Bibliomanie

Da skianto a schiavo: il controcanto civile del punk bolognese
di , numero 50, dicembre 2020, Saggi e Studi, DOI

Da skianto a schiavo:  il controcanto civile del punk bolognese
Come citare questo articolo:
Ugo Russo, Da skianto a schiavo: il controcanto civile del punk bolognese, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 50, no. 3, dicembre 2020, doi:10.48276/issn.2280-8833.5375

Se Bologna celebra oggi le stars internazionali del jazz che l’hanno frequentata nelle centralissime via Orefici e via Caprarie (con tanto di stelle di marmo incassate nel selciato, a mo’ di una felsinea walk of fame), oppure i suoi cantautori (Lucio Dalla in primis, le cui note risuonano in Via d’Azeglio, la cui sagoma si affaccia su Piazza dei Celestini), è doveroso ricordare che, a cavallo tra gli anni 1970 e 1980, il capoluogo emiliano è stato la città più punk d’Italia. In inglese, punk può significare «rifiuto», «scarto», «delinquente», «prostituta», varie accezioni che rimandando comunque sempre alla trivialità e alla marginalità. Il movimento punk stesso è polisemico: trattasi innanzitutto di una corrente musicale che esaspera l’urgenza del rock’n’roll, aumentando i battiti per minuti, saturando ancora di più il suono delle chitarre. Le canzoni sono brevi, i testi essenziali esprimono disagio sociale, rabbia politica, distacco ironico. Il punk è anche una subculture, come la definisce lo studioso Dick Hebdige che dedica uno dei primi studi al movimento nascente; una sottocultura con un’estetica propria e una filosofia, quella del «do it yourself»: chiunque può suonare, scrivere, creare una fanzine, contano di più la sfrontatezza e la cocciutaggine che non la preparazione tecnica. È quanto simboleggia anche la moda punk, fatta di elementi disparati tenuti assieme con le spille da balia. Il punk, infine, è anche una sorta di etica, uno stile di vita intriso di pessimismo racchiuso nel motto «no future».
Del panorama bolognese, si ricordano soprattutto gli Skiantos e i Gaznevada, i due gruppi di punta del Movimento del ‘77 che ebbero successo sui palchi nazionali: tuttavia, il sottobosco del punk cittadino è particolarmente intricato e non può essere riassunto alla parabola di questi due complessi capostipiti. L’evoluzione della scena punk, suddivisa in due ondate ben distinte, in due «anti-scuole» apparentate ma antagoniste, rispecchia l’evoluzione politica e la storia travagliata dell’intera città: le vicende attinenti al campo della «musica leggera», durante gli anni plumbei della «strategia della tensione», sono parte integrante della storia comunale. Va precisato che il presente saggio breve si soffermerà soltanto su alcune peculiarità dello scenario bolognese: per un’analisi più approfondita del panorama della cultura musicale italiana, rimandiamo a Contro canto di Antonio Fanelli (Donzelli, 2017) e Storia culturale della canzone italiana di Jacopo Tomatis (Il Saggiatore, 2019).

I. «Largo all’avanguardia, pubblico di merda»: il punk-rock demenziale

È impossibile parlare del Movimento del ’77 senza menzionare gli Skiantos, gruppo simbolo della controcultura bolognese: capitanati dall’imprevedibile Roberto «Freak» Antoni, essi catturano lo zeitgeist di una città in preda ai fermenti politici e poetici. L’avventura degli Skiantos incrocia spesso quella del piccolo gruppo di agitatori culturali della rivista A/traverso e di Radio Alice (capitanati da Franco « Bifo » Berardi, leader del Settantasette bolognese), la radio libera che emette da una soffitta in via del Pratello e dà voce alle rivendicazioni plurali del movimento così come alla «immaginazione al potere» degli Indiani metropolitani. Gli Skiantos frequentano pure un altro appartamento centrale nella genesi del Movimento del ‘77, la così battezzata Traumfabrik («fabbrica dei sogni») del fumettista Filippo Scòzzari, una sorta di Factory, appunto, in cui artisti di ogni risma si incontrano e scambiano idee, pratiche e droghe. La miscela tra musica e fumetto è l’aspetto più saliente della casa occupata: ospiti e gente di passaggio partecipano ad un rito creativo collettivo e quotidiano, colorando coralmente fogli sparsi e pareti, sulle note acide del rock anglosassone e dei primi album punk importati a Bologna dai rari fortunati che possono permettersi un viaggio oltremanica. Questa pratica emula quella della Beat Generation e dei suoi scrittori che battevano sulle macchine da scrivere seguendo il rimo sincopato delle improvvisazioni bebop: le pagine di Andrea Pazienza sono intrise di riferimenti musicali e riproducono, in un certo senso, con i loro collage di stili eterogenei, le armonie distorte del punk-rock. Nella Traumfabrik vede così luce il Centro d’Urlo Metropolitano, i cui membri confluiranno in seguito nel gruppo Gaznevada. La droga ha un ruolo centrale nella casa: «Mamma dammi la benza», hit del Centro d’Urlo/Gaznevada e vero e proprio inno del movimento, evoca gli stati alterati di chi sente la «mancanza» di «benza» (la benzedrina), di chi non può «farne senza» e sa di essere in preda alla «dipendenza»… I riff di chitarra, avvolti in un lisergico effetto phaser, seguono la tradizionale struttura metrico-armonica del rock’n’roll ma con un piglio sfrenato che traduce forse l’accelerassi del ritmo cardiaco di chi è in preda allo sballo oppure all’adrenalina dello scontro politico: «non resta che la violenza/per romper la sorveglianza», «noi siamo la delinquenza/noi non portiamo pazienza». Parole che, nel 1977, risuonano fortemente, rimandando alle vicissitudini dei «non garantiti» e all’inasprirsi delle piazze italiane.
Il Movimento del ’77 bolognese, fedele agli insegnamenti delle avanguardie storiche del futurismo, del dadaismo o del situazionismo, mette in atto una rigorosa iconoclastia generalizzata ricorrendo ad un uso massiccio dell’ironia; un’ironia avvolgente e totalizzante, carnevalesca, che prende di mira le figure del potere, le ovvietà e le tradizioni, rovescia la quotidianità e dà luogo ad un tempo sospeso in cui s’insinua la possibilità di cambiamenti repentini. Gli Skiantos adoperano il modus operandi dell’approccio degradante: nel loro manifesto artistico, Inascoltable, album d’esordio per gran parte improvvisato e registrato in un’unica notte, Freak Antoni e colleghi rivendicano la loro natura di musicisti «negati», dediti al rumore («schianto», appunto) più che all’orecchiabilità. L’ironia del gruppo è racchiusa nella dicitura «rock demenziale», presunto genere musicale: se il concetto è altamente labile e cambia a seconda delle dichiarazioni1, il demenziale potrebbe definirsi come uno sfasamento e uno scollamento rispetto alla logica, alla norma e alla salute mentale. Questa parodia, questo «controcanto» in senso etimologico, presenta delle caratteristiche che formano una vera e propria anti-arte poetica, tra cui:

– L’uso della lettera «k» nel nome del gruppo e nei titoli delle canzoni: «Makaroni», «Kakkole», «Sesso e Karnazza»… Questa contaminazione alfabetica straniera, che rimanda ad un uso politico della storpiatura dei cognomi e delle parole (« Kossiga », « l’imperialismo amerikano »), ma anche in un certo modo alla parola punk, è associata al recupero di un registro basso e carnevalesco, dal cibo al sesso passando dalle secrezioni.

– L’uso di giochi di parole, lapsus, difetti di pronuncia che corrompono il senso originale di un’espressione, aprendo così nuove prospettive di interpretazioni deliranti. Sul palco, gli Skiantos indossano magliette e portano cartelli che recano scritte demenziali: «Sì, ero positivo», «Lardo ai giovani». Freak Antoni si specializza nel détournement e nella creazione di detti: «La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo e spesso prende la mira anche al buio»2.

– Il recupero del dialetto e dello slang, il dialogo tra termini bolognesi e gli stilemi linguistici della musica anglosassone: il blues si suona «a balùs», ossia tanto e con piacere. L’introduzione di «Eptadone», pietra miliare degli Skiantos che figura nel loro secondo album Mono TONO (il cui titolo insiste, ancora una volta, sull’anti-musicalità), consiste in un memorabile siparietto in uno slang bolognese contaminato dal gergo dello droga. Le voci, filtrate e rese acutissime da un pitch shift, estremizzano l’effetto straniante e spassoso dello sketch:

– Ma che cazzo me ne frega?!?
– Genere ragazzi, genere!
– Ehi sbarbo, smolla la biga che slumiamo la tele…
– Sei fatto duro, sei fatto come un copertone!
– Ci facciamo?
– Sbarbi, sono in para dura!
– Ok, ok nessun problema ragazzi, nessun problema!
– Sbarbi, sono in para dura!
– Schiodiamoci! Schiodiamoci!
– C’hai della merda?
– Ma che viaggio ti fai?
– C’hai una banana gigantesca!
– Oh c’hai della merda o no?
– Un caccolo!
– Ma che viaggio ti fai?
– Intrippato!
– Brutta storia ragazzi, brutta storia…
– C’ho delle storie ragazzi, c’ho delle storie pese!
– C’hai delle sbarbe a mano?
– No, c’ho delle storie!
– Fatti questo slego: «Uno due sei nove3

Questi valori fondativi dell’anti-arte poetica degli Skiantos sono scelte consapevoli e dissacranti: l’effetto esasperante delle rime banali, la disarmante pochezza delle tematiche affrontate, le spiazzanti libere associazioni («sesso e gianduia»4) mirano in realtà a ritrovare la forza onomatopeica e catartica del rock anglo-sassone. La follia demenziale rimanda, per certi riguardi, all’arte dei pagliacci: il demente indossa una maschera che, nella sua esagerazione, riesce a svelare significati reconditi e creare effetti nel pubblico. Il frontman del primo punk-rock non è più il divo dionisiaco alla Jim Morrison o alla Robert Plant, non evoca più la figura del poeta maledetto; nonostante la loro apparente scarsità, i testi di Antoni sono pregni di un nonsense piuttosto raffinato, da riallacciare alla tradizione britannica e soprattutto a Lewis Caroll. Alice, cui Celati dedica un corso universitario5, è un riferimento letterario e simbolico imprescindibile, una vera e propria patrona per l’intero movimento bolognese. Nella sua tesi di laurea dedicata ai Beatles (sempre sotto la direzione di Celati), Antoni teorizza già la sua anti-arte poetica, soffermandosi sulle difficoltà dell’importare il fenomeno rock in Italia: la musica vi è troppo legata ai canoni del bel canto e della canzone napoletana e non riesce a trasmettere la forza dirompete dell’inglese. La lingua italiana, accentata e scarseggiante di parole tronche, richiede un maggiore sforzo per essere piegata al ritmo e alle sonorità di derivazione rock’n’roll.
Come i Gaznevada, gli Skiantos rimangono fortemente legati alle radici rock-blues della musica anglosassone (basti pensare a «Pesto duro (I kunt get no satisfaction)», quasi cover del brano dei Rolling Stones): nonostante questa evidente filiazione, le esperienze musicali non sono soltanto un mero fenomeno di importazione. Se il rock rimane nelle coordinate dei gruppi musicali legati al Movimento del ’77, si scorgono già alcune peculiarità meramente punk, prima di tutto la tendenza al do it yourself: non-musicisti si affidano a non-fonici e a non-produttori per dare sfogo alla loro urgenza espressiva. L’avventura dei primi gruppi è così anche un’avventura «proto-imprenditoriale», con l’etichetta indipendente Harpo’s Bazaar di Oderso Rubini6 che muove in primi passi nel mondo della produzione. La propensione alla provocazione, ampiamente illustrata dai concerti degli Skiantos, in cui i musicisti prendono di mira il pubblico, insultandolo («Pubblico di merda!») e lanciandogli frutta e verdura, rovesciando così spudoratamente la dinamica usuale, annuncia già gli atteggiamenti punk il cui intento è di épater le bourgeois. La vena polemica, la propensione alla violenza (del tutto simbolica, nel caso degli Skiantos) e l’abbattimento della «quarta parete» rimandano al futurismo e al situazionismo, le cui pratiche hanno un ruolo decisivo nel plasmare il movimento punk:

La performance della verdura […] consisteva nell’investire il pubblico, a metà concerto, con verdura di scarto, innocua e non contundente, ma decisamente provocatoria. Volevamo ribaltare i ruoli: x la prima volta era l’artista che tirava pomodori al pubblico e non viceversa, com’è sempre accaduto. Inoltre ci interessava coinvolgere lo spettatore, renderlo attivo, partecipe. Schiodarlo dalla poltrona e dalla sua immobilità storica. Coinvolgerlo in un grande happening; spiegargli con l’esempio che lo spettacolo potevamo e dovevamo costruirlo assieme. Tutto questo x spezzare la separazione classica e monotona tra artista e pubblico7.

II. Cantine, asfalto e spaghetti

Nel 1979, i musicisti del sottobosco bolognesi si radunano, dietro iniziativa della Harpo’s Bazaar, nel Palazzetto dello Sport in occasione del «Bologna Rock»8. L’evento, sottotitolato «dalle cantine all’asfalto», vuole portare alla luce la ricchezza del milieu musicale, far emergere l’underground cittadino. La locandina del festival, nel più puro stile do it yourself, rappresenta una specie di invasione aliena di Bologna (la cui sagoma «turrita» è stata verosimilmente ritagliata in un’incisione antica): due dischi volanti folgorano il centro della città mentre la smisurata R maiuscola a forma di lampo della parola «Rock» trafigge e taglia a metà la torre degli Asinelli. Sul palco del Palazzetto dello Sport, quindi, si esibiscono i seguenti artisti: Skiantos, Windopen, Luti Chroma, Gaznevada, Bieki, Rusk und Brusk (noti per il tormentone «Merda a mezza gamba»), Naphta, Confusional Quartet (tutti rigorosamente vestiti di bianco come i drughi di Arancia meccanica), l’armonicista americano Andy J. Forest (& the Stumblers), Frigos, Cheaters (il cui cantante sembra un sosia di David Bowie). Il grande successo del Festival rappresenta un momento simbolico molto forte che annuncia una certa rinascita dello spirito degli Indiani metropolitani o comunque una continuazione della creatività, proprio nel luogo in cui si era consumato il drammatico divorzio delle forze politiche del movimento in occasione del Convegno contro la repressione (settembre 1977). I concerti iniziano alle ore 19.00 con il gruppo Bieki (nel cui nome ritroviamo l’uso della lettera «k»). Il chitarrista Stefano Mazzanti ricorda un momento storico e particolarmente punk, in cui l’energia primeggia sulla precisione tecnica e la preparazione:

Il ricordo più particolare è che, salito sul palco, visto che noi Bieki aprivamo il concerto, chiesi al tecnico mixer di aspettare perché dovevo accordare la chitarra e lui mi rispose «che cazzo te ne frega, suona!». Lì per lì, ci rimasi male ma poi ripensandoci credo che non era importante fare un buon concerto ma quello che noi tutti potevamo esprimere profondamente, al di là dei tecnicismi, era la nostra voglia di esserci con le nostre idee e la nostra visione della vita che permeava trasversalmente la Bologna di allora9.

Gli Skiantos sono l’attrazione principale del Bologna Rock: fedeli alla loro indole provocatrice, trasformano però la loro esibizione in un happening non-musicale. Il gruppo si presenta sul palco con un frigorifero, un televisore, un tavolo, un forno e un piano cottura sul quale bolle una pentola d’acqua: anziché suonare le loro canzoni, i musicisti mettono in scena una spaghettata. La beffa è situazionista e carnevalesca: tra l’altro, gli Skiantos indossano imbuti e scolapasta a mo’ di cappelli, come nelle rappresentazioni medievali dei pazzi e dei buffoni. Nel Palazzetto, luogo per eccellenza dell’agonismo sportivo e politico, il non-concerto degli Skiantos scatena reazioni di violenza simbolica come testimoniano gli scatti di Enrico Scuro: il palco è coperto dai detriti lanciati dal pubblico. La tavola di mixaggio viene sommersa da un gavettone, il che impedisce la ripresa di un’esibizione già altamente compromessa. Un montaggio video della serata10 lascia intravedere alcuni estratti della follia degli Skiantos: Stefano «Sbarbo» Cavedoni dichiara «era tempo che desideravo prendere per il culo tutti voi, sono felice oggi!»; Roberto Freak Antoni cerca invece di placare gli animi… gettando olio sul fuoco: «Perché non vi offendiate troppo, qualcuno di voi può venire sul palco a mangiare qualcosa… Ci sono gli spaghetti!»; al che risponde Cavedoni, con immutata verve demenziale: «Soltanto qualcuno, però!».

III. Stragi e disgregazione nell’«isola felice»

La spaghettata degli Skiantos, pur essendo un tour de force demenziale, non piace a tutti e segna un momento di svolta:

Il 2 aprile 1979 alla kermesse di Bologna Rock gli Skiantos decisero di chiudere definitivamente con quel gioco. Fu un momento molto drammatico. Dal giorno successivo a quella spaghettata sul palco molte persone, ritenute amiche, ci tolsero il saluto. La provocazione era stata troppo forte e inaccettabile per tanti. Non capimmo che il pubblico, che ritenevamo nostro complice, non fosse preparato a quell’affronto. Fu la fine del gioco. Ci rendemmo conto che ogni bel divertimento dura poco. La nostra provocazione aveva toccato, a secondo dei punti di vista, il fondo e l’apice nello stesso momento11.

La provocazione degli Skiantos assume così i connotati di un evento spartiacque che annuncia diatribe e cambiamenti profondi sulla scena musicale bolognese. La città stessa è un microcosmo fazioso agitato da una violenza politica sempre più endemica: già nel 1977, dopo l’uccisione dello studente e militante Francesco Lorusso, la città aveva subito un intensificarsi dell’eversione. Il 4 e 5 aprile 1977, gli esponenti del nucleo storico delle Brigate Rosse Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono processati nel capoluogo emiliano: la macchina del presidente del tribunale è incendiata prima del processo. Sarebbe qui troppo lungo addentrarsi nell’analisi dello stillicidio di violenze, rappresaglie e minacce che agitano la città: nelle parole di Mirco Dondi, alla fine degli anni Settanta, «si stava mettendo in moto una spirale di attentati e irruzioni armate destinata a condurre il capoluogo felsineo a livelli d’allarme impensabili solo qualche mese addietro, paragonabili a realtà più grandi e con una lunga tradizione di conflittualità alle spalle12». Le piazze bolognesi, un tempo luoghi di aggregazione e creatività spontanea celebrati da Enrico Palandri nel suo Boccalone13, si svuotano: Piazza Verdi, in mano ai «teppisti», non è più un luogo sicuro; gli Indiani metropolitani non si ritrovano più sotto i «totem» di Arnaldo Pomodoro. Oltre alla violenza endemica e intestina, Bologna è al centro delle trame di ampia portata della «strategia della tensione»: dopo la strage del treno Italicus (4 agosto 1974) e quella di Ustica (17 giugno 1980), la strage alla stazione (2 agosto 1980) rappresenta l’ennesimo tentativo di destabilizzazione della città rossa e dell’intero Paese. La reazione esemplare dei Bolognesi, che si organizzano spontaneamente per soccorrere le vittime tra le macerie, riporta in auge l’impegno civile caratteristico della città Medaglia d’Oro al Valore Militare e permette alla popolazione e alle istituzioni di rimanere in piedi. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in occasione dei funerali delle vittime il 6 agosto 1980 in Piazza Maggiore, rimane silenzioso al fianco del sindaco Renato Zangheri poggiando la mano destra sul leggio, un gesto pudico che racchiude compassione e fermezza. Nonostante la resistenza, rimangono la paura e l’esasperazione, così come la fredda consapevolezza che Bologna è diventata un bersaglio del terrorismo nero.
La disgregazione degli anni post-Settantasette è anche segnata dall’arrivo massiccio dell’eroina a Bologna. Il microcosmo della Traumfabrik viene travolto da questa nuova epidemia, da questa «strage» silenziosa e quotidiana, come ricorda Filippo Scòzzari:

E con Patrizia alla Traumfabrik fece il suo ingresso, pompa e circostanza, l’eroina. Tah ta tataan. Giù tutti, cani. Fate la riverenza. Giù, alla pecora. E guai chi si alza. I miei ragazzi non è che fossero proprio alieni dalla tentazione ma, insomma, fino a quel momento avevano marciato ad afgano, quando lo trovavano, e sull’asse del water avevano vomitato solo oppio, se erano riusciti a rimpinzarsene. Patrizia faccia elegante cominciò a farsi di fronte a quelle anime studiose e indifese. Il primo a cadere ipnotizzato fu Gianluca. Bruciò le tappe così alla svelta che già due settimane dopo lo chiamavo « Steringa », come le siringhine da insulina di cui era diventato ghiotto14.

Tra i creativi ammaliati dall’eroina c’è anche Andrea Pazienza15 che morirà tragicamente di overdose nel 1988, lasciando un’opera fumettistica in cui si aggira sempre il fantasma della droga, da Le straordinarie avventure di Pentothal a Gli ultimi giorni Pompeo. I frequentatori della Traumfabrik, seguendo gli insegnamenti delle controculture americane, sono usi allo sperimentare sostanze per «aprire le porte della percezione»; ma l’eroina è una droga diversa che crea una grave dipendenza, una droga disgregante e alienante che contribuisce anche alla diffusione dell’epatite e dell’AIDS:

La prima di Clavature ad andarsene fu una delle Sandre. Faccino strano, carino. Un atteggiamento nei miei confronti un po’ affettuoso e un po’ falso. Un’eleganza irreprensibile, si vedeva che i suoi ci tenevano. Epatite fulminante. […] L’altra Sandra […] la trovarono nei gabinetti di un bar del centro. L’epatite li beccò a uno a uno. Tino Rusco, ricoverato per AIDS, scappò dal reparto ma visse poco lo stesso. Qualcuno ribuscò l’epatite16.

Ai drammi civili rispondono quindi i drammi personali: sono i famigerati «anni del riflusso», gli anni del ritorno nel privato dopo lo smacco dell’utopia politica delle piazze: Bologna non è decisamente più un’«isola felice».

IV. La città più libera del mondo?

Bologna non è neanche più «la vetrina del partito comunista», esso essendo fortemente contestato dalla sinistra extraparlamentare e dai simpatizzanti del movimento: nel periodo che va dalla morte di Lorusso al Convegno contro la repressione, si innesca un dibattito di alto livello tra L’Unità, Rinascita da una parte (e Il Resto del Carlino, per quanto riguarda la stampa locale), e la nuova rivista felsinea Il cerchio di gesso (in riferimento ai segni che evidenziano le tracce dei proiettili dell’uccisione dello studente sul muro di via Mascarella), un dibattito tra due sinistre che non si riconoscono più. Nel primo numero della neo-rivista, il poeta bolognese Roberto Roversi, fondatore della nostra Bibliomanie, partecipa alla disputa con una poesia civile, il Liber paradisus. Il titolo del componimento rimanda al cosiddetto «libro paradiso», un testo di legge che abolì la schiavitù a Bologna nel 1256. I versi roversiani inscenano una prosopopea che, nonostante la sua acronicità, risulta molto polemica e in cui democristiani diventano Visigoti e Unni: «I democristiani non governano l’Italia / ma la gestiscono / In trent’anni l’hanno succhiata leccata masticata / peggio dei Visigoti / e di Attila che correva a cavallo». Nel componimento si intersecano gli immaginari storici, le radici antiche e telluriche della città felsinea («1. La creta, la selenite e l’arenaria. / Di qui nasce il colore di Bologna. / Nei tramonti brucia torri e aria»), il remoto Medioevo e l’epoca contemporanea:

75. A che punto è la città?
La città in un angolo singhiozza.
Improvvisamente da via Saragozza
le autoblindo entrano a Bologna.
C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato.

76. A che punto è la città?
La città si ferisce
camminando
sopra i cristalli di cento vetrine17.

La città è ancora ferita quando, il primo giugno 1980, l’amministrazione comunista decide di organizzare il concerto di The Clash nell’ambito della rassegna «Ritmicittà» ; e lo fa proprio per cercare di rimarginare la piaga che separa i giovani e le istituzioni cittadine. Il concerto è un evento eccezionale: l’Italia, evitata per molti anni dai promotori musicali per via della violenza del suo pubblico18, torna ad ospitare i grandi nomi della musica rock (poco prima del gruppo londinese, lo stadio Comunale di Bologna ospita Patti Smith il 9 settembre 1979). Il concerto dei Clash raduna gli amanti del punk di tutta Italia; Saverio Pasotti, chitarrista del gruppo Windopen, lo ricorda così:

Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore è stato l’inizio per tanti musicisti e per tanti giovani, che si sono avvicinati per la prima volta ad un genere musicale. La piazza era piena e tra il pubblico c’erano tantissimi adolescenti. Quel live colpì pure noi, che eravamo già un po’ smaliziati, figuriamoci che impatto ebbe sui giovanissimi. Segnò la vita di tanti19.

Tuttavia, alcune frange dei punk bolognesi hanno un’interpretazione decisamente avversa: l’evento è una macchinazione dei comunisti che cercano di guadagnare il consenso dei giovani cittadini facendo così dimenticare i propri misfatti. In testa alla protesta, le nuove leve del sottobosco felsineo: Gianpaolo Giampy Giorgetti (oggi nota come Helena Velena dopo la transizione), fondatore del gruppo RAF Punk e dell’etichetta indipendente Attack Punk Records e Steno (cantante del gruppo nichilista Nabat) sabotano il concerto e ne ritardano l’inizio, rovesciando la prospettiva; i Clash, ben lungi dall’essere punk, sono in realtà un gruppo venduto alle majors e al business:

Ad un certo punto il Comune ci diede i Clash, «aggratisse», in Piazza Maggiore. Un maestrale colpo «Zangheropolese». Dove altro «il governo della città» ti passa la rivoluzione, la punta di diamante della ribellione punk, a portar la street credibility a mille??? A parte Joe Strummer e la t-shirt «Brigade Rosse» (l’ho già detto che gli inglesi sono sintatticamente ignoranti verso le altre lingue), noi sapevamo che i Clash non erano affatto la rivoluzione, ma un meraviglioso business in casa CBS […], oltre che il perfetto esempio della moderazione compromissoria PCIsta per cui… Per cui sabotammo il concerto, quasi spaccammo in due la scena nascente confliggendo con i punks meno politicizzati che arrivavano da ogni parte d’Italia, […] e quindi si diffuse la notizia che a Bologna la scena punk non era calci sputi e spille da balia ma, apriti cielo, «anarchia politicizzata»20!!!

In uno spezzone video di quel giorno, il ghigno sardonico di Steno racchiude il distacco ironico del «no future» che segna la nuova ondata dei punk bolognesi, un distacco tuttavia pregno di politica:

Io parlo a nome dei nichilisti… In ogni caso, noi ci poniamo solidali con gli altri, noi siamo per la linea dura, per l’opposizione totale al Comune perché pensiamo che il Comune sia una grossa macchina d’integrazione giovanile visto che il PC vuol dire Comune in ogni caso, anche se ci sono legati dei partiti, è un partito finito, un partito marcio che probabilmente un domani non avrà più niente da dire21

V. Nuovo corso e «no future»

Nel gennaio del 1982, la rivista Frigidaire (tra i cui membri fondatori ritroviamo gli agitatori della Traumfabrik Scòzzari e Pazienza) dedica un reportage a «Bologna la punk», lasciando la parola ai giovani esponenti del movimento underground bolognese. Le foto in bianco e nero, scattate davanti al negozio Disco d’oro di via Marconi, nella zona meno caratteristica della città, cozzano con l’immagine tradizionale di «Bologna la dotta, la grassa, la rossa» e cercano di tradurre il disagio urbano proprio del movimento punk. Gli scatti rivelano anche la novità del panorama sartoriale della sottocultura giovanile: spille, toppe, vestiti neri e rammendati, borchie e cuoio… È manifesta la derivazione anglosassone di questi attributi così come lo sono i rimandi al gruppo anarco-punk Crass (celebrato sulle scritte che ornano i vestiti), capostipite di una corrente radicale che potremmo definire «anti-Clash». I versi d’apertura del loro cavallo di battaglia White punks on hope recitano: «They said that we were trash, / well the name is Crass, not Clash. / They can stuff their punk credentials / cause it’s them that take the cash»22. I giovanissimi punk bolognesi (gli intervistati hanno tra i diciassette e i vent’anni) non riconoscono più le piazze come cuore pulsante dell’aggregazione cittadina e prediligono la dimensione confidenziale e periferica dei nascenti centri sociali:

[…] non intendiamo perderci in grandi battaglie per il conseguimento di grandi ideali che mobilitino grandi masse, o meglio, non solo: ritengo che sia importante conquistare degli spazi propri, autogestirli e all’interno di questi muoverci con delle azioni, e viverci il meglio possibile anche a livello individuale23.

La marginalità urbana diventa così il nuovo valore portante dell’edificio simbolico della sottocultura: cemento, luoghi abbandonati e grigiore traducono la potenza ctonia del nuovo punk24. Il punk è una musica granitica, sotterranea in senso stretto: quando non si riuniscono nella discoteca Tilt di Casalecchio di Reno, i punk bolognesi occupano le cantine del Punkreas (in via de’ Griffoni) o dell’Osteria dell’Orsa (in via Mentana). Non mancano tuttavia gli screzi e la violenza rituale tra le varie suddivisioni del movimento (le «tribù» della «fauna d’arte», come le chiama Pier Vittorio Tondelli nelle sue riflessioni compilate in Un weekend postmoderno): mods, skin, ska, new romantics, teddy boys… Un’accozzaglia di denominazioni, di appartenenze cangevoli con i loro segni di riconoscimento; per parafrasare Deleuze e Guattari, il movimento punk si divide (e si disfa?) in modo sempre più rizomatico25. Ciò che tuttavia accomuna le nuove leve punk è l’alto tasso di antagonismo, soprattutto nei confronti del primo punk-rock bolognese. Nell’articolo di Frigidaire, viene severamente criticata l’infarinatura politica e la tendenza alla mercificazione della musica dei primi complessi cittadini; così Alfredo, 18 anni:

Gaz Nevada? Non abbiamo rapporti con loro. Sono dei cazzoni, non ci interessano, come non abbiamo nessun contatto con l’Italian Record, né ci interessa averlo. L’Italian Record ha contribuito alla rovina di molti gruppi della prima ondata punk ; esempio tipico i Luti Chroma.
– In che senso?
Perché ha cercato di spostare i gruppi verso altri generi, più commerciali, per lanciarli sul mercato e vendere dischi. Con questa politica noi non c’entriamo, le case discografiche non ci interessano26.

L’Italian Records non è che la prosecuzione più professionalizzata della Harpo’s Bazaar; alle aborrite velleità commerciali, la seconda ondata punk risponde con una filosofia do it yourself ancora più radicale: nel 1982, esce la prima compilation siglata Attack Punk Records, Schiavi nella città più libera del mondo. L’antitesi del titolo non è che un rovesciamento di una dichiarazione del sindaco Zangheri che riteneva Bologna la «città più libera del mondo» poco prima del Convegno contro la repressione. Tutt’al contrario, l’Attack Punk Records denuncia l’inganno e afferma che la schiavitù è tornata nella città del Liber paradisus. La copertina dell’EP, in un’estetica perfettamente punk, è un collage che fa vedere sullo sfondo le rovine della stazione sventrata dalla strage; in secondo piano, una formazione di forze dell’ordine in ranghi serrati; in primo piano, infine, le lettere del titolo distribuite su una serie di arroganti natiche. Helena Velena ricorda così l’EP d’esordio della Attack Punk Records:

E più netta ancora, fu poco dopo, la risposta data dalla copertina del nostro primo vinile, il primo vero disco punk italiano della storia, quello Schiavi nella città più libera nel mondo (dice niente il titolo ???) che sovrapponeva una grande quantità di culi nudi beffardi alla foto della stazione di Bologna, quel 2 Agosto. Perché pure quella cristallizzazione di Bologna Città Martire ci pesava, dato che all’antifascismo punk militante noi cercavamo di unire pure un antiborghesismo anti-bottegaio che ci faceva già identificare, 20 anni prima, il Pci nel partito trasversale interclassista e NON di sinistra che già era governo locale in tutti i sensi negativi. E lo sarebbe stato quindi prima o poi anche a livello nazionale, con lo stesso carico di mediocrità riformista e sotto sotto giaccacravattamente pre-pro-global, pure nell’apparenza contraria27.

Sulla compilation sono presenti quattro gruppi (Anna Falkss, Bacteria, RAF Punk, Stalag 17) e otto brani, per una durata di soli quindici minuti. La qualità delle registrazioni è a dir poco apocalittica: il brusio costante delle frequenze basse e l’acidità delle frequenze acute delle chitarre producono una sorta di lava in fusione che divora tutto e sembra anche precipitare l’esecuzione frenetica dei (non-) musicisti. Come per rispondere mimeticamente alla bruttezza della quotidianità, l’armonia musicale si rompe: gli arrangiamenti diventano minimalisti, i suoni sono grezzi, non c’è più cura del prodotto. Proprio perché il punk non deve essere un prodotto, un bene di consumo: se gli Skiantos rivendicavano una «inascoltabilità» e una «monotonia» di facciata, i gruppi della seconda ondata si scagliano contro tutto e contro la musica. A proposito dei RAF Punk, Riccardo Pedrini (Wu Ming 5, già chitarrista dei Nabat) ricorda:

La band pareva intenta a suonare contro se stessa, in modo caotico, viscerale e affascinante. I musicisti sembravano, ed erano effettivamente, in lotta contro se stessi, contro gli altri musicisti, contro gli strumenti, contro l’amplificazione, oltre ovviamente che contro il sistema. Questo conferiva alla musica una qualità agonistica, una tensione e un’urgenza incredibili28.

In Schiavi nella città più libera del mondo, quindi, i testi dei brani sono incomprensibili (e irreperibili), divorati dal magma sonoro e dal fraseggio impetuoso dei cantanti; si riesce ad indovinarne qualche stralcio, qua e là, soprattutto i titoli ripetuti talvolta ad libitum: «Centro sociale occupato!» (Anna Falkss), « Non vogliamo più pagare! » (Bacteria). Uno dei due brani dei RAF Punk («W la resistenza»), si apre con un urlo a cappella alquanto sorprendente: «Pertini è un partigiano! Viva la resistenza!», i punk bolognesi, pur criticando l’immagine della città martire, tentano di riappropriarsi l’eredità politica della resistenza dei Partigiani. I Nabat criticano anche loro aspramente la loro Bologna nel 1984, denunciando il «potere salumiere» di una città bottegaia e borghese i cui interessi sono difesi dal sindaco Imbeni e dalla «giunta sinistrese» : «Merda per me, caro assessore, merda per me primo cittadino! Imbenino!»29. Già nel 1982, il primo EP del gruppo attaccava senza freni la giunta bolognese e invitava i suoi ascoltatori a «scendere nelle strade» e dare «Fuoco alla corte del sindaco di questa sporca città!»30. Il furore distruttore sembra l’unica risposta adatta alla disperazione che impregna la vita quotidiana, Bononia delenda est: «Laida, laida gran Bologna, contro di te voglio la tua fine…». La copertina dell’EP «Laida Bologna» raffigura questa volontà nichilista: lo stemma della città (con il motto «Bologna libertas») viene trafitto da una chiave a rullino (simbolo del gruppo), mentre il leone araldico assiste impotente allo scempio.

Conclusione

Ironia, nichilismo, antagonismo: la negatività diffusa della seconda ondata del punk bolognese potrebbe sembrare un’operazione distruttrice fine a se stessa. In realtà, la tabula rasa è anche un atto di rinnovamento, una dinamica di filiazione e superamento dei retaggi del Movimento del ’77; i cosiddetti «anni di piombo» sono stati in realtà «anni di pongo», per riprendere un’espressione coniata Freak Antoni31, anni in cui la creatività ha saputo rimodellarsi e proporre nuove forme e direzioni. Nelle parole di Helena Velena:

[…] anni di piombo non erano, anzi… […] dopo il Convegno di settembre solo il punk cominciò a ricostruire sulla morte sociocerebrale del Riflusso. E altro che Era Rampante Craxiana, quelli per noi furono anni davvero ruggenti. Con ingenuità e pionierismo il sabato pomeriggio davanti al Disco d’Oro in via Marconi, ma tutta la settimana a produrre aggratis per militanza materiale antagonista al Cassero della Fai di Porta Santo Stefano […] e poi in giro per l’Europa a suonare, più o meno circa aggratis, continuamente, anche se non c’era un palco, a momenti neppure un impianto.

Se si associano spesso disimpegno e disincanto al punk, il milieu bolognese rimane invece altamente politicizzato, raccogliendo il testimone del Movimento del ’77 e facendo politica altrimenti, in modo «molecolare» e «minore» (per citare nuovamente Deleuze e Guattari), nelle zone d’ombre e ai margini della società capitalistica. Continua quindi il controcanto civile del punk bolognese, l’urlo ora demenziale, ora nichilista che racconta le disarmonie di una città in preda alla disgregazione. Nonostante le provocazioni e le divisioni, il punk degli anni Ottanta recepisce gli insegnamenti del primo punk-rock felsineo, celebrando a sua volta la peculiarità endemica della (pur «laida») Bologna. Una peculiarità che, in parte per motivi culturali e linguistici (l’italiano essendo meno «esportabile» dell’inglese), non è mai stata riconosciuta al suo giusto valore e rappresenta, oltre all’esempio britannico, un fenomeno contro-culturale di spicco nel panorama europeo:

[…] Ma a noi era lo spirito di Bologna che ci mandava avanti. Niente soldi ma molte idee, poche paranoie e molta voglia di sperimentare, conoscere, capire. Fosse il Dams, la città studentesca, fosse la reazione alla giunta Pcista e ai suoi celati esperimenti di trasformismo, con appariscenti spruzzi di demagogico populismo, […] fosse anche l’alchemica fusione tra la razionalità padana (hihi) e il sangue caldo, anarchico e avvinazzato della Romagna, fatto sta che fu un periodo unico, che non poteva, e non poté, succedere altrove32.

Note

  1. Una fra le tante definizioni: «“Maestro’’, molti mi importunano, “qual è il vero significato dell’aggettivo demenziale? Qual è il senso che gli dobbiamo attribuire, cioè l’accezione più precisa del termine?’’ La moltitudine chiede chiarimenti, pretende spiegazioni, esige dettagli… E poiché essa incalza, chiarirò: tutto ciò che è assurdo & bizzarro insieme, non eroico, non retorico, non modaiolo, non istituzionale, può essere demenziale. Meglio ancora: il demenziale, inteso come genere comico artistico (ma anche in quanto «rock demenziale»), è un cocktail di pseudofuturismo, dada, goliardia, improvvisazione, animazione pirotecnica, provocazione con ironia, d’avanspettacolo, poesia surreale e soprattutto cretina. Poi incidenti a caso, paradossi e colpi di genio, contraddizioni, sciocchezze e gazzarra. È un esperimento di brutalità intellettuale, come uno sberleffo prolungato. Il demenziale non deve convincere nessuno: non è un partito politico, non è un’avanguardia da passare al vaglio di valutazioni critiche, non è un’ideologia, e nemmeno una fede o una religione. Per scelta si tiene estraneo all’intellettualismo del kitsch più pretenzioso e raffinato. Non c’è arte né artista, in senso tradizionale: tutti possono praticarlo con risultati incoraggianti. Basta volerlo (con convinzione).», in ANTONI Roberto «Freak», Non c’è gusto in Italia a essere Freak. Antologia fantastica di scritti rock, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 315.
  2. Ivi, p. 318.
  3. SKIANTOS, «Eptadone», MONO tono (album), Cramps Records, 1978.
  4. SKIANTOS, «Io ti amo da matti (Sesso e karnazza)», ibid.
  5. Corso dal quale nascerà poi il libro collettivo Alice disambientata. Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza (L’Erba Voglio, 1977) alla cui stesura partecipano Antoni e lo scrittore Palandri.
  6. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (a cura di), Non disperdetevi. 1977-1982 San Francisco, New York, Bologna. Le città libere del mondo, Shake Edizioni, Milano, 2009.
  7. ANTONI Roberto «Freak», Non c’è gusto in Italia a essere Freak, op. cit., p. 274.
  8. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (a cura di), Non disperdetevi, op. cit.
  9. Intervista a Stefano Mazzanti, 8 luglio 2020.
  10. Bologna Rock.
  11. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (a cura di), Non disperdetevi. 1977-1982 San Francisco, New York, Bologna. Le città libere del mondo, Shake Edizioni, Milano, 2009, p. 12-13.
  12. DONDI Mirco, «L’eversione rossa nel contesto nazionale e l’attacco ai giornalisti» (introduzione), in PASTORE Luca, La vetrina infranta. La violenza politica a Bologna negli anni del terrorismo rosso, 1974-1979, Edizioni Pendragon, Bologna, 2013, p. 240.
  13. «Quando è bella la piazza sembra il falansterio: luogo dei corteggiamenti amorosi, dei brevi incontri, degli sguardi o del lungo bighellonare, starci dentro è facile e divertente […] indugio come un gatto assonnato tra i gruppi di persone, un bacio ogni tanto, essere sorpreso di incontrare qualcuno che non vedo da un po’, indovinare chi posa le sue mani sui miei occhi, pensare a nulla […] la piazza era la centrale dei desideri, beata la mia superficialità! Una stupenda vista sull’umanità e su tutto il mondo, deve ancora capitarmi di nuovo.», PALANDRI Enrico, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano, 2011 [1979], p. 23-24.
  14. SCÒZZARI Filippo, Prima pagare poi ricordare. Fanciulli pazzi. Tutta La Storia, Fandango Libri, Roma, 2017, p. 198.
  15. «Davanti ai miei occhi orripilati il buon Tino gli sverginò il gomito, impartendogli in seduta unica una lezione magistrale su filtri, aghi, limoni, accendini, cucchiaini, lacci emostatici e sull’accorta manualità che deve soprassedere a fuori vena, risucchi e richiamini. Miele alle orecchie di Paz […].», ibid.
  16. Ivi., p. 221.
  17. ROVERSI Roberto, «Il Libro Paradiso», Il cerchio di gesso, n. 1, giugno 1977, p. 30.
  18. Basti pensare al concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli di Milano nel 1971: dopo un principio di incendio del palcoscenico, avvengono un fuggi fuggi generale e scontri tra forze dell’ordine e pubblico per una buona parte della notte nei pressi del velodromo.
  19. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (a cura di), Non disperdetevi, op. cit., p. 149.
  20. Ivi., p. 58.
  21. RASTELLI Angelo, Mamma dammi la benza (documentario), 2005.
  22. «Dicono di noi che facciamo schifo / beh, noi siamo i Crass mica i Clash. / Questi possono infilarsi la loro reputazione punk / perché sono loro a prendersi i soldi». CRASS, «White punks on hope», Stations of the Crass (album), Crass records, 1979.
  23. Parla «Bounty Scarponacci, 20 anni» in «Bologna la punk», art. cit., p. 61.
  24. «Il rapporto del punk con la città è talmente profondo da chiedersi se e in quale misura sia davvero necessario sottolinearlo ulteriormente. […] La retorica del punk controculturale vedeva se stessa come un virus, una disfunzione patologica che si estende attraverso le vene e le arterie o, meglio, il sistema nervoso dell’organismo-città fino a raggiungere i gangli più importanti, fino a toccare il centro del cervello, proprio là ove risiedeva (e risiede) una precisa volontà di contraffazione del vero e di oppressione. E, da un altro punto di vista, il punk vedeva se stesso come un ordigno ben confezionato, una bomba a tempo pronta a esplodere e a far crollare dalle fondamenta la machina machinarum dell’esistente. D’altra parte il legame con la città aveva risvolti che potremmo chiamare, in senso lato, affettivi. I muri, il vetro, il ferro, l’asfalto costituivano in senso stretto l’ambiente del punk. Nulla d’interessante, per definizione, poteva accadere al di fuori e al di là della cerchia urbana. E il punk, propriamente, costituiva la porta d’accesso a una città altra, a un mondo ctonio, sotterraneo, il mondo della cospirazione vera o presunta, il mondo del possibile contro il mondo frustrante del necessario. Gli itinerari su cui si svolgevano le giornate erano percorsi che solo apparentemente intersecavano quelli della Bologna di superficie, in tutta la loro ufficialità greve ed evidente. E pure esisteva, a fianco di questa dislocazione spaziale, una dislocazione temporale, una cronicità parallela per cui e in cui le cose accadevano e gli eventi si svolgevano. Di contro, le uniche cose che accadevano nella Bologna ufficiale erano i fatti di cronaca dell’ordinaria e quotidiana oppressione. L’intera vicenda del punk bolognese può essere letta dunque come un tentativo di riempire le mura e l’asfalto delle strade di una sostanza diversa, di una materia che non fosse cibo da supermercato svilito e insapore o merce pressata, smerciata e subita – contraffatta o meno che fosse. […] Secondo Certeau esiste del resto una retorica propria del camminare, una retorica che al senso proprio dei luoghi (posto che sia davvero determinato univocamente e una volta per tutte) sostituisce un senso figurato legato ai modi specifici in cui ci si appropria di quegli stessi luoghi – nello specifico del punk, una retorica che viveva della figura della negazione, dell’interdizione, dell’appropriazione dello spazio e degli spazi impedita e trattenuta. Un camminare soggetto a blocchi motori, alla preoccupazione paralizzante e castrante del dove si mettono i piedi, un incedere problematico e sghembo che del punk è tratto del tutto tipico. Ma la volontà di muoversi prevarrà su questo incedere patologico, ed è proprio per questo che ora il punk bolognese è un pezzo di fottuta storia e un coacervo di reperti culturali che delineano i contorni di qualcosa pronto ad aggiungersi, così come è, a un patrimonio culturale del cazzo.», PEDRINI Riccardo, Ordigni. Storia del punk a Bologna, Castelvecchi, Roma, 1998, p. 24-25
  25. «Il modo di vestire, come la musica, cioè l’aggregazione attorno ai gruppi è importantissimo per noi. Vestire punk è dimostrare la propria diversità, il rifiuto di adeguarsi alla cosiddetta norma, una forma di ribellione che parte dalla persona. Inoltre, è un modo per riconoscerci, diciamo una forma di dialogo senza parole. I punks non sono tutti uguali. Abbiamo modi di vita e idee diverse, gusti diversi, e i nostri segni di riconoscimento sono sui giubotti, nei distintivi, nel taglio dei capelli. Per esempio se vedo un punk di qualsiasi città italiana, o inglese, svizzero, tedesco, attraverso i suoi simboli posso capire di che tendenza è, come la pensa, come vive.» Steno in «Bologna la punk», art. cit., p. 62.
  26. Ivi, p. 62.
  27. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (dir.), Non disperdetevi, op. cit., p. 56-57.
  28. PEDRINI Riccardo, Ordigni, op. cit., p. 50.
  29. NABAT, «Laida Bologna», Laida Bologna (EP), C.A.S. Records, 1984.
  30. NABAT, «Scenderemo nelle strade», Scenderemo nelle strade (EP), C.A.S. Records, 1982.
  31. «Più che “anni di piombo’’, io le definirei “anni di pongo’’ perché la creatività era il grande sovrano della contestazione…», in GALARDINI Michele, Laida Bologna (cortometraggio documentario), Corso di Laurea Magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale, Università di Bologna, 2013.
  32. RUBINI Oderso, TINTI Andrea (dir.), Non disperdetevi, op. cit., p. 60.

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