Bibliomanie

Ultime glosse sull’ambiguo Pasolini
di , numero 40, settembre/dicembre 2015, Saggi e Studi,

Ultime glosse sull’ambiguo Pasolini
Come citare questo articolo:
Massimo Sannelli, Ultime glosse sull’ambiguo Pasolini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 3, settembre/dicembre 2015

1.
La morte scritta secondo elegia e profezia sfocia nella morte realizzata. Ecco Pasolini. Proviamo a parlarne come chi è all’interno della società dello spettacolo: per professione e per passione. Al professionista dello spettacolo (attore, sceneggiatore, regista) interessa l’uscita – di scena – di chi sa che non potrà avere, fuori, un suo simile: non avrà né sposo né sposa, nessuno, e di mamma ce n’è una sola (e la mamma ha ottanta anni). La base del possibile film è in questa singolarità.
Iniziano gli anni Settanta, cioè il tempo di morire, come nella lettera alla fidanzata di Ninetto Davoli: «Tu sai che mia madre ha ottant’anni: fra un po’ sarò solo al mondo. Io muoio al pensiero che Ninetto non sia più il mio Ninetto. Ma naturalmente non posso chiedergli di lasciarti, sarebbe disumano da parte mia, e anche inutile. Come non chiedo a te di lasciare lui: io non posso farlo. Ma siccome questa è una vera tragedia, e tu ci sei coinvolta, è bene che tu sappia tutto».

2.
E misi i piedi sul caldano… e me li sono trovati bruciati, e i piedi non li ho più. Questo è un caso nobile di lungo falsetto: il Pinocchio di Carmelo Bene, versione 1999.
Non c’è amore umano che tenga, se l’amante si vergogna di essere felice. Anzi: non può essere felice, se non illudendosi, finché può. Per alcuni, trattenere in sé la vita senza essere vivi è altrettanto brutto: come i vampiri in Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch. Potrebbe essere una bella confessione estetica, una nota di poetica applicata alla pelle e ai nervi; oppure una confessione schifosa, in cui l’umore e gli umori si contraddicono a vicenda.

3.
Uno, oggi, il professionista dello spettacolo, che continua a scrivere su un morto che non muore mai e non guarisce. E non rivive, naturalmente. Il professionista contribuisce così a non farlo morire, non ancora. A quel vecchio dolore si unisce un altro caos, ora, molto fisico e molto sensuale, sempre: che si esprime in forme non proprio critiche.

4.
Nel 1977 Daniele Costantini è un giovane regista. Dice: «there is the writer who dies peacefully in his bed after having taught for thirty years at the university. and the writer who dies the way Pasolini did. Pasolini, for all his defects, always lived within reality. It’s like the difference between Jean Genet and a member of the French Academy» (The Italian Theatre Today: Twelve Interviews, ed. by Alba Amoia, The Whitston Publishing Company, Troy (N.Y.) 1977, p. 108: ed è l’unica occorrenza del nome di Pasolini in tutto il libro).
Questa morte è enigmatica e ambigua, nel senso che ha più interpretazioni, tutte più o meno plausibili). È anche idonea a marchiare – nel Bene e nel Male – la vittima. Il discorso di Costantini è valido o è irrazionale? Pasolini è come Guevara, Torres e Panagulis? Dipende dalla causa della morte: se muore per una cattiva compagnia, no, non c’entra niente con Guevara, Torres e Panagulis. Se muore per Cefis e Mattei, sì. Il problema è che non si sa ancora perché Pasolini sia morto.

5.
In Strategia del ragno Bertolucci filma in anticipo l’idea di Zigaina: la morte è un oggetto di regìa, il morituro è un performer shakespeariano. Se Bertolucci non avesse filmato il traditore-eroe – l’attore, l’eroe, le profezie manipolate, la gloria costruita, la regìa delle proprie ceneri postume – Zigaina sarebbe meno plausibile. Il film c’è e rimane, dal tempo del tempo di morire.
Quindi Athos Magnani propone ai compagni lo spettacolo della morte, e la colpa ricadrà sui fascisti. È «quasi sigùr che chista / a è la me ultima poesia par furlan; / e i vuèj parlàighi a un fassista / prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn». Voglio parlare al giovane fascista, dice uno; voglio che la colpa sia dei fascisti, dice l’altro. Uno chiama Fedro il fascista, come in Platone; l’altro copia da Macbeth e da Giulio Cesare, e coinvolge i fascisti (e poi i compagni, e poi la Draifa, il paese di Tara, tutto e tutti).

6.
Draifa è Alida Valli, che nell’Edipo re di Pasolini è Merope, la seconda madre di Edipo: tutto è in tutto. Athos padre si ripete e rispecchia nel figlio: l’attore è sempre Giulio Brogi, padre identico al figlio e figlio identico al padre. Tutto è in tutto, passato nel presente e presente nel passato, e Draifa sembra identica nel flashback e nel presente, come i due Athos. I film simbolici si specchiano e non comunicano il vivo e il vero, ma il sogno di anni che solo per caso sono il 1967 e il 1970. Nei sogni il tempo non esiste e i personaggi sfumano l’uno nell’altro, come se la regìa impedisse variazioni non programmate. È ingenuo credere che qualunque sogno sia libero. Solo il regista è libero: fa sognare agli altri i propri sogni, come il dittatore di Simone Weil e i 4 dominatori di Salò.
Athos e Pier Paolo usciranno di scena, dominando registicamente la materia [e i tempi di svolgimento delle cose]: delegando e incolpando, sovranamente. Entrambi sono registi.

7.
Si vede tutto e non si capisce niente. Si legge una sintassi chiara, ma la chiarezza significa cose inusuali. Perché «essere vivi o essere morti è la stessa cosa»? NON LO SO, dice il professionista dello spettacolo. Perché Edipo cieco torna a Bologna e a Casarsa? Perché Antigone diventa Ninetto? NON LO SO, ripete il professionista dello spettacolo. Le immagini di Edipo re e della Terra vista dalla luna ci sono, ma la reazione è: NON CAPISCO. Il professionista si arrende e ne soffre.
Vedo i sintagmi chiari e l’ostentazione, ma NON CAPISCO.

8.
Avere i nomi è il segno che i nomi non sono più essenziali. I nomi detti sono il margine – pesci piccoli, nomi nominabili – e non la cosa grossa. Ora Pino Pelosi scrive Io so… chi ha ucciso Pasolini (Vertigo 2011), ma non sa il movente. Mazzoni, Riccio e Ruffini pubblicano Nessuna pietà per Pasolini (Editori Riuniti, 2011), per dire di una pista catanese, contemporaneamente marchettara e neofascista. Riappare la vecchia testimonianza sul «ragazzo biondo», ultimo compagno, che non è Pelosi. Pelosi ha già smentito la smentita: non c’era nessun biondo, era lui, lui, lui. Questa storia non ammette fatti, ma parole, e le dichiarazioni giurate – che sono come i fatti – devono ridiventare leggende.
Fino ad oggi, Pasolini è morto per rabbia sadomaso, per il petrolio di Petrolio e per l’ENI, per eliminare il Tiresia corsaro, per una rapina finita male; e poi: per caso, senza moventi e senza scopo, secondo Pasquale Misuraca; per programmazione mitica, secondo Giuseppe Zigaina; per gelosia intellettuale, come in Ho ucciso un poeta di Giovanni Heidemberg (Pequod, 2005).

9.
Il discorso sulla morte di Pasolini è simbolico, perché appartiene alla morte di questa nazione e della sua lingua (anche letteraria). Come se questa nazione (e la sua lingua) non potesse morire – e trasformarsi – compiutamente senza interrogarsi sull’enigma di Tiresia, non risolto (risolverlo sarebbe la Fine, diciamo). Ora il morto è l’indovino-narratore che diceva «io so», mentre Edipo – il potere – vive e regna: ora Tiresia giace nella polvere, come Laio, e nessuno spiega: perché Edipo da solo preferisce non capire mai, illudersi godendo. Allora l’Italia si interroga nel 1975, si interroga nel 2005 con la ritrattazione di Pelosi, si interroga nel 2010 con il messaggio di Dell’Utri, si interroga nel 2011 con la coppia di libri. Si interrogherà ancora: a meno che il Simbolo non esploda, finalmente.
Chiunque abbia ucciso Pasolini, è evidente che il Potere ha voluto governare la gestione postuma dei fatti: un avvocato di destra (Mangia), un criminologo di destra e neopagano (Semerari), inquirenti sgraziati, una sentenza di primo grado che dice senza dire, ammette senza poter giudicare del tutto, perché nemmeno il giudice Moro ha potuto dire «io so». Come lo stesso Pasolini, Alfredo Moro non aveva prove: solo qualche indizio, enorme e indifeso.

10.
Il problema è l’identità pubblica e privata dell’ucciso.
Pasolini è, prima di tutto, un intellettuale profetico e arcaico: diciamo che è come un nuovo Tiresia. Ma Pasolini è anche il consumatore masochista di molto sesso, in condizioni estreme.
Ma anche un professionista severo, in cerca di denaro ben guadagnato, da spendere bene.
Ma anche il poeta abituato a collegare i fatti separati.
Ma anche un uomo attento al Mito, nel senso reale: un praticante del Mito, in perfetta solitudine. È difficile credere che Pasolini abbia considerato un amico, soprattutto a Roma e tra tutti i clientes, puri e impuri. Ma non è che gli amici fossero insinceri. Il fatto è che Pasolini non viveva né di loro né per loro.
L’Ambiguo agisce degnamente e indegnamente da Ambiguo, sempre [Nerolio di Grimaldi non è solo una finzione: il Poeta del film è un uomo solo, solo, solo; mentre il Pasolini di Abel Ferrara è rappresentato come un piccolo genio familiare, un Pieruti tranquillo e un po’ banale]. L’Ambiguo è irriducibile, e non può essere addomesticato; nemmeno descritto, in realtà.
Come Ambiguo perfetto, il suo segno è la complessità. Il bello dell’ambiguità è la sua permanenza, la sua immanenza confusa e assoluta: l’ambiguità comprende tutto, per disperato panteismo e disperato panpsichismo, e vive regolarmente nel suo empirismo eretico. Non c’è un solo istante in cui la guardia sia abbassata e la vita si pacifichi. Anche gli Ambigui non poetici – dunque non santi e non separati dalla Norma – praticano l’ambiguità, ma per confondere: cioè come strumento pratico o criminale o politico, non come sistema esistenziale perenne. In ogni caso il giovane fascista – che potrà uccidermi – è anche il mio erede, a cui scrivo in lingua materna, con amore: a lui devo dedicare un saluto e un augurio, come alla fine della Nuova gioventù. I testi sono testimoni, è chiaro. E i cercatori onesti del vero giuridico e criminologico – che si suppone unico – non possono decifrare la Grande Opera dell’ambiguità, che è polisemia (poesia, alla fine dei conti).

11.
Il teatro criminale e politico si muove bene intorno a Pasolini, come se l’avesse ucciso. E forse l’ha ucciso davvero. Per esempio, se uno guarda i dati – l’evidenza nuda dei numeri, come in un elenco e in un diario – vede che il 29 ottobre 1975 cade Mario Zicchieri, e il 31 ottobre c’è un funerale che degenera in guerriglia urbana; la sera dopo il funerale, l’Ambiguo esce da Via Eufrate e non torna. I prostituti, i picchiatori, i fascisti – quasi bambini, adolescenti di 13, 15, 17 anni, senza patria nella patria reale, ambigui quanto l’Ambiguo – possono anche aver ucciso lo jarrusu o il frocio; gli adolescenti neri – ambigui anche loro: puttani e picchiatori di puttanieri – potrebbero anche aver onorato il camerata ucciso, adolescente come loro; e i fascisti bambini possono aver avuto protezioni serie nell’avvocatura nera e anche nel Palazzo. Forse ne sono stati anche gli esecutori, oltre che i protetti. Sadomasochismo da saluto e augurio, fascismo, petrolio, Petrolio, violenza pubblica, piduismo, neopaganesimo, volontà mitica convivono ambiguamente all’interno di una cosa piena di ma anche. Questa cosa è mobile e fluida, fin dall’inizio: come lo sono la vittima e chi uccide, per ragioni diverse.
La gestione destrorsa, dolosa e confusa, del caso Pasolini (Pasolini morto) è evidente. Il problema è il passaggio dalla vita alla morte. Così il mistero sul fatto puro e nudo – la morte dell’Ambiguo – è diventato un Mistero. E poiché le molte identità e i molti comportamenti hanno un solo involucro – questo corpo, uno solo – muoiono tutte e tutti nello stesso istante: complicando tutto, perché ogni identità e ogni comportamento si prestano come movente; mentre la morte è una, sola, e il morto è uno solo. Le identità e i comportamenti avvengono nel mondo e nel tempo, quindi il mondo e il tempo – che hanno identità e comportamenti – possono essere coinvolti: la vendetta neofascista, la guerriglia urbana, lo sdegno politico, la disperazione della fornace dei tempi. Chi difende un uomo solo? I difensori ci sono, postumi e onesti come Betti, Citti, Parrello, Calvi e Marazzita: la loro buona fede è chiara, ma l’amico degli amici ha scelto la solitudine, per isolarsi anche dai buoni difensori. Pasolini era vincolato ad una sfida: lavorare, produrre, guadagnare, esprimersi, morire, con qualche intervallo di sesso, abbastanza estremo. La sfida esclude gli amici, che in fondo non sono stati tali, o non del tutto.
L’ambizione e il profetismo coesistono – senza serenità, in sineciosi – nell’Ambiguo: il profeta ambizioso non ha bisogno di amici, ma di strumenti e collaboratori, come l’Anghelos-Angelo di Tiresia (a Tebe), di Edipo (a Bologna e a Casarsa), di Epifanio (nel Porno-teo-kolossal).

12.
Nel 2014 si è parlato di analisi del DNA sui reperti del 2 novembre 1975. Intanto Abel Ferrara diceva di sapere: «So chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini e ne farò il nome». L’annuncio positivo è rimbalzato un po’, a partire da marzo 2014. In agosto Ferrara si è smentito su «Repubblica»: «Per favore! Lo ripeto da mesi, non sono un detective, me ne frego di chi lo ha ammazzato, io ho fatto un film sulla sua tragedia personale… Pasolini non è un’inchiesta né un documentario, è un film, è finzione. C’è una sequenza in cui gioca a calcio, cosa che quel giorno non ha fatto, ma so che gli piaceva e se vedeva qualcuno giocare si univa. Perché non raccontarlo?».
Sei mesi dopo, Ferrara smentisce meglio, ma senza grazia. Le sue parole cambiano un po’ da sito a sito, ma il senso è chiaro: ” I never said that i knew who killed him. That was a great misquote by a journalist” (“The Hollywood Reporte”) (“The Guardian”). Poiescee il suo film e il film se ne frega delle risposte. La domanda «Perché non raccontarlo?» giustifica tutto: toglie il film dal campo del vero, che sarebbe il campo del documentario. Ferrara dice «Io resto sempre un italoamericano del Bronx», ma sa a che cosa serve il gioco della libertà estetica: a creare un prodotto funzionale, che non è il vero.
Quel prodotto è il film di finzione, che non è «un documentario», né «un’inchiesta». L’identificazione del film con la finzione è urticante, ma fa parte del gioco. Perché il film di finzione è fatto per essere venduto, come ogni prodotto.
Andiamo avanti.
Il 6 febbraio 2015 l’ANSA sparge la voce: i profili genetici non sono attribuibili, e nemmeno collocabili nel solo 2 novembre 1975. Ora è tutto, davvero, perfettamente imperfetto. Tutto ritorna nella situazione tradizionale di un mistero ideale. Il mistero non può essere smontato, nemmeno se ci sono documenti visivi e oggetti da studiare. L’analisi dei reperti parla bene, a modo suo e nei suoi limiti: mostra una violenza, ma non la spiega. È come l’ombra cruenta della Sindone: qualcosa è accaduto, ma non si sa bene che cosa, a parte la morte.
E allora? A questo punto i reperti insanguinati o inseminati sono simboli, ma non sono più prove.
Il montaggio definitivo manca e si desidera, ma non si può averlo. Non resta altro che l’invenzione: «Perché non raccontarlo?».
L’Ambiguo compiaciuto, geniale e ricco, era un Ambiguo disperato. Ecco perché si può credere a Giuseppe Zigaina: perché il diritto di raccontare – di Ferrara – è oggettivo e pratico, quindi è condivisibile, e allora è anche mio. Anche Zigaina può raccontare, e io mi prendo il racconto di Zigaina, fin dove mi interessa, e poi mi racconto qualche altra cosa.
La realtà di uno come Pasolini non è la realtà. È la SUA realtà. Nella SUA realtà l’Ambiguo è una specie di Cristo-Dioniso; e molto masochista. È un segreto di Pulcinella e Fulvio Abbate lo ha scritto, ultimamente: «Si narra perfino che si facesse talvolta picchiare con il filo spinato, una verità che i moralisti hanno sempre taciuto, una realtà, la componente masochistica in Pasolini, che la comunità gay del tempo non ha mai taciuto» (www.barbadillo.it, 7 febbraio 2015).
Ma anche Pino Pelosi ha parlato un po’, nel 2014: «La verità non la conoscerà mai nessuno, solo io la so, per l’85 per cento, esclusivamente io potrei dire chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini» («Il Tempo», 29 marzo 2014). I numeri 85 e 15 sono solo uno scatto poetico, come la precisione metrica che costruisce un equilibrio, ma solo un equilibrio estetico.
In ogni caso, il lettore comune non conoscerà né l’85 né il 15. Ma non è che Pelosi giochi del tutto, ormai: fa l’artista, letteralmente, quindi smonta e rimonta il suo materiale, e ne è tanto padrone da poterlo misurare, alla faccia nostra. O meglio: ostenta di esserne il padrone e il misuratore, un po’ come Dante. E anche Pelosi aderisce alla domanda degli esteti di professione: «Perché non raccontarlo?».
Torniamo a Pier Paolo. La sua Passione è quello che non può essere spiegato. E a questo punto? Possono solo emergere, lentamente, gli annunci del non-santo Pier Paolo. Bisogna ammetterlo: vince sempre lui, meravigliosamente. Se no, che Ambiguo sarebbe?
Questa è proprio una bella scoperta, la più ironica di tutte le scoperte possibili. E chi l’avrebbe detto? Cercavate un bel porco, masochista e omosessuale (si sa, ma non si dice); e cercavate onestamente una povera vittima (si dice, ma non si sa). E invece no: avete trovato il Mistero e un elemento del Mistero. Davvero, un disgraziatissimo figlio-di-Dio. Solo che questo qui non verrà a buttarvi fuori dal Tempio: più siete – Ferrara o Zigaina o Pelosi, e Grieco e Bruno, e avvocati e criminologi ed eredi – e meglio è.

13.
Ecco perché l’Italia deve ancora farsi domande, quando è in crisi, e darsi molte risposte. Potrebbe riapparire la verità definitiva su Pasolini? Sì, ma allora sarebbe proprio la Fine. La Fine c’è già, ma viene considerata una Fine economica, di crisi in crisi.
Invece no. La crisi è la fine di una certa Italia, umanistica e non umanistica. Una certa Italia invecchia e muore, nelle sue Istituzioni, nel suo Popolo e nei suoi vecchissimi falli. Così l’Italia coltiva e lascia accadere il Mistero doloroso, ma il Mistero doloroso è troppo enorme per essere indolore anche per gli altri (tutti gli altri: cioè noi). Verrà la Fine del paese, e questo è possibile. E poi verrà il popolo futuro, oppure nessun futuro, ma questo non si sa.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2015 Massimo Sannelli