
  27. Mariuccia Salvati, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, “Storicamente”, 17, 2016.
  28. Michael Billig, Banal Nationalism, London, Sage, 1995.
  29. Jung Woo Lee, Joseph Maguire, Road to reunification? Unitary Korean nationalism in South Korean media coverage of the 2004 Athens Olympic Game, in “Sociology”, 45, 2011, pp. 848-867.
  30. Cfr. Richard Holt, J. A. Mangan, Pierre Lanfranchi, European Heroes: Myth, Identity, Sport, Ilford, Frank Cass, 1996.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2021 Daniele Serapiglia