Bibliomanie

Souvenirs de Paris, ovvero una passeggiata a Sandymount
di , numero 45, gennaio/giugno 2018, Saggi e Studi,

<em>Souvenirs de Paris</em>, ovvero una passeggiata a Sandymount
Come citare questo articolo:
Riccardo Campi, Souvenirs de Paris, ovvero una passeggiata a Sandymount, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 1, gennaio/giugno 2018

You had such a vision of the street
As the street hardly understands.
(T.S. Eliot, Preludes, III)
Nella tarda mattinata del 16 giugno del 1904, dopo aver tenuto la propria lezione a scuola, Stephen Dedalus sta passeggiando sul litorale di Sandymount. I suoi pensieri sono attraversati da ricordi, che gli balenano nella memoria, e da vivide percezioni, che colpiscono i suoi sensi: la vista delle onde, della torre in lontananza e di una coppia di raccoglitori di telline, il rumore dei passi sugli «scricchiolanti marami e conchiglie» («cracking wrack and shells»), l’abbaiare di un cane, le «tanfate di fogna» che i rifiuti sparsi sulla spiaggia esalano («upward sewage breath»)1… Quello che viene offerto al lettore di Ulysses nel terzo episodio (“Proteo”) è il primo, articolato esempio di monologo interiore dopo quelli frammentari di cui sono disseminati gli episodi precedenti: esso fissa il «flusso vitale di una coscienza in cui passato e futuro coincidono nel punto meridiano e focale di un eterno presente»2n. E nel passato di Stephen c’è, tra l’altro, un soggiorno a Parigi come studente, del quale, ora, riemergono a brandelli ricordi di conversazioni, d’incontri e d’immagini. Mentre egli si avvia «all’eternità lungo la piaggia di Sandymount», un’immagine delle strade parigine al mattino gli s’impone alla memoria:

I suoi piedi marciavano in un subito ritmo altero sui solchi della sabbia, lungo i macigni della gittata di mezzogiorno. Li fissò alteramente, caterva di crani di mammuth pietrificati. Luce d’oro sul mare, sulla sabbia sui macigni. Il sole è là, gli alberi snelli, le case color limone.
Parigi al risveglio scomposta, crude luce nelle sue strade color limone. Mollica umida di panini, l’assenzio verderana, il suo incenso mattutino, blandiscon l’aria. Belluomo esca dal letto della moglie dell’amante di sue moglie, la massaia col fazzoletto in capo s’affaccenda, con un piattino di acido acetico in mano. Da Rodot, Yvonne e Madeleine restaurano la loro bellezza sbattuta, facendo a pezzi coi denti d’oro gli chaussons di pasta dolce, le bocche ingiallite del pus di flan breton. Facce di parigini passano, compiaciuta piacevolezza, arricciolati conquistadores.

His feet marched in sudden proud rhythm over the sand furrows, along by the boulders of the south wall. He stared at them proudly, piled stoned mammoth skulls. Gold light on sea, on sand, on boulders. The sun is there, the slender trees, the lemon houses.
Paris rawly waking, crude sunlight on her lemon streets. Moist pith of farls of bread, the froggreen wormwood, her matin incense, court the air. Belluomo rises from the bed of his wife’s lover’s wife, the kerchiefed housewife is astir, a saucer of acetic acid in her hand. In Rodot’s Yvonne and Madeleine newmake their tumbled beauties, shattering with gold teeth chaussonsof pastry, their mouths yellowed with the pusof flan breton. Faces of Paris men go by, their wellpleased pleasers, curled conquistadores.]
3

Il testo registra il fondersi dell’esperienza sensibile attuale di Stephen − «la luce d’oro sul mare», il sole, il «color limone» delle case sulla spiaggia − con il ricordo: è per questo che anche le strade parigine nella «cruda luce» del mattino assumono, nella memoria, un improbabile «color limone». I precisi dettagli realistici dell’immagine − il piattino di acido acetico, i denti d’oro delle due prostitute, gli chaussons sbriciolati − le conferiscono una forza espressiva capace di faire voir il proprio oggetto, conformemente a quello che era stato uno dei precetti fondamentali della lezione flaubertiana − e dei più fraintesi4. Ma, al contempo, tutti questi dati provenienti dalla realtà empirica si fondono, nel testo che fissa e ordina le associazioni d’idee del personaggio, con elementi delle sue fantasticherie − come il girotondo di adultèri (un trito luogo comune da teatro boulevardier) − e, soprattutto, con la creatività verbale di Stephen: le insistite allitterazioni «wellpleased pleasers, curled conquistadores» sono da ascrivere, con ogni probabilità, alla maniera ironicamente affettata di esprimersi dell’aspirante poeta. (Flaubert, che per ovvi motivi non disponeva di una tecnica di scrittura come il monologo interiore, avrebbe registrato un’annotazione come quest’ultima nelle forme del discorso indiretto libero.)
Dal punto di vista estetico, il risultato della tecnica compositiva joyciana è, qui, la costruzione di un breve paragrafo, mirabilmente denso, apparentemente sconnesso, rigorosamente strutturato, in cui, in poche righe, con una precisione che avrebbe soddisfatto anche le più severe esigenze di Flaubert, viene fissata l’immagine − e colta l’atmosfera − di una strada di Parigi «al risveglio». A proposito del monologo interiore, è stato giudiziosamente osservato che esso, «in un certo senso, è paradossalmente il tipo di narrazione più semplice che ci sia − la simulazione delle reazioni causali di una coscienza al gioco tra memoria, anticipazione e sollecitazioni [stimuli] del momento»5. Per il fatto di essere una tecnica letteraria artificiosa (come qualunque altra tecnica, d’altronde), il monologo interiore rende possibile la fusione di livelli percettivi e di modi narrativi diversi in un unico testo coerente e compatto: sensazioni soggettive e dati oggettivi, moti della coscienza ed effetti di realtà coesistono sullo stesso piano testuale. Per questo è ragionevole concluderne che Joyce eredita «condizioni narrative [narrative conditions] che derivano dal realismo precedente − in particolare l’attenzione al mondo delle sensazioni − e li conduce a un realismo più radicale. Malgrado le radicali innovazioni dell’Ulysses, per certi versi esso non è una negazione del realismo, bensì il suo ulteriore sviluppo. Esso sviluppa tecniche che permettono alla scrittura di confrontarsi più adeguatamente all’esperienza del mondo, alle effimere ma fondamentali percezioni sensoriali che forme di scrittura tradizionali tendevano a censurare o a compendiare»6. Il monologo interiore quale Joyce lo pratica e l’impiega nella propria opera maggiore, portandolo alla sua forma letterariamente più perfetta ed efficace, si presenta come una sorta di sintesi delle «narrative conditions» ereditate dalla tradizione realista e − non bisogna dimenticare di aggiungere − da quella simbolista del secolo precedente7.
Anche un rapido raffronto tra il passo citato e un paragrafo tratto da Nana permette di misurare la novità degli apporti della scrittura joyciana alle tecniche descrittive realiste o naturaliste. Nel passo del romanzo di Zola, quella che viene descritta è una Parigi mattutina assai prossima a quella evocata da Joyce. Inutile precisare che il contesto narrativo, invece, è completamente diverso: nel quadro della finzione romanzesca di Zola è il conte Muffat che si aggira per le strade parigine dopo aver appreso dalla propria amante, Nana, durante un battibecco, che sua moglie lo tradisce con Fauchery. Indifferente agli scrosci di pioggia e alla fatica, il conte ha trascorso l’intera notte vagando per il quartiere in cui abita l’amante della moglie (nel cui appartamento, in quello stesso momento, la moglie plausibilmente si trova).

La luce infine spuntò, quella tenue luce sporca delle notti d’inverno, tanto malinconica sul lastricato fangoso di Parigi. Muffat era ritornato verso le larghe strade in costruzione che correvano lungo i cantieri della nuova Opéra. Intriso d’acqua a causa dei temporali, sconvolto dai carri, il suolo argilloso si era trasformato in un lago di fango. E, senza guardare dove metteva i piedi, egli continuava a camminare, scivolando, riprendendosi. Il risveglio di Parigi, le squadre di spazzini8 e i primi gruppi di operai, gli procurarono un nuovo imbarazzo, quando più la luce aumentava. Veniva guardato con sorpresa, il cappello fradicio d’acqua, infangato, smarrito. A lungo, trovò rifugio contro le palizzate, tra le impalcature. Nel suo essere vuoto, una sola idea restava: era davvero disgraziato9.

Rispetto a Flaubert, Zola non si cura nemmeno di soggettivizzare la propria descrizione10: conformemente alla consueta tecnica di focalizzazione esterna tipica della scrittura realista, Muffat compare nel “quadro” allo stesso titolo degli spazzini, degli operai, del cappello deformato o delle impalcature. Non è attraverso il suo sguardo «effaré» che Zola costruisce l’immagine, la quale comprende anche le strade dissestate dai lavori in corso, le pozzanghere di fango, in breve: tutto ciò che Muffat, sconvolto, non vede (come viene esplicitamente detto, egli camminava «sans regarder où il posait ses pieds»). Parigi «al risveglio» è colta e fissata in quei tratti che più contribuiscono a connotare la malinconia del paesaggio metropolitano, evidentemente allo scopo di metterlo in sintonia con lo stato d’animo abbattuto del personaggio, a partire dalla luce crepuscolare dell’alba, che è detta «sporca» come sporche sono le strade fangose e la cattiva coscienza del conte. Il metodo di Zola per sfumare la separazione tra il momento oggettivo e quello soggettivo nella descrizione degli “esterni” può apparire rudimentale, se confrontato con le più sofisticate tecniche introdotte già da Flaubert in casi analoghi (in particolare quella del discorso indiretto libero) − e, tanto più, se paragonato alla tecnica del “flusso di coscienza” quale Joyce l’utilizza nel passo citato. Proprio in quanto tecnica di scrittura, esso, pur ereditando dalla tradizione realista «condizioni narrative», e, in questo caso, perfino precisi elementi tematici, si rivela uno strumento incomparabilmente più duttile per conferire loro una forma letteraria nella quale gli aspetti oggettivi e quelli soggettivi si fondano, nel testo, in un’unica immagine, coesa e coerente.
Ciò dovrebbe bastare a comprovare la fondatezza dell’ipotesi che vede nel “flusso di coscienza” joyciano una forma di superamento (che andrà intesa nel senso hegeliano di Aufhebung) dei modi descrittivi del realismo. La controprova più probante e convincente è costituita dalla stupefacente esclusione del capolavoro joyciano da quella specie di canone del “realismo” della letteratura occidentale che, a torto o a ragione, si è voluto scorgere nel capolavoro critico di Erich Auerbach. Più che la sporadicità dei giudizi sull’opera di Joyce11, e più ancora del loro tono costantemente derogatorio (il quale potrebbe essere attribuito, in maniera sbrigativa, a una banale idiosincrasia del critico), ciò che è significativo in questa vistosa assenza è proprio ciò che la giustifica: l’impossibilità per Auerbach di applicare in maniera efficace le proprie categorie storico-critiche all’analisi di un testo quale Ulysses. Senza bisogno di menzionare gli episodi notturni e quelli conclusivi dell’opera, che sono i più originali e, a tratti, oscuri12, già solo gli esempi di monologo interiore presenti nei primi tre episodi della “Telemachia”, progressivamente sempre più lunghi e complessi, rappresentano per la concezione auerbachiana di “realismo” un’anomalia difficilmente accettabile. Et pour cause.
Persino nel caso di un breve e limpidissimo passo come quello citato, sarebbe oltremodo riduttivo limitarsi a scorgervi semplicemente un «riflettersi della coscienza»13 del personaggio. Ciò che viene messo in gioco, perfino in questo frammento minimo, è la possibilità − anzi, la necessità −, dopo l’esperienza simbolista, di foggiare uno stile letterario in cui linguaggi diversi si fondano per comporre un “impasto” verbale capace di dare forma ed espressione a un diverso modo di cogliere e rappresentare la realtà, tanto oggettiva (la spiaggia di Sandymount in una soleggiata mattina di giugno) che soggettiva (i ricordi, le percezioni attuali e le parole che attraversano la coscienza del personaggio), e il loro amalgamarsi nella coscienza del soggetto − e, soprattutto, nella concreta tessitura del testo. Ormai è evidente che, per Joyce, come era stato per Flaubert, «lo stile è di per se stesso una maniera assoluta di vedere le cose» («le style étant à lui tout seul une manière absolue de voir les choses»)14, e che, pertanto, sarà solo attraverso la reinvenzione della lingua, la decostruzione dei suoi codici e cliché, la fusione dei linguaggi, la confusione dei piani enunciativi che la “realtà” potrà essere colta e ricostruita verbalmente nelle sue diverse manifestazioni tanto oggettive che soggettive. Sono proprio questi presupposti della pratica modernista della scrittura e delle sue modalità di rappresentare il “reale” conformemente a una nuova maniera d’intendere i concetti di oggettività e soggettività che, negli stessi anni di gestazione di Mimesis, suscitarono anche in Lukács un disagio analogo a quello di Auerbach, benché alimentato da ragioni assai differenti, e tuttavia convergenti in una medesima reazione di rifiuto nei confronti dell’opera di Joyce.
Nelle diverse forme di scrittura modernista, di cui quella joyciana costituisce l’espressione più compiuta, coerente e consapevole, e nelle quali la visione positivista della realtà che, ancora per un Flaubert, permetteva di distinguere oggettività e soggettività si trova sistematicamente rimessa in discussione, Lukács, forte delle proprie certezze dottrinali, rilevava che, «nonostante la straordinaria varietà esteriore dei soggetti e del modo di svolgerli, ritroviamo in questo accostamento di oggettività falsa – perché morta – e di soggettività falsa – perché vuota – la vecchia definizione marxiana dell’ideologia della decadenza: immediatezza e scolastica»15. Dal punto di vista marxista di Lukács, l’oggettività poteva essere definita detta «falsa», perché essa esprimerebbe quelli che sono solo «i risultati finali della deformazione capitalistica dell’uomo», e la soggettività appariva «morta», perché il soggetto della letteratura modernista sarebbe unicamente quello “alienato”, deformato da un sistema di produzione di cui l’artista e lo scrittore non avrebbero fatto altro che limitarsi a registrarne gli effetti nefasti sull’individuo come se questi fossero stati il prodotto di un destino fatale e ineluttabile (e, quindi, immodificabile).
Pur partendo da presupposti teorici tanto diversi, Lukács e Auerbach, nella sostanza, concordano in un identico giudizio negativo sul “realismo” joyciano. Quello che agli occhi di Auerbach appare, in un’opera quale Ulysses, come un «simbolismo che sfugge a ogni interpretazione, perché anche l’analisi più esatta non riuscirà ad altro che a cogliere il molteplice intreccio dei motivi, ma non l’intento e il significato»16, corrisponde con buona approssimazione a ciò che per Lukács era la «scolastica» che minacciava la letteratura modernista e ch’egli definiva un «sistema di pensiero estremamente complicato, che opera con categorie quanto mai sottili e lambiccate»17. Per entrambi, ciò che mancherebbe alla scrittura modernista in generale e, in particolare, a quella joyciana sarebbe, come si esprimeva sarcasticamente Lukács, «soltanto una quisquilia: di non riferirsi al nocciolo della questione»18. E per entrambi il «nocciolo della questione» era rappresentare la “realtà”, tanto oggettiva che soggettiva, assunta (pregiudizialmente) come il referente concreto di un sistema di segni (la “letteratura”) che avrebbe dovuto trarre senso e giustificazione dalla propria “adeguazione” ai dati oggettivi che quella fornirebbe.
In quanto superamento delle forme del realismo ottocentesco, Ulysses non ne è necessariamente la negazione; tuttavia, per la letteratura, dopo Ulysses , la posta in gioco è ormai un’altra. La «realtà rappresentata» non si commisura più a una “verità” che dovrebbe garantire l’adeguazione tra i due momenti (quello della “realtà” e quello della sua rappresentazione verbale). In Ulysses , la “realtà” entra nel gioco infinito della letteratura come uno dei suoi molteplici elementi: dettagli colti “dal vero” ed echi letterari, ricordi di conversazioni e vivide percezioni, osservazioni minuziose e fantasie semi-consce entrano a far parte della costruzione letteraria come suoi atomi o molecole semplici, ciascuna delle quali dotata (forse) di una funzione e di un significato, che possono anche sfuggire al lettore e interprete; ma la loro presenza, nero su bianco, produce nel testo un effetto di senso che comunque provoca, stimola, eventualmente frustra, l’acume del lettore. Per Auerbach, spazientito, non si tratta che di un «simbolismo che sfugge a ogni interpretazione, perché anche l’analisi più esatta non riuscirà ad altro che a cogliere il molteplice intreccio dei motivi, ma non l’intento e il significato»19. Con ogni evidenza, è proprio così: lo comprova la proliferazione, incessante e sempre crescente, di nuovi commenti e interpretazioni di Ulysses (e delle più disparate − scrivere “disperate” non sarebbe un refuso). Ma questo comprova, altresì, che, scrivendo la propria opera, la posta in gioco per Joyce non era più quella di rappresentare il reale al di là del sistema dei generi e della convenzionale separazione dei livelli stilistici: a ciò aveva provveduto un secolo di rivoluzioni romantiche e realiste, simboliste e naturaliste. Assumendo e superando questa duplice tradizione che attraversa da un capo all’altro il XIX secolo, Joyce, all’inizio del secolo successivo, s’inoltra con Ulysses in un territorio ancora letterariamente inesplorato.
L’immagine di Parigi che, soprattutto nel terzo episodio, riaffiora insistentemente alla memoria di Stephen − e che si fissa nelle parole del testo di Ulysses − è tanto una rappresentazione precisa e dettagliata di un referente “reale”, quanto un dato proveniente dalla coscienza rammemorante del personaggio, un simbolo carico di senso della sua mitologia personale, o forse un minuscolo frammento del discorso enciclopedico dell’“opera mondo” che tutto abbraccia, o pretende di abbracciare (e, probabilmente, sarà pure qualcos’altro ancora che in questo momento ci sfugge). Negli «ardui labirinti, / infinitesimali e infiniti, / mirabilmente meschini, / più popolosi della storia» che, con «ostinato rigore»20, Joyce ha costruito componendo Ulysses, ogni elemento, ogni dettaglio, ogni singola tessera pare destinata a occupare un posto preciso, e unico, nell’immenso mosaico, acquistando così un significato − potenzialmente, e magari arbitrariamente21. O almeno questo è quanto Joyce ha voluto far credere a quelle «nature sensibili» tra i suoi lettori, di cui Auerbach parla non senza una vena di sarcasmo22.
Ma queste sono dispute di scuola.
Quello che al lettore rimane, nero su bianco, è un breve paragrafo di poche parole23, in cui è stata fissata un’immagine di Parigi «al risveglio» quale nessuno scrittore, prima di allora, l’aveva mai vista, né fatta vedere − a eccezione di Baudelaire, naturalmente, che, nelle forme della propria poesia lirica, aveva saputo evocare il «crepuscolo del mattino» parigino come un’immagine altrettanto ricca di segni, che forse sono allegorie o simboli, benché quotidiani, banali, arbitrari, svuotati di senso. Nella pagina di Joyce, Parigi si dissolve come referente “reale” della descrizione per condensarsi in poche righe, nelle quali lo spettacolo mattutino della metropoli pare assumere il carattere di un’epifania, ma senza alcuna «rivelazione spirituale»: è piuttosto un frammento di scrittura che si regge «da sé per la forza interna del proprio stile, come la terra si regge nell’aria senza essere sostenuta»24. Per il rilievo e la precisione dei dettagli, per il suo sottile umorismo, per il suo crudo lirismo (molto baudelairiano), questo paragrafo di Ulysses spinge il realismo al di là di se stesso − e sembra dare corpo all’ideale vagheggiato da Flaubert di una scrittura capace di reggersi in virtù della propria «forma interamente voluta» (l’espressione è, di nuovo, flaubertiana).
A distanza di poco meno di un secolo dalle scènes de la vie parisienne di Balzac, affollate e fantasmagoriche, con questa folgorante immagine di Parigi, strappata al flusso dei ricordi di Stephen Dedalus, è un altro, nuovo paradigma letterario che s’inaugura.

Note

  1. Per ragioni bassamente sentimentali, citiamo la traduzione di Giulio de Angelis del terzo episodio dell’Ulysses (Mondadori, “Meridiani”, Milano 1983, qui pp. 51 e 57), pur tenendo sempre presente l’eccellente versione di Enrico Terrinoni (Newton-Compton, “Mammut”, Roma 2012, pp. 64 e 68, dove si legge «alghe e conchiglie crepitanti» e «il respiro ascendente dei liquami»). Per l’originale, il testo seguito è quello dell’edizione Penguin, Harmondsworth 1994, pp. 45 e 50.
  2. G. de Angelis, Commento a “Ulisse”, in J. Joyce, Ulisse, cit., p. 1084.
  3. J. Joyce, Ulisse, cit., p. 59 e, per l’originale, Ulysses, cit., pp. 52-53. Segnaliamo che, più fedelmente, per quanto riguarda il significato, Terrinoni traduce «con le loro basette compiaciute» l’inglese «wellpleased pleasers» (J. Joyce, Ulisse, cit., p. 69). Per mera pedanteria, aggiungiamo che la prima versione francese del testo, condotta sotto la supervisione di Joyce medesimo, suonava: «charmeurs charmés, conquistadores au petit fer» (Ulysses, traduction de Auguste Morel assisté par Stuart Gilbert, entièrement revue par Valéry Larbaud et l’Auteur, Gallimard, Paris 1930, p. 47).
  4. Su ciò, cfr. R. Campi, Al di là della mimesis. Auerbach lettore di Flaubert, in Mimesis. L’eredità di Auerbach, a cura di I. Paccagnella e E. Gregori, Esedra, Padova 2009, pp. 387-397.
  5. P. Brooks, Realist Vision, Yale University Press, New Haven and London 2005, p. 201.
  6. Ibid.
  7. Peraltro l’ambizione di Joyce di fornire col proprio capolavoro una sintesi dell’intera tradizione letteraria inglese è esibita nel virtuosistico, ma certamente non gratuito, tour de force parodistico costituito dalla trentina di pastiches di stili letterari e linguaggi − dall’antico anglosassone allo slang contemporaneo − che si susseguono, in ordine cronologico, nel corso di tutto il quattordicesimo episodio (“Le mandrie del sole”).
  8. Si rammenterà che gli spazzini compaiono, alla stessa ora, anche nella lirica di Baudelaire; in «Le Cygne» (vv. 14-16), si legge: Là je vis, un matin, à l’heure où sous les cieux / Froids et clairs le Travail s’éveille, où la voirie / Pousse un sombre ouragan dans l’air silencieux, / Un cygne («E là io vidi, un mattino, all’ora in cui sotto cieli freddi e chiari il Lavoro si sveglia, e gli spazzini levano un oscuro uragano nell’aria silenziosa, // Un cigno», traduzione di Attilio Bertolucci).
  9. É. Zola, Nana, Gallimard, “Folio”, Paris 2016, p. 260.
  10. Si veda, per un confronto, il passo all’inizio della seconda parte dell’Éducation sentimentale (Garnier-Flammarion, Paris 1985, II, 1, pp. 156-157), in cui è descritto il ritorno a Parigi di Frédéric, che, di prima mattina, attraversa in diligenza il faubourg Saint-Marcel.
  11. In tutto, non sono più di quattro i brevi (e brevissimi) passaggi in cui viene menzionato il nome di Joyce; cfr. E. Auerbach, Il calzerotto marrone, in Mimesis, Einaudi, Torino 1988, vol. 2, pp. 321, 328-329, 331 e 336.
  12. Su ciò, cfr. V. Baldi, Auerbach e Joyce. Ipotesi per una nuova tipologia di rappresentazione della realtà, in La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, a cura di R. Castellana, Artemide, Roma 2009, pp. 89-98.
  13. Cfr. E. Auerbach, Mimesis, cit., p. 321.
  14. Cfr. la lettera a Louise Colet del 16 gennaio 1852, in G. Flaubert, Correspondance, Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, Paris 1980, t. II, p. 32. Rammentiamo che Auerbach cita questa stessa frase nel capitolo All’hôtel de La Mole di Mimesis, cit., vol. 2, p. 266.
  15. G. Lukács, Marx e il problema della decadenza ideologica, in Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1964, p. 190; il saggio risale al 1938.
  16. E. Auerbach, Mimesis, cit., p. 336.
  17. G. Lukács, Marx e il problema della decadenza ideologica, cit., p. 191.
  18. Ibid.
  19. E. Auerbach, Mimesis, cit., p. 336.
  20. Sono le memorabili parole dell’«Invocación a Joyce» di Borges (cfr. L’elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1978, p. 91).
  21. Su ciò, cfr. R. Campi, Il senso del dettaglio. Scrittura e metodo in Ulysses, in Favole per dialettici. Allegoria e modernità, Mimesis, Milano 2005, pp. 21-58.
  22. E. Auerbach, Mimesis, cit., p. 328.
  23. Ottantatre, per l’esattezza.
  24. Sono le celebri parole con cui, nella lettera già citata a Louise Colet del 16 gennaio 1852, Flaubert parlava di quel «libro su nulla» ch’egli vagheggiava di scrivere.

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