Bibliomanie

Il miserabile nella letteratura europea. Possibile excursus di una presenza scomoda e sfuggente
di , numero 49, giugno 2020, Saggi e Studi, DOI

Come citare questo articolo:
Lorenzo Tinti, Il miserabile nella letteratura europea. Possibile excursus di una presenza scomoda e sfuggente, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 49, no. 10, giugno 2020, doi:10.48276/issn.2280-8833.4917

«La definizione di povero e del suo stato non può dunque che essere molto larga. Il povero è colui che in modo permanente o temporaneo si trova in una condizione di debolezza, di dipendenza, di umiliazione, contraddistinta dalla mancanza – diversa a seconda delle epoche e della società – degli strumenti di potenza e di considerazione sociale: denaro, relazioni personali, capacità di influenza, potere, cultura, qualificazione tecnica, alti natali, vigore fisico, intelligenza, libertà e dignità personali. Il povero vive alla giornata e non ha alcuna possibilità di sollevarsi senza l’aiuto di altri. In questa definizione vivono tutti i frustrati, tutti i rifiutati, tutti gli asociali, tutti gli emarginati. Questa definizione non è specifica di un periodo, di un’area geografica, di un ambiente e non esclude nemmeno coloro che per ideale ascetico o mistico hanno abbandonato il mondo o per dedizione hanno scelto di vivere poveri in mezzo ai poveri.1»

Non sorprende, di conseguenza, che appaia articolato – quando non ambivalente – l’atteggiamento che la cultura occidentale e cristiana ha riservato alla miseria, anche prima che l’etica protestante ravvisasse nell’affermazione personale e nella conseguente ricchezza un segnale patente della grazia divina. L’abbrutimento psicofisico al quale l’indigenza conduce è lo stigma evidente di quella deprivazione sociale ed economica a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun disserra; eppure, giusta l’assicurazione neotestamentaria (Mt. 16, 24 e, soprattutto, Mt. 19, 24), essa è anche sempre suprema rinuncia agli allettamenti mondani e, in quanto tale, pare porsi come via primaria di perfezionamento spirituale.
È prevedibile, ad esempio, che di fronte alle manifestazioni della povertà diverse siano state le reazioni, da una parte della popolazione laica e, dall’altra, del clero. La prima magari improntata a una sospetta circospezione, soprattutto quando l’ambiguità del povero discendeva dalla sua estraneità alla “soglia” sociologica condivisa (girovaghi, ribelli, contestatori…); la seconda chiamata all’imperativo della solidarietà e del soccorso verso quelle che non potevano non presentarsi come figurae Christi. Nondimeno, perfino in seno alla religiosità europea fin da subito ha allignato un certo bifrontismo antropologico, alimentato in fondo dallo stesso testo biblico. Se, infatti, nell’Antico Testamento non è infrequente imbattersi in chiare attestazioni del valore punitivo della miseria, vero e proprio castigo mandato da Dio per colpire una condotta peccaminosa (Pro. 6, 11; 23, 21, oppure Ps. 112, 1-3, anche se e contrario), con i Vangeli il giudizio tende a ribaltarsi, facendo degli umili i titolari assoluti dell’amore divino (Lc. 1, 48 e 52-53; Lc. 6, 20)2. Così al vivo rispetto, alla venerazione in alcuni casi, tributati al carisma personale dei primi anacoreti, dei santi stiliti, degli eremiti – sentimenti che, probabilmente, ereditavano pure il riconoscimento classico dell’autárkeia e del distacco del saggio cinico3 –, si contrappone ben presto la diffidenza della gerarchia ecclesiastica, erede più o meno cosciente dell’organizzazione statale e dell’ordinamento giuridico romano (incardinato sul diritto di proprietà), ma sempre più consapevole che il possesso delle res, anche solamente inteso nel senso di usus facti, è indispensabile per sopravvivere come istituzione storica.
Fu Raul Manselli, ormai alcuni decenni fa4, a rilevare nella storia del Cristianesimo «una duplice linea di sviluppo circa la vita ideale dei Cristiani5»: quella che si richiamava al modello sociale riportato negli Atti degli Apostoli (4, 32-35), in cui la povertà scompariva in nome di una pratica comunitaria basata sul lavoro e sul mutuo soccorso, e quella che invece si ispirava direttamente all’esempio evangelico del Cristo nudo e derelitto. La prima si trasformò giocoforza nell’unica forma organizzativa valida per tutti i fedeli; la seconda si propose come ideale di vita ascetica, come mezzo di più alta perfezione individuale. «L’atteggiamento della Chiesa rispetto alla ricchezza ed alla povertà, che abbiamo qui delineato in rapidi cenni, dura – per paradossale che qui possa sembrare – attraverso tutti i secoli del Medio Evo fino all’XI». Fu proprio allora che con l’incremento demografico e la riconquista della vita cittadina si comunicò alla religiosità un nuovo fermento, un’inquietudine e un’esigenza di Cristianesimo vissuto più coerentemente e più intimamente. Negli anni intorno alla cosiddetta lotta per le investiture una miriade di iniziative private e collettive (Pataria milanese, Pietro ed Enrico di Bruis, Arnaldo da Brescia, Pietro Valdo, gli Umiliati…) iniziarono a reclamare il ritorno a una condotta più conforme all’esempio apostolico ed evangelico, nel quale era centrale la ripulsa volontaria della proprietà e la povertà diventava dirimente per il raggiungimento della purezza e, quindi, della santità. Va, insomma, sottolineato

«come quella forma di vita, che – lo abbiamo già ricordato – si era venuta sempre più presentando quale modo d’ascesi e mezzo di perfezione, venga acquistando un valore imperativo, ritorni ad essere, nei desideri e nelle speranze almeno, la forma di vita dei Cristiani e, se non altro, del clero cristiano, perché questo sia, ancora una volta, sicura guida all’eterna salvezza.6»

Ovviamente, non era oramai più pensabile per la Chiesa secolare perseguire lo stereotipo dell’Ecclesiae primitivae forma, né trasformare gli appelli della popolazione che la riguardavano (nudi nudum Christum sequi) in un principio di autoregolamentazione; di conseguenza, essa canalizzò i bisogni dei fedeli negli Ordini mendicanti, cui diede il proprio avallo ufficiale, e convogliò tutte le spinte eversive nella categoria multiforme dell’eresia, delegando addirittura ad uno dei nuovi Ordini (Domenicano) il compito di scovare, processare ed eliminare i casi evidenti di eterodossia. E che il problema della povertà fosse centrale nelle definizioni disciplinari, lo avrebbe dimostrato, dopo la morte del santo di Assisi, la vertenza tra Francescani Spirituali e Francescani Conventuali, nonché i primi roghi di fraticelli7. Non stupisce allora che, al di là dei proclami e delle esortazioni, sia il Sacrum Commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, sia Dante Alighieri, che certo aveva letto quest’ultima operetta minoritica, neghino a tutta la Chiesa, dai tempi degli Apostoli fino a Francesco, l’adozione di quell’ideale di umiltà e di povertà pur indispensabile all’effettivo dispiegamento della propria missione spirituale.
Questa, seppur tratteggiata a larghe spanne, doveva essere la situazione sociale e culturale intorno alla questione dei miserabili, degli indigenti, dei déracinés nel momento in cui, in Europa, andavano nascendo le letterature volgari. Quando poi con l’età moderna i ruoli di fidelis e di civis cominciarono a precisarsi nelle proprie distinte peculiarità, e all’essere umano venne richiesto di farsi faber fortunae suae, la doppiezza ideologica che circondava lo status della miseria non solo non si risolse, ma – se possibile – si irrobustì. L’intenzione dichiarata di una redenzione morale e sociale degli emarginati, associata alle misure di coercizione ed internamento che cominciarono a prender piede tra XIV e XVI secolo, rivelava «l’ampiezza dei problemi e l’imbarazzo di una società, che, non potendo concepire “l’estinzione del pauperismo”, doveva accontentarsi di alleggerire la povertà e di nasconderne le miserie.8» Per allargarci alle parole di un altro grande studioso di questioni sociali tra Medioevo ed Età Moderna:

«L’ethos medievale della povertà si indebolisce o si scompone alle soglie dell’età moderna, ma fissa un’impronta fondamentale nella civiltà cristiana, e per questa ragione perdura nella cultura europea come una delle possibilità, una delle proposte. Negli anni Sessanta e Settanta l’archetipo della rinuncia ai beni materiali e di elogio della condizione povera, costituiva una delle risposte alla crisi ideologica della “civiltà del benessere”. Questo atteggiamento ottiene a volte dei riconoscimenti, ma mai si conquista garanzie istituzionali: è scelta di un modello di vita totalmente marginale. Il mondo sembra essere popolato immutabilmente, oltre il tempo, da seguaci della povertà volontaria e da fautori dell’elogio della previdenza, del risparmio e dell’arricchimento; da glorificatori del lavoro e da cantori delle rinunce, da fautori della politica di repressione o di indifferenza verso i poveri e da maestri di carità. Ma cambiano le proporzioni.9»

Se è credibile che in qualunque comportamento sociale «si intrecciano notoriamente elementi di “interesse” e di semplice amore del prossimo, di pietà piena di disprezzo e di aiuti veri10», a maggior ragione lo si deve pensare per quei comportamenti che si rivolgono alla dimensione equivoca e sfuggente della miseria.
Sarà anche per questo che nella letteratura volgare fino al XIX secolo, ma in fondo già in quella mediolatina, il povero, l’umile, il miserabile entrano a fatica, e quando lo fanno, lo fanno da comprimari, rappresentando ora lo strumento attraverso il quale il santo esprime la propria virtù (si pensi al San Martino di Sulpicio Severo), ora la cassa di risonanza che potenzia l’eco delle gesta dell’eroe. Manca, di norma, negli autori di questo periodo un autentico interesse per le cause del disagio, né tanto meno è presente l’intenzione di analizzare il fenomeno spregiudicatamente: la sua presenza in un testo coevo rimanda senz’altro a motivazioni altre da sé.
È vero: alla minorità socio-culturale viene talvolta lasciata la ribalta di un’opera, ma al costo di una deformazione espressionistica, magari all’interno di quel sottogenere che viene definito Satira del villano, nel quale la descrizione icastica o caricaturale dei difetti fisici e morali del protagonista non di rado si associa al rilievo di una furberia affatto empirica, terragna, utile semmai a spuntarla in schermaglie ordite più sugli scommi e sulle arguzie del rinfaccio che sulle sottigliezze argomentative di una disputa dialogica. Dalla Nencia di Barberino del Magnifico alla Beca di Dicomano del Pulci, dal Baldus di Teofilo Folengo al Bertoldo di Giulio Cesare Croce, si sostanzia una ricerca letteraria interessata piuttosto a misurarsi dialetticamente con la tradizione aulica, sperimentando possibilità linguistiche antiaccademiche e inserendosi nell’ambito tematico del carnevalesco (così acutamente indagato da Michail Bachtin). Il folklore popolare, il mondo altro degli ultimi offrono in tal senso allo scrittore un pretesto per adoperare strumenti stilistici altrimenti inutilizzati, senza tuttavia costringerlo a rivolgere un interesse reale ai bisogni, alle aspettative e alla dignità di un universo troppo più basso, seppure impastato di fiera fatica e di sofferenza.
Certo non mancano testi più “impegnati”, come la Pastoral di Angelo Beolco o le Sei giornate di Pietro Aretino, ove la figura dell’emarginato irrompe sulla scena con una forza in gran parte nuova; eppure questo non significa mai che i rispettivi autori, spesso colti e raffinati letterati, identifichino il loro con il punto di vista dei personaggi rappresentati, o che facciano oggetto di rappresentazione seria e problematica persone comuni della vita quotidiana, condizionate dal tempo in cui vivevano, infrangendo

«la regola classica della separazione dei livelli stilistici, secondo la quale la realtà quotidiana e pratica doveva avere il suo posto nella letteratura soltanto entro la cornice di uno stile umile o medio, vale a dire sotto forma grottesca e comica oppure di divertimento leggero, variopinto ed elegante.11»

Come rileva Gian Mario Anselmi, anche per l’Aretino

«l’intento primario resta quello di una durissima requisitoria contro il dialogo platonico, il regolismo bembiano, il conformismo cortigiano e letterario, cui egli contrappone, in un crescendo dal comico al tragico, la carnalità oscena e la dura violenza della vita quotidiana degli umili, delle prostitute, dei soldatacci di ventura, dei “picari” ante litteram.12»

All’Ottocento, dunque, non spetta il primato di avere introdotto il miserabile come personaggio letterario, bensì quello di averlo introdotto come protagonista e di averne narrato la vita con sollecitudine e secondo le regole del “realismo moderno”. Nondimeno, è al Settecento borghese che va ascritta, per quanto concerne la letteratura europea, se non altro la scaturigine della propensione verso una forma moderna di realismo, nel senso di un’inedita convergenza del gusto per la verosimiglianza descrittiva e della fiducia paternalistica e progressiva nel recupero dell’uomo da ogni situazione di inferiorità.
Il neonato romanzo inglese, difatti, così come la saggistica di pensiero francese s’interrogano già sulle emergenze della società, definendo progetti per la loro riabilitazione. Il disincanto di un Bernard de Mandeville, che appena nel 1714 (La favola delle api) argomentava intorno alla necessità dell’indigenza in quanto serbatoio inesauribile di forza-lavoro per l’incipiente sistema di produzione industriale, non è certo trasferibile all’idealismo dei connazionali Henry Fielding, Daniel Defoe o Samuel Richardson, convinti che l’impegno virtuoso dovesse riscattare il singolo da ogni condizione sfavorevole e, perciò, votati a elaborare per i loro romanzi un vistoso fine didattico. Non troppo dissimili i contes philosophiques degli autori al di qua della Manica, formidabili pamphlétaires e dialettici più rigorosi, ma analogamente attenti a denunciare i vizi sociali di un mondo che ancora non riusciva a divincolarsi completamente dalle pastoie dell’Ancien Régime (si veda, ad esempio, La monaca di Diderot, vero e proprio capostipite di un fecondo filone narrativo).
Infine, bisogna riconoscere come la vena alto-borghese e aristocratica dell’Illuminismo italiano non abbia lasciato tracce altrettanto marcate di un tangibile impegno conoscitivo ed operativo nei confronti della realtà degli umili (che non sia il pietismo di maniera del famoso episodio della «vergine cuccia» nel Giorno di Parini). Andrebbero però ricordate le prove “scientifiche” degli illuministi meridionali – Genovesi, Filangieri, Galiani, Pagano – che risultano caratterizzate da «intenti speculativi (e a volte persino utopistici), sostenuti da un appassionato cosmopolitismo e da un forte sentimento egualitario che sfocerà nell’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Partenopea del 1799», nonché dal «ripensamento della tradizione di Vico e Giannone, aggiornata e rapportata alle istanze ideologiche dei “philosophes” parigini.13»
Il mito liberale della permeabilità sociale e del self-made man, a conti fatti, servirà piuttosto a lenire il senso di colpa che, con la propria abiezione, il “quarto stato” – ovvero la nuova controparte in via di proletarizzazione – sottoporrà costantemente alla vista e alla coscienza di quei borghesi trionfanti che Foscolo, da Londra, stigmatizzerà come «oligarchi padroni delle manifatture». Né tale sorta di schizofrenia risparmierà il Romanticismo, soprattutto quello dei paesi (Francia e Italia) in cui l’eredità dell’Illuminismo apparirà più pesante. Se Rousseau, sullo scorcio del secolo, elabora con l’Émile il mito del buon selvaggio, in fondo migliore perché inorganico al consorzio civile, in Italia Giovanni Berchet, ragionando riguardo al pubblico ideale dell’arte romantica, prima identifica gli appartenenti al popolo minuto con gli Ottentotti e poi li scarta, giacché la loro «stupidità […] è nemica della poesia»14. Anche il nuovo movimento culturale, al di là dei proclami, conferma il proprio carattere elitario ed esclusivo, eleggendo una produzione autofinalistica; gli spazi di promozione civile si chiudono rapidamente, e il miraggio dell’avanzamento democratico e dell’integrazione sociale – pur ventilato ai tempi della militanza intellettuale – rimane appunto un miraggio, come dimostrerà drammaticamente il fallimento dei primi moti risorgimentali.
È vero che il critico e giornalista milanese Carlo Tenca, passato qualche anno dalla pubblicazione (1816) di quel manifesto sui generis che fu la Lettera semiseria del suo concittadino, ebbe a sottolineare con rara energia lo sforzo del letterato romantico di attingere al maggior numero di fruitori possibile e di immaginare «un popolo immenso davanti a sé, di cui deve farsi interprete, e, quasi diremmo, profeta15»; ma ciò, anziché indicare un’effettiva gestione democratica degli istituti della letteratura da esso prodotta, conduce semmai all’ambiguità del concetto di popolo sintetizzato dal Romanticismo. Difatti, quello a cui si rivolge Tenca nel brano succitato, individuandolo come destinatario della produzione artistica coeva, non è certo quel volgo povero, al quale pure attribuisce lo stesso nome, e di cui parla recensendo nel 1853 la Raccolta di proverbi toscani con illustrazioni cavate dai manoscritti di Giuseppe Giusti:

«Giova a quando a quando ritemprare l’intelletto e rinfrescare il cuore in queste limpide fonti del senno popolare, giova umiliare l’ambiziosa dottrina al cospetto di questa semplice e robusta meditazione della vita, che si rivela senza reticenze e senza artifizii. Noi ci accostiamo con riverente curiosità a questo libro dell’esperienza popolare, in cui si raggruppano le tradizioni di tanti patimenti, di tante guerre, di tante delusioni. Codeste ammonizioni, codeste sentenze sono il frutto di dure prove, pagate a caro prezzo, e grondano spesse volte lagrime e sangue. […] Coloro che della povertà del volgo si sono creati un fantasma di terrore, e sognano ire e violenze e rappresaglie di classi contro classi, possono vedere in questo libro la rassegnazione che consiglia i forti esempii, sbocconcellata in precetti e ricordi invidiabili.16»

Sebbene l’autore riconosca al suo oggetto virtù dirimenti e valori positivi, come l’assennatezza, la mansuetudine, la semplicità, la schiettezza, nel testo non si coglie mai un empito di compartecipazione alle sorti di quel mondo, bensì il superiore distacco e l’interessamento benevolo e paternalistico dei fondatori dell’antropologia; al punto che l’esclusione della categoria economica e politica della lotta di classe e l’accenno alla rassegnazione atavica dei gruppi subalterni somigliano più ad un auspicio del nuovo ceto dirigente, di cui egli faceva parte, che non a una spassionata lettura sociologica della marginalità.
In generale, si può senz’altro sostenere che, quando il Romanticismo pensa al popolo, lo pensa attraverso categorie morali ed estetiche, tramite concetti mitici e sentimentali – che ineriscono ovviamente all’idea di nazione – e secondo una chiave di lettura meramente etnica, determinandolo come un corpo sociale organico e depositario di un patrimonio culturale comune; eppure esso sente di doverlo distinguere dalla plebe in base allo statuto della proprietà e alla sua capacità di rendersi soggetto storicamente attivo, ovvero in base ai caratteri tipici della media borghesia degli intellettuali e dei professionisti.

«Sarà questa nuova classe, molto più estesa e varia di quello che si potrebbe pensare, a costituire il nucleo essenziale del nuovo “pubblico” scoperto dai romantici. Berchet ne dà una precisa delimitazione in termini quasi vichiani: in ogni società esistono due categorie di individui altrettanto impossibilitati ad intendere il bello artistico, sia pure per ragioni diverse: la plebe analfabeta e i raziocinanti intellettuali eccessivamente raffinati e schiavi dei più vieti formalismi. […] Ma esiste altresì una categoria intermedia […]; ed è la parte più produttiva e vitale di ogni società: la borghesia, appunto, che corrisponde al concetto di popolo di Berchet e dei romantici in genere.17»

Nel contesto italiano ed europeo di questo periodo appare un’evidente continuità negli atteggiamenti dell’intellighenzia borghese da poco affermata, identificabile nel tentativo di penetrare e guidare dall’interno la cultura popolare, specie per forzarla verso un preciso progetto di riqualificazione morale. In altri termini, gli intellettuali coevi ritennero di dover farsi carico della responsabilità di emancipare i sottoposti, impedendo loro di gestire autonomamente tale processo. In realtà, nemmeno il paternalismo filantropico ottocentesco si interessò di norma ad una comprensione impregiudicata dei fenomeni di inferiorità sociale nella loro specificità, mistificando al contrario una latente preoccupazione per la tutela dei propri privilegi, come dimostra, fra l’altro, l’immagine organica, ordinata e non conflittuale della società che esso propose, nella quale al diritto-dovere dell’integrazione ottemperavano così l’intraprendenza personale come i buoni sentimenti che derivavano dal rispetto dei valori tradizionali18. L’economia non si svincolava ancora dall’etica, ed ai fattori d’innovazione introdotti dal cambiamento in atto nel sistema produttivo era richiesto di conciliarsi con la permanenza di relazioni umane non antagonistiche. Le sperequazioni economiche non erano un male in sé, purché da una parte si garantisse mobilità sociale e, dall’altra, vi si accedesse facendo unicamente leva sulle proprie capacità e sulla propria benignità. Come ebbe a scrivere Alessandro Rossi (1819-1898), rinomato imprenditore tessile di Schio,

«L’eguaglianza sociale che distruggerebbe ogni gerarchia ed ogni merito, come ogni soggettività ed ogni obbedienza; un’eguaglianza sociale che per essere logica dovrebbe rispecchiarsi anche nell’uguaglianza della famiglia, è una solenne utopia; non havvi né dovizia d’intelletto né tesoro di scienza né anima di volontà che possano produrla. Perché? perché l’ineguaglianza è nella natura umana, e perché appunto l’epoca presente è quella che più di tutte le passate si presta a produrre l’ineguaglianza nel soddisfare i bisogni, i desideri della natura umana. Ad essa ineguaglianza si devono i progressi straordinari del secolo; essa è il prodotto insieme e la fonte della civiltà, e se non ci fosse converrebbe crearla.19»

Non stupisce, così, che fra gli anni ’30 e gli anni ’70 del XIX secolo la grande narrativa e la letteratura minore costruiscano exempla edificanti, dominati da modelli virtuosi di superamento del disagio iniziale grazie al sacrificio personale e all’accettazione delle norme condivise. Dal titanico affresco dei Misérables di Victor Hugo agli apprezzatissimi Bildungsromans dickensiani o, tornando al più modesto milieu dell’Italia e della scrittura educativa per l’infanzia, dal Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini a Cuore di Edmondo De Amicis, fioriscono racconti essenzialmente consolatori imperniati – variatis variandis, si capisce – su promozioni e affermazioni sociali costruite su meriti individuali, ma pur sempre eterodirette. Ovvero, spetta certo alle qualità umane di un Jean Valjean, di un Oliver Twist o di un Renzo Tramaglino avere raggiunto quel risultato, ma spetta altresì alla mediazione del vescovo Myriel, di Mr. Bronlow e di Fra’ Cristoforo, veri e propri sotéroi e rappresentanti illuminati dei ceti più alti, avere persuaso i primi a rifiutare i condizionamenti criminogeni di un ambiente iniquo e violento e, di conseguenza, avere agevolato la concordia e la collaborazione fra le classi. Si legga, a titolo di esempio, il seguente, famosissimo brano tratto dal capolavoro deamicisiano, in cui il registro mimetico-realistico e il tono patetico-sentimentale concorrono a perseguire il rafforzamento del messaggio ideologico sotteso al libro e dei valori che lo permeano (solidarietà, merito, dignità, rispetto delle gerarchie…), ed in cui l’ostentazione di tolleranza e rispetto non è altro che una tranquillizzante garanzia del mantenimento dello status quo ante:

«Carlo Nobis è superbo perché suo padre è un gran signore: un signore alto, con tutta la barba nera, molto serio, che viene quasi ogni giorno ad accompagnare il figliuolo. Ieri mattina Nobis si bisticciò con Betti, uno dei più piccoli, figliuolo d’un carbonaio, e non sapendo più che rispondergli, perché aveva torto, gli disse forte: – Tuo padre è uno straccione. – Betti arrossì fino ai capelli, e non disse nulla, ma gli vennero le lacrime agli occhi, e tornato a casa ripeté la parola a suo padre; ed ecco il carbonaio, un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione del dopopranzo col ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro. Mentre faceva le sue lagnanze al maestro, e tutti tacevano, il padre di Nobis, che levava il mantello al figliuolo, come al solito, sulla soglia dell’uscio, udendo pronunciare il suo nome, entrò, e domandò spiegazione.
– È quest’operaio, – rispose il maestro, – che è venuto a lagnarsi perché il suo figliuolo Carlo disse al suo ragazzo: Tuo padre è uno straccione.
Il padre di Nobis corrugò la fronte e arrossì leggermente. Poi domandò al figliuolo: – Hai detto quella parola?
Il figliuolo, – ritto in mezzo alla scuola, col capo basso, davanti al piccolo Betti, – non rispose.
Allora il padre lo prese per un braccio e lo spinse più avanti in faccia a Betti, che quasi si toccavano, e gli disse: – Domandagli scusa.
Il carbonaio volle interporsi, dicendo no, no; ma il signore non gli badò, e ripeté al figliuolo: – Domandagli scusa. Ripeti le mie parole. Io ti domando scusa della parola ingiuriosa, insensata, ignobile che dissi contro tuo padre, al quale il mio si tiene onorato di stringere la mano.
Il carbonaio fece un gesto risoluto, come a dire: Non voglio. Il signore non gli diè retta, e il suo figliuolo disse lentamente, con un fil di voce, senza alzar gli occhi da terra: – Io ti domando scusa… della parola ingiuriosa… insensata… ignobile, che dissi contro tuo padre, al quale il mio… si tiene onorato di stringer la mano.
Allora il signore porse la mano al carbonaio, il quale gliela strinse con forza, e poi subito con una spinta gettò il suo ragazzo fra le braccia di Carlo Nobis.
– Mi faccia il favore di metterli vicini, – disse il signore al maestro. – Il maestro mise Betti nel banco di Nobis. Quando furono al posto, il padre di Nobis fece un saluto ed uscì.
Il carbonaio rimase qualche momento sopra pensiero, guardando i due ragazzi vicini; poi s’avvicinò al banco, e fissò Nobis, con espressione d’affetto e di rammarico, come se volesse dirgli qualcosa; ma non disse nulla; allungò la mano per fargli una carezza, ma neppure osò, e gli strisciò soltanto la fronte con le sue grosse dita. Poi s’avviò all’uscio, e voltatosi ancora una volta a guardarlo, sparì. – Ricordatevi bene di quel che avete visto, ragazzi, – disse il maestro, – questa è la più bella lezione dell’anno.20»

Del resto, anche lo stesso Alessandro Manzoni or ora evocato, dispiegando il percorso di ricerca che lo avrebbe portato a identificare negli umili il soggetto privilegiato della sua arte, non seppe o non volle liberarsi dall’influenza ideologica della sua estrazione sociale. La sua convinzione giovanile che le «migliori opere sì in verso che in prosa dei nostri tempi» derivino dall’«acerbo sentimento» che sorge dal contrasto fra «ciò che è» e «ciò che dovrebb’essere» e il conseguente progetto di non tradire mai il «santo Vero» e di giovare agli altri «di chiaro esemplo, o di veraci carte», espresso nel carme In morte di Carlo Imbonati (1806), declineranno le loro istanze giacobine secondo le sollecitazioni filantropiche apportate dalla conversione, ma non verranno sostanzialmente intaccati nei loro assunti basilari. Le illusioni libertarie ed egualitarie e la fiducia illuministica nella ragione, dopo il 1810, si tramutano, così, prima nel populismo spiritualista ed intimista degli Inni sacri, poi, nelle tragedie e nel Cinque maggio, in un pessimismo radicale rispetto all’azione degli uomini, abbandonati alle logiche feroci e talora inattingibili della storia, nonché in un concitato e animoso sentimento verso il dolore degli indifesi, e, infine, nella scoperta piena, lucidissima, affatto tragica della sofferenza umana e nell’affidamento alla Provvidenza di un Deus absconditus, unico rifugio per la complessa, tormentata religiosità manzoniana, certo venata di elementi pascaliani e giansenisti tout court. D’altro canto, il tema evangelico dei poveri prediletti da Dio fin da subito non riesce a trasformarsi, nello scrittore, in una concreta base democratica, permanendo – come ha ben sottolineato Salvatore S. Nigro21 – in una prospettiva pietistica e paternalistica, che non pone in discussione i rapporti di classe vigenti, e predicando giusto l’obbligo dell’elemosina e l’uso ponderato dei beni.
Nei Promessi sposi, per la prima volta con tanta consapevolezza etico-civile, gli umili vengono peraltro fatti salire alla ribalta della scena letteraria, senza per questo subire trasfigurazioni comiche o idillico-arcadiche, anzi venendo rappresentati realisticamente e rispettosamente, e – nel caso di Lucia – venendo proposti come modelli esemplari di virtù. Nemmeno l’austera, irrequieta coscienza cristiana dell’autore può però ottenere che la sua compartecipazione emotiva, la sua condiscendente benevolenza, divenga reale immedesimazione, cioè adozione del medesimo punto di vista dei personaggi. L’adesione manzoniana al programma sociale del cattolicesimo liberal-moderato limita infatti la sua concezione dell’egualitarismo alla sola sfera religiosa (tutti fratelli in Dio); sul piano politico, le ingiustizie e le disuguaglianze vanno contrastate e risolte non attraverso la lotta, ma attraverso la carità: ai poveri non rimane che assegnarsi alla Provvidenza e pazientare docilmente, giacché, quando scimmiottano i meccanismi complicati e crudeli del potere, immancabilmente tralignano. Il vero messaggio educativo del romanzo parrebbe allora rivolgersi ai potenti e agli intellettuali, e riguarderebbe la responsabilità dell’autorità, facendo del libro una specie di tardivo speculum principis cristiano.
Sono note le riflessioni svolte in Letteratura e vita nazionale da Antonio Gramsci, il quale, riflettendo sulla mentalità – a suo avviso – paternalistica e aristocratica di Manzoni e, più in generale, sul rapporto fra gli intellettuali italiani ottocenteschi e la marginalità, si espresse in termini tanto duri e sdegnati quanto pregnanti, ancora meritevoli di attenta meditazione:

«Gli “umili”. Questa espressione – gli “umili” – è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della “letteratura per gli umili”. […] Nell’intellettuale italiano l’espressione di “umili” indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento “sufficiente” di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da “società protettrice degli animali”, o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia. […]. Non si tratta di volere che il Manzoni “aduli il popolo”, si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono “popolari”; questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno “vita interiore”, non hanno personalità morale profonda; essi sono “animali” e il Manzoni è “benevolo” verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. […] L’atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo; di condiscendente benevolenza, non medesimezza umana. […] Tra il Manzoni e gli “umili” c’è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un “problema di storiografia”, un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col “verosimile” del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come “macchiette” popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa.22»

Difficile davvero definire una linea comune all’interno dell’intero realismo ottocentesco: troppo variegato e polimorfo è il panorama che si schiude. Nondimeno, si potrebbe proporre una demarcazione: da un lato, le esperienze letterarie fino agli anni ’60, fortemente influenzate dall’idealismo romantico e spinte da un’ineliminabile tentazione simpatetica a semplificare le implicazioni sociologiche insite nella dimensione della miseria; dall’altro, quelle degli anni ’70-’90, oramai improntate ad una smaliziata ideologia “scientifica” e, volenti o nolenti, costrette a fare i conti con le recenti teorie del positivismo, del marxismo e del darwinismo sociale. È una divisione, beninteso, puramente convenzionale e limitata – testimonianze come quelle di Stendhal, Balzac, Gogol, Lermontov o Puškin, per lo più esaurite entro i confini cronologici della prima sezione, raggiungono comunque vertici estetici e contenutistici assoluti –, eppure suffragata dalla scoperta, avvenuta all’inizio dell’ultimo trentennio del secolo, di strumenti tecnici rivoluzionari (impersonalità, regressione, discorso indiretto libero…) che, assieme all’affermazione di una nuova Weltanschauung, ricodificano l’approccio della letteratura alla questione dei miserabili. In lieve anticipo sui tempi, il francese Champfleury immagina il ruolo del narratore a venire:

«L’ideale di un romanziere impersonale è quello di essere un Proteo, agile, mutevole, multiforme, ad un tempo vittima e giustiziere, giudice ed imputato, che sappia di volta in volta assumere il ruolo del prete, del magistrato, della spada del soldato, dell’aratro del lavoratore, della ingenuità del popolo, della stupidità del mondo piccolo borghese.23»

Inizia qui l’età del naturalismo e del verismo.
Gli ultimi decenni del secolo sono quelli in cui la civiltà della macchine – la «barbarie illuminata a gas», secondo una famosa definizione di Baudelaire – afferma definitivamente i propri ritmi meccanici, modificando abitudini da sempre foggiate sui cicli immutabili della natura ed estromettendo chiunque non si adegui al sistema della produzione e del consumo. La perte d’auréole dello scrittore origina proprio dall’implicito aut-aut insito in questo modello utilitaristico: adeguarsi alle leggi ferree del mercato, che ora dominano dispoticamente pure il mondo dell’editoria, o ritagliarsi uno spazio di chiaroveggenza, e quindi di emarginazione, al di fuori della mercificazione inarrestabile dell’universo borghese. Il naturalismo è, in fondo, l’estremo tentativo di alcuni intellettuali di riconoscere e di farsi riconoscere dalla società: non potendo più perseguire un paradigma di arte assoluta, si riciclano come studiosi dell’animo umano, offrendo un contributo necessario alla comprensione dell’evoluzione socio-economica a loro contemporanea24. In tal senso, come la drosofila con il suo corredo cromosomico contenuto rappresenta un ideale oggetto di studio per il genetista, così il miserabile offre allo scrittore naturalista ottocentesco un campo d’analisi privilegiato, giacché «il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.25»
L’ottimismo gnoseologico della filosofia positivistica comunicò agli scrittori la fiducia di poter indagare con metodo scientifico le leggi strutturali cui la vita dell’uomo è sottoposta. E poiché l’uomo si pensava darwinisticamente definito all’incrocio di storia, razza e ambiente, e poiché solo quaest’ultima categoria presentava una possibile variabilità, permanendo all’interno della cultura occidentale coeva, il mondo degli umili apparve come il campo di ricerca privilegiato, offrendo, per così dire, il grado zero di quelle dinamiche socio-antropologiche cui si indirizzava l’acribia del nuovo romanzo sperimentale. Di conseguenza, il miserabile del Naturalismo francese o del Verismo italiano è l’emarginato, l’abietto che trascina un’esistenza più semplice e più incondizionata ai margini del consorzio civile. L’autore lo lascia agire liberamente, tirandosi da un canto e delegando a lui, o più spesso alla comunità dei suoi pari, la focalizzazione della narrazione. L’autore non ha più finalità etiche o educative, mira semplicemente a copiare, «con minuziosa esattezza, la vita, dedicandosi esclusivamente all’analisi del meccanismo umano.26» Regredisce parimenti lo strumento dell’ironia, che è segno patente di un controllo superiore (e critico) della materia; gli strumenti delle scienze esatte si comunicano alle scienze sociali, e alla letteratura.
La simultaneità del decadentismo e del positivismo, a ben guardare, è rivelatrice di come il fanatismo scientista dell’epoca sia anche la copertura, più o meno consapevole, di un’ossessione culturale che urge agli angoli della coscienza: il clima è maturo perché l’assegnamento illuministico alla ragione divenga bisogno di formule scientifiche, perché si affermi un atteggiamento gnoseologico di tipo dogmatico. L’ansia di controllo si comunica dalla realtà all’uomo, precludendo all’intellettuale – fattosi nel frattempo tecnico dello spirito umano – il campo aleatorio dell’immaginazione e coinvolgendolo nel richiamo perentorio al positum. Anche la letteratura rinuncia insomma a scandagliare quella variabilità dell’individuo che ora rifluisce in una tassonomia rigorosa, nella quale i descrittori sono mutuati dalla terminologia precisa della fisica e della chimica; anche la letteratura cerca spazio fra i nuovi studi nomotetici, fra le scienze esatte.
La natura umana viene così imbrigliata in condizionamenti incontrovertibili, fra i quali si impone l’ereditarietà dei caratteri biologici, e la presunzione di collaborare a svelarli si converte insensibilmente nella loro giustificazione. Sebbene, infatti, sia tipica del naturalismo la propensione alla denuncia sociale, esso finisce per legittimare l’esistente, rappresentandolo come la variante meglio adattata alle condizioni contestuali. Tra le pagine dei romanzi sperimentali naturalisti, si consuma così l’ottimismo progressista dell’Ottocento; l’esistenza dell’essere umano, soprattutto se il suo ceto di appartenenza lo priva degli adeguati filtri comportamentali, si può analizzare e conoscere, non già modificare o riorientare. Rispetto all’imprinting dell’ambiente di provenienza, il peso del libero arbitrio è trascurabile nella definizione di ciò che, secoli prima, si sarebbe detto senza esitazioni habitus.
È palese che nell’attrazione che il naturalismo prova per le situazioni patologiche (degrado del sottoproletariato urbano, piccola criminalità, prostituzione, disumanità dei lavori più logoranti…) si nasconda – al di là della succitata semplificazione del lavoro che esse comportano – qualcosa di morboso, per quanto oggettivato ed esorcizzato attraverso la strumentazione asettica di una poetica impersonale e la ricerca del «documento umano». L’imperativo dell’engagement, il progetto di una scrittura di severa indagine critica e l’orgoglio di opporsi all’ipocrisia dei benpensanti tentano di motivare una scelta di campo germogliata, de facto, su una trama di esigenze intellettuali e complessive alquanto più complessa, dalla quale non va probabilmente disgiunto il presentimento di come, essendo in fondo una degenerazione del darwinismo sociale, la moda realistica coeva patisca l’immobilismo di chi avalla sperimentalmente i rapporti di forza vigenti.
D’altronde, per riprendere una fortunata espressione di Ian Watt, «se il romanzo fosse realistico semplicemente perché vede la vita nei suoi aspetti più spiacevoli, esso sarebbe semplicemente un romance capovolto.27» E giova forse trascrivere le parole che Edmond de Goncourt impiegò nella prefazione a Les frères Zemganno (1879), apparentemente in bilico fra il chiarimento e la discolpa:

«In verità, il realismo non ha la missione unica di descrivere quel ch’è basso, ripugnante, puzzolente, ma è pure venuto al mondo per descrivere in artistica scrittura quel ch’è elevato, grazioso, profumato, nonché per dar gli aspetti e i profili delle cose ricche: ma tutto ciò in uno studio attento, rigoroso e non convenzionale e non d’immaginazione sulla bellezza, uno studio, insomma, simile a quello che la nuova scuola ha fatto, in questi ultimi anni, sulla bruttezza. Ma perché, mi si dirà, non avete scritto questo romanzo? Noi abbiamo cominciato dalla feccia perché la donna e l’uomo del popolo sono più vicini alla natura e alla selvatichezza, perché sono creature semplici e poco complicate, mentre il cittadino o la cittadina della buona società sono troppo civili e la loro originalità vista per spaccato è tutta fatta di sfumature, di mezzetinte, di quei non so che simili ai nonnulla graziosi e neutri che formano il carattere di una distinta acconciatura femminile, e ci vogliono degli anni per penetrarli, per conoscerli, per afferrarli.28»

Assai differente, invece, l’atteggiamento teorico del verismo italiano, nel quale il rassegnato riconoscimento della negatività dell’antropologia sociale, come struttura permanente dell’esserci, non viene mai messo in discussione. Per Verga ad esempio – almeno per quello posteriore a Nedda e a Fantasticheria – semplicemente non esistono interventi o autorità capaci di impedire, a qualunque livello del consorzio sociale, che avvenga la «lotta per l’esistenza», che trionfino l’egoismo, l’insensibilità e la logica dell’utile. La miseria non è sanabile perché, come ogni altra manifestazione umana, non è redimibile: i vincitori oggi saranno vinti domani. «Così come non esiste nel Verga maturo alcuna tentazione verso un pietismo umanitario capace di intaccare la sua visione desolata e pessimistica della realtà, ugualmente non agisce in lui alcuna categoria populistica29, né il mito regressivo e consapevole di una società arcaica e patriarcale, innocente e non ancora collusa con la corruzione della modernità.30»
Il pessimismo del movimento verista appare, indubitabilmente, anche un portato della sua provenienza geografica. Non a caso esso nasce dall’intersezione, per certi versi paradossale, dell’avanguardia letteraria di un settentrione più industrializzato ed aperto alle novità d’oltralpe con il conservatorismo di un meridione psicologicamente attratto dalla bruta primordialità di un microcosmo originario e premoderno. Gli intellettuali milanesi “di sinistra” e gli appartenenti alla Scapigliatura lombarda, inseriti in un contesto più congruo economicamente e culturalmente alla Francia di Zola e di Maupassant, avevano sì sdoganato oltre i confini nazionali la poetica naturalista, eppure l’avevano contaminata con elementi protosimbolistici e decadenti. Nondimeno, fra loro essa non aveva saputo attecchire in maniera troppo proficua, reperendo per converso i propri interpreti più avveduti in taluni immigrati da una porzione d’Italia destrorsa e conservatrice.

«La motivazione principale va essenzialmente ricercata nel fatto che, mentre nelle città di una Francia già ampiamente industrializzata il sottoproletariato urbano (referente dell’analisi “scientifica” del naturalismo) aveva fatto ormai a tempo a diffondersi capillarmente, in Italia del nord i modi di produzione capitalistici non erano ancora riusciti ad influenzare la stratificazione sociale in senso moderno. In quel sud, al contrario, che principalmente aveva patito la delusione storica del romanticismo, all’interno di un’economia arretrata e arcaico-rurale, sopravvivevano categorie di vita sociale travagliate da problemi apparentabili, per quanto eziologicamente differenti, a quelli a cui, fuori dai confini nazionali, si riferiva il naturalismo. Non deve perciò sorprendere se proprio rappresentanti di questo mondo, ma emigrati da esso, dopo aver conosciuto altrove i portati ideologici della nuova narrativa, seppero trasferirli alla flagranza di quell’universo chiuso da cui provenivano, il quale si andava ormai ponendo come una vera e propria “questione”.31»

Come che sia, l’idea che le forme infime della società possano costituire l’argomento della letteratura alta, al riparo da marche stilistiche predefinite o da uno stravolgimento espressionistico della materia, è sicuramente l’eredità più preziosa, ricca e feconda che la narrativa dell’Ottocento abbia consegnato a quella del secolo seguente. Da quel momento, se non altro, la latitanza di documentazione attendibile sulle effettive condizioni di vita dei misérables è stata compensata da una ubertosa produzione artistica, la quale, pur non avendo procurato fonti direttamente utilizzabili da una sociologia metodologicamente accorta ed attendibile, ha comunque fornito un prezioso quadro su come il problema della povertà fu recepito dalle classi a cui appartenevano gli uomini di lettere che via via se ne occuparono. Nondimanco, non sarà infrequente che autori di testi onesti e non paternalistici sui miserabili o opere con siffatte caratteristiche di autori noti, ricordando alla società la sua vergogna più riposta e insanabile, patiscano lo stesso destino di isolamento dei loro personaggi. Eppure, ripetiamolo: queste voci concorrono a sanare la scarsità endemica di fonti sull’alterità che non siano caricaturali o, al contrario, idealizzanti.
Se, come accennato, il miserabile del naturalismo francese o del verismo italiano è l’abietto che s’adegua per necessità al più elementare ed arretrato dei modelli sociali, con il Novecento la questione si fa più complessa. Il nuovo secolo acquisisce fin dall’origine la consapevolezza delle contraddizioni insite nel progressismo borghese, di cui il positivismo era diretta emanazione. In fondo, applicare allo studio della vita associata le teorie necessarie delle discipline naturalistiche aveva significato negare il libero arbitrio, ancorando l’essere umano a condizionamenti incontrovertibili, avallando scientificamente il concetto di razza e legittimando i rapporti di forza esistenti. Il volto nascosto (anche ad essa medesima) della letteratura naturalistica era la sua radicale impotenza operativa: ovvero l’incapacità di influire su quella tara ereditaria che pure aveva indagato con efficacia speculativa. La presunzione del naturalismo di farsi vettore di denuncia e di smascheramento delle patologie sociali aveva dovuto scontrarsi con il ruolo di subalternità dell’intellettuale nell’era industriale e con le risultanze giustificazioniste di un impegno letterario totalmente impersonale.
A demolire la fiducia positivistica del naturalismo furono, da una parte, le poetiche del decadentismo e del simbolismo, che reclamavano all’individuo una complessità insondabile attraverso mezzi conoscitivi di tipo quantitativo, dall’altra la stessa esperienza verista, che, innervando la ricerca d’oltralpe sulla disillusione e sul conservatorismo di un meridione non ancora industrializzato, difese la specificità della letteratura e rigettò la tentazione di fondere i due piani scientifico e artistico.
Il XX secolo, insomma, nasce con gli anticorpi contro il realismo ottocentesco, la cui lezione viene tuttavia assimilata. Il concetto di “miserabile” si ampia e si complica; non intrattiene più come in precedenza un rapporto esclusivo con l’emarginazione e con l’indigenza, né definisce in maniera necessaria l’adesione a un modello di vita minimamente filtrato o ritualizzato. “Miserabile” non è più solamente “chi è in miseria”, ma, giusta l’etimo latino, “colui che è degno di compassione”: il termine assume un valore esistenziale oltre che sociale ed economico. Le dimensioni della reificazione, dell’inettitudine, dell’alienazione, della psicopatologia concorrono ad intricarne il senso e a renderlo simbolo universale della condizione contemporanea. Non solo, il sentimento della complessità – congenito al nuovo secolo – spinge ad avvertire l’irripetibilità di ogni singolo caso e l’impossibilità di ampie catalogazioni anche nell’alveo della stessa classe sociale. «Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici.32»
La diversità del miserabile è ormai una possibilità dell’esserci che può riguardare chiunque. Nessun occhio umano è in grado di guardare un altro uomo senza compromettersi; dopo Freud non è più perseguibile il miraggio dell’oggettività. La ricerca sull’altro è una ricerca sul sé per interposta persona. L’analisi di Geremek, secondo cui il mondo contemporaneo continua a considerare la povertà un fenomeno negativo33, è ancora condivisibile, purché si aggiunga che in quel giudizio è latente la paura del rispecchiamento. Finanche nel neorealismo lirico e populista di Pasolini o nell’iperrealismo regionalistico di Tondelli si gioca un senso più profondo dell’individuo, che necessariamente accomuna l’oggetto percepito con il soggetto che lo percepisce. Piegandola alle dinamiche precipue della narrativa, si può senz’altro ripetere l’affermazione di Giovanni Greco a proposito della poesia di Salvatore Di Giacomo:

«in effetti, quantunque la fine interpretazione psicologica e la ponderata conoscenza del mondo consentano solitamente al vero poeta di possedere un’immagine completa e realistica del deviante, del fuorilegge in senso lato, e persino di raggiungere taluni recessi reconditi della sua cupa e tumultuosa interiorità, egli non desidera tuttavia soffermarsi sulla descrizione di caratteri, atti o stati d’animo negativi o comunque deleteri, preferendo piuttosto caricare i propri versi di valenze etiche e di passioni ben precise e misurate, che quasi sempre – è naturale – sono tutte sue, appartengono esclusivamente alla sua visione della realtà e della vita.34»

Gli universi fintamente paralleli del disagio e del degrado non rappresentano più semplicemente una devianza rispetto a una norma depositaria dei valori di una cultura trionfante e del suo orgoglio storico; anzi sembrano identificare l’estremo rifugio dall’omologazione e dall’inautenticità del perbenismo: l’ultima regione incontaminata, non affetta dal “disagio della civiltà”, a metà tra il cielo e l’inferno. Un ecosistema delicato e minacciato da un’omologazione borghese criminogena, giacché, come ricordava un’illuminante pagina pasoliniana, lo priva della sua peculiare eziologia e della sua funzione:

«la mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale […] m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria “funzione”).35»

La purezza la si paga con l’esclusione violenta, perché minaccia le effimere sovrastrutture sulle quali si regge il sistema degli integrati. Ma essa è anche la più assoluta delle tentazioni, quella che, coincidendo con la disperazione, àncora alla pesantezza organica dell’essere, prima e al di là di ogni convenzione e di ogni costruzione sanzionatoria condivisa. La realtà bassa dei miserabili può essere una dimensione primigenia in cui lo spazio interiore (res cogitans) e lo spazio esterno (res extensa) confondono i rispettivi confini, in cui il mondo come γή – orizzontale, luminoso e razionalmente dominabile – si ibrida con il mondo come χθών – caotico, oscuro e dominato dai rapporti di forza. In fondo, in questa realtà vivono gli ultimi innocenti, giacché peccano senza rimorso.

«Ai ragazzi [del quartiere Testaccio] tutto questo esce subito di memoria: come un fatto necessitato, dovuto, tanto coesistente con loro da non poter essere colto, tanto incarnato nella loro di­strazione da non distinguersene: insomma, non è un fatto ma una creazione della loro coscienza comune, in cui si agitano, corpi nel mondo (nel Testaccio) e ombre dentro di sé… È pari a loro, caso nel caso. Non lo vedono nella sua estensione oggettiva. Non possono restarne impres­sionati: lastre dove nemmeno un minimo delle loro azioni posteriori ritiene un’influenza di quell’azione. Non c’è interruzione. Passano esattamente come le ore.36»

Analogamente, nell’immaginario novecentesco la debolezza degli ultimi conturba morbosamente una società affetta da machismo: l’impotenza s’impone come insperato ricettacolo di umanità. È fragile solo ciò che è prezioso. Già in quella straordinaria parabola di formazione che sono i Promessi sposi i protagonisti “positivi” rischiavano di tralignare quando si ispiravano alla logica del potere, ma ad essi era comunque riconosciuta romanticamente la libertà decisionale, la malizia e la presunzione dell’intelletto. Al contrario, personaggi come Saretto, nel Piccolo servitore di Brancati, o come Adelina, nell’Orfana di Parise, semplicemente prescindono da quella logica; la confermano e però la demoliscono dal momento che vi si sottomettono docilmente e inconsapevolmente. Il loro annientamento non ha nulla di trascendente, né è meritorio in sé, non essendo un sacrificio. Esso è consustanziale al meccanismo afinalistico del mondo occidentale contemporaneo, ma ne costituisce il punto debole e la sua luce, a tratti, acceca.
In Verga, sia le classi alte che quelle basse partecipavano agli stessi principi dell’utilitarismo e dell’egoismo: la loro dialettica si esauriva in una visione evoluzionistica. Il concetto di “selezione naturale” ne acclarava le dinamiche. Ma la ricerca delle invarianti comportamentali comunica al Novecento l’agnizione che la costruzione sociale non sia il denominatore comune a tutti gli esseri umani: c’è un piano più intimo dell’essere, un piano deplorevole e affascinante, al quale il disperato rimanda. La marginalità non è del tutto conoscibile, la si può avvertire in maniera immediata e vitale come una ferita, la si può descrivere con ironia o con passione, ma non è del tutto conoscibile. E solo conoscere vuol dire esorcizzare.
Se testi come Una serva di Ada Negri, in fondo, rappresentano ancora una sorta di raccordo tra la Weltanschauung ottocentesca e quella novecentesca, come testimonia la parabola biografica – ellittica ma tracciata per intero – della sua protagonista dimessa e silente, già con gli scritti di Papini e di Tozzi, ad esempio, o con la novella La moglie della Deledda, vengono offerte al lettore le prime avvisaglie della nuova sensibilità.
La moglie (racconto pubblicato nel 1912) tratteggia, non senza compiacimento coloristico, il sorgere e lo scatenarsi improvviso di una passione rovinosa che trascina la protagonista verso una colpa inevitabile. Dietro le descrizioni vive e concrete è ancora evidente il sottotesto veristico, ma è altrettanto patente la noncuranza per accorgimenti “scientifici”. A molti la narrativa dell’autrice è sembrata istintiva, come sorretta da certo spontaneismo ingenuo: tanto che la sua modernità è parsa quasi involontaria, sorgendo dalla convergenza del metodo naturalistico, comunque frequentato, dell’attenzione al sostrato morale tipica dei romanzi russi ottocenteschi e di suggestioni tardoromantiche. Lo spazio e il tempo ricevono una caratterizzazione quanto meno evanescente e la Sardegna della scrittrice attinge una dimensione mitica, nella quale a un rigido sistema di usi e di valori arcaici si oppongono ossessivi travagli affettivi, inquietudini e sublimi tormenti etici. A ben guardare, dal mondo deleddiano è assente il motivo della ribellione, giacché in esso parimenti latita una precisa contestualizzazione sociale; i suoi personaggi sono piuttosto costretti a ripetere una gestualità archetipica, micenea. L’eterno dramma delle coscienze ha un che di irrisolvibile e sostanzia un universo ora selvaggio ora immobile che avrà tanto da comunicare alla futura immagine di un meridione melancolico ed immutabile, perennemente refrattario all’innesto dei modi della civiltà liberale ed industriale.
Miseria di Giovanni Papini (capitolo dell’opera autobiografica Un uomo finito, 1913), invece, similmente a La famiglia povera di Pietro Jahier (capitolo dell’opera autobiografica Ragazzo, 1919), introduce il senso – in gran parte psicologico e, in questo caso, adolescenziale – del disagio della nascente borghesia centro-italica. Nel testo di Papini, in particolare, il valore della miseria diventa fortemente relativo e rimanda semmai al limite imposto dalle esigenze materiali della vita quotidiana, e provinciale, al manifestarsi di un’insopprimibile volontà di potenza e al dramma di una tensione faustiana verso l’onnipotenza. Il brano ritrae una condizione esistenziale estremamente esplicativa in merito alle dinamiche della storia italiana della prima metà del XX secolo, nonché alla responsabilità che in queste avrebbe avuto la classe borghese e piccolo-borghese. Nelle parole del giovane scrittore toscano si agita qualcosa di esteriore, di esibito, di eccessivo; attraverso di esse il mondo e le sue ferree norme vengono percepiti come un ostacolo all’affermazione di un impulso egotico, che nel camaleontismo e in un’inesausta mutatio locorum tenterà vanamente di placare la propria natura demonica. Se c’è uno stato di povertà, esso rimanda unicamente ormai alla schizofrenia di una generazione, la prima forse, educata a pretendere più di quanto il proprio ambiente poteva concretamente dare. Miseria documenta una tensione interiore potenzialmente estendibile a un preciso contesto sociale e a un intero periodo del nostro passato recente.
Diversamente in Creature vili di Federigo Tozzi (pubblicato dai Treves nel 1920) si estrinseca una sensibilità marcatamente introversa e inviluppata, un’indole spaesata davanti a una realtà enigmatica e sempre in grado di sorprendere; Giacomo Debenedetti ebbe a dire che «il naturalismo rappresenta in quanto spiega, e viceversa; Tozzi rappresenta in quanto non sa spiegare.37» La volontà di delegare quasi completamente lo spazio diegetico alle battute delle protagoniste – semplici ragazze di bordello – non ricerca in questo caso un effetto di oggettività, né sottende una scelta tecnica di tipo regressivo, definisce piuttosto nel narratore, egli pure personaggio del racconto, l’atteggiamento voyeuristico dell’inetto. Infatti, il realismo tozziano, «decisamente al di là della barriera naturalistica, è intriso di tutte quelle complicazioni psichiche che sono proprie della grande letteratura europea di sondaggio interiore, da Svevo a Pirandello a Kafka.» (A. Marchese) Le figure femminili di Creature vili, socialmente emarginate perché escluse dall’ipocrisia del perbenismo borghese, sembrano sfuggire dalla cupa visione del mondo dell’autore, una concezione sostanzialmente agonistica e polemica, nella quale la pratica costante della violenza riduce la vita a saccheggio. Se è vero, come ha sostenuto Maxia, che nella narrativa dello scrittore senese sussiste

«una situazione di “non luogo a comunicare” tra l’inetto, colui che “si astiene”, che vive “con gli occhi chiusi”, il protagonista in una parola, […] e “gli altri”, tutti quelli che stabiliscono con la vita un rapporto di possesso e di dominio […], tutti quelli che sul mondo non si interrogano, come va angosciosamente e vanamente il protagonista, ma se lo appropriano, con “bestiale” voracità38»;

se è vero questo, è anche vero che alcune anime ingenue ma autentiche eludono il determinismo perverso dell’interazione sociale e consentono rapporti sinceri, nonché una comunicazione spontanea, che in questo caso parrebbe essere ostacolato unicamente dalla ritrosia del narratore-personaggio. Tra costui e le cinque cocotte si stabilisce una sorta di cerchio magico, un sortilegio capace di sospendere il fastidio della realtà; tuttavia la realtà alla fine irrompe nei panni di un attempato cliente e assieme a questo ritorna la scontrosità un po’ selvatica del protagonista.

«Ma l’uscio si aprì; e un signore anziano, con i baffi lunghi e ben tenuto, salutò togliendosi il cappello.
Il mio sogno disparve come una bolla d’acqua saponata: restò soltanto l’indignazione e il risentimento contro costui; e me ne andai subito per non starci insieme.39»

Se nel caso de L’incendio di via Keplero di Gadda la miseria non è che uno degli ingredienti – per quanto non il minore – dell’impasto rabelaisiano che costituisce la cifra espressiva dell’autore, con Corrado Alvaro i bisogni e le idiosincrasie di «un mondo sommerso» tornano a pretendere il proscenio. La scrittura del narratore calabrese, emigrato per tempo a Milano, esprime assai bene la complessione scissa dell’intellettuale meridionale, costantemente librato tra la nostalgia per la terra d’origine, sentita come fascinosa e incontaminata, e il bisogno di emanciparsi da essa e dai vincoli secolari di un destino ineluttabile d’arretratezza. Il lirismo con cui l’autore investe un mondo di abietti, la sua pietà sincera verso i deboli, non sono bastevoli a tacitare il senso di una problematicità irrisolta. Analogamente Procopio, il protagonista di Piedi nudi (dalla raccolta L’amata alla finestra, 1929) si ostina a interpretare la realtà secondo categorie obsolete (il sentimento della gerarchia, la fiducia nell’altro, l’onestà, l’empatia, la dignità del lavoratore povero), appartenenti a un sistema sociale sorpassato dal progresso, tuttavia non riesce a sostenere lo sguardo della moglie, che a quel sistema per nascita pure appartiene ma di cui rappresenta una voce più lucida e disincantata; la moglie che «lo guardava con quegli occhi che gli davano sempre, non capiva perché, un vago rimorso». Piedi nudi, in fondo, indaga sul piano dimesso e “trascurabile” della provincia meridionale – una provincia carica di risonanze autobiografiche – la scoperta novecentesca della banalità del male, del grigiore impiegatizio del male: l’improntitudine omertosa con la quale i titolari di un privilegio difendono la loro posizione a discapito della solidarietà per il prossimo e della responsabilità morale, collaborando ad estendere il processo di reificazione connaturato al moderno sviluppo economico.
Il carretto di Elio Vittorini (1939) rielabora una materia simile, la campagna siciliana dei braccianti stagionali, ma in maniera più intima e delicata. Lo sforzo mimetico dell’autore, qui, rifluisce tutto nella trama finissima delle battute dei personaggi, brachilogie la cui scabrezza e la cui convenzionalità sono il massimo concesso dalla fierezza di carattere e dal pudore innato, al di là della fatica dei corpi e della disperazione dell’animo. I dialoghi, minimi, si riducono spesso a monologhi, sono l’estremo tentativo di non soccombere alla sofferenza, di opporsi a quell’annientamento di cui è segno evidente il disorientamento temporale dell’epilogo. Il tono compassionevole e partecipe identifica questa breve novella e la allontana tanto dall’umorismo surreale di uno Zavattini (Nat Blatter, uno sfortunato), quanto, ad esempio, dall’irruenza sarcastica di un Repaci (Hitler e Mussolini all’inferno).
I racconti di Moravia (si legga, ad esempio, Buoni a nulla da Nuovi racconti romani, 1959) e di Pasolini (Studi sulla vita di Testaccio, 1951 e Matrimonio nella baracca, 1958), pur definiti da caratteri irriducibili, rinviano se non altro per ragioni cronologiche alla stagione del neorealismo. Meno ovvia la collocazione di Fenoglio (L’Addio, pubblicato nel 1963 nella raccolta postuma Diciotto racconti ma risalente alla prima metà del decennio precedente), il cui realismo non persegue necessariamente finalità documentarie, bensì significanze che, partendo da un ambito privato, assurgono a una dimensione assoluta; eppure a Segre parve che lo scrittore potesse essere aggregato al neorealismo «per l’evocazione […] della miserabile vita contadina ai primi del secolo e della simmetrica prepotenza dei padroni e dei padri, di contro a un bisogno incoercibile di tenerezza.40»
Alla base della poetica neorealistica sta la riscoperta del popolo come possibile alternativa esistenziale alla borghesia. Nel rapporto vivo con il degrado delle borgate di periferia o con il mondo minuto della provincia rurale l’intellettuale neorealista stabilisce se stesso come presenza attiva nella storia, come voce che tende a uniformarsi al movimento concreto della realtà. Esperienze letterarie diverse ma accomunate dall’impegno e da una pratica di scrittura che sa farsi testimonianza, ricerca di verità e, non di rado, denuncia. Pure, non pochi interpreti hanno rilevato in questa produzione, sempre più costretta nel periodo direttamente a ridosso della seconda guerra mondiale, un eccesso di ideologizzazione, una tendenza a trasporre gli eventi quotidiani della gente umile su un piano epico. Come a suggerire che in essa sia latente un rischio di facile populismo.
La nostra scelta, più semplicemente, fornisce l’attestazione di due modalità affatto differenti di intendere il senso e il valore dell’indagine neorealistica. Da una parte Moravia; il suo razionalismo critico un po’ freddo, esibito; l’incisività di uno sguardo lucido che, soprattutto nella scriptio brevis, rischia certo schematismo dimostrativo. La definizione di un proletariato urbano vigoroso ma autolesionista, capace di aderire immediatamente, quasi biologicamente, alla vita, proponendosi così come contraltare al logoramento morboso della classe borghese. Dall’altra parte Pasolini; il suo cannibalismo emotivo, la passione dilacerante e intrisa della nostalgia di fondersi fisicamente e spiritualmente con quell’altrove assoluto che è l’universo degli ultimi; il bisogno viscerale di immersione «in quella materia così vitale e torbida al tempo stesso, di regressione in quella pura fisicità al di qua di ogni coscienza» (G. Baldi). E una vocazione inesausta alla sperimentazione di nuovi strumenti e di nuovi linguaggi: dal saggio breve a carattere lirico (Studi sulla vita di Testaccio) al racconto-reportage (Matrimonio nella baracca).
Avvicinandoci infine all’oggi, troviamo nella narrativa della Merini (La pazza della porta accanto, 1995) una testimonianza sconvolgente dell’alterità più insondabile, di quella dimensione parallela – eppure vicinissima – che rappresenta il disagio psichico. Un esempio altissimo di poesia in prosa, di scrittura avvolgente e sensuale, mossa da una concatenazione di accensioni analogiche, nella quale la follia è il correlativo di uno spazio indifeso e però autentico. Lo spartito della Merini non si fa mai tentare dalla nota patetica, la sua adesione alla vita è entusiastica, totale come la sua onestà nel descriverne gli aspetti ambivalenti. La prolungata reclusione manicomiale viene qui ripercorsa per suggestioni, impressioni, flash memoriali, tuttavia di norma non si traduce in un sentimento doloroso o in una volontà manifesta di denuncia, anzi pare partecipare alla stessa densità visionaria e alla stessa tensione erotico-religiosa che permeano la lirica della scrittrice milanese.
Prostituzione e tossicodipendenza, invece, dominano la scrittura di Pier Vittorio Tondelli (si veda, a titolo d’esempio, la raccolta Altri libertini). Nei suoi racconti la scabrosità delle scene, lo scommatismo dei dialoghi e l’icasticità delle descrizioni rendono conto del perché una critica disattenta e un po’ codina tacciò dapprincipio la narrativa tondelliana di oscenità, definendola pornografica. Al contrario, da un piccolo centro della bassa reggiana faceva capolino con Tondelli una voce prepotente e docilissima al contempo che avrebbe saputo incarnare gli ideali e le delusioni, il fallimento verrebbe da dire, della generazione dei nati negli anni ’50, una generazione di uomini nutriti di Rock, prima, e quindi di musica psichedelica e Punk, di contestazioni studentesche e dei temi della beat-generation. Di più, lo scrittore correggese seppe interpretare la schizofrenia della propria terra, edonistica fino allo sfinimento ma affetta da un «magone terragno inesprimibile, una sorta di overdose di cibo e di sentimenti» (R. Barbolini). In Tondelli i miserabili lo sono per scelta, ottemperano ad un imperativo categorico di autodistruzione: la loro Todessehnsucht coincide con il rifiuto del benessere procacciato loro dalla robusta remissività dei padri. Incombe su di essi la condanna di una chiaroveggenza da raggiungersi attraverso un sistematico disordine di tutti i sensi. Già la succitata raccolta Altri libertini così come i Racconti, e Desperados al loro interno, instaurarono una sconvolgente convergenza tra il destino dei propri personaggi e quello del proprio autore, il quale, più o meno consapevolmente, scrivendo descrisse la propria Saison en Enfer. Tondelli propose una modalità di maledettismo padano che avrebbe trovato adepti tra i figli della postmodernità cresciuti dalla violenza televisiva, dal gruppo dei cosiddetti Giovani cannibali al movimento del Nevroromanticismo.

Note

  1. M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Bari, Laterza, 2001, pp. 7-8.
  2. Ibidem, pp. 11-12: «Fra le altre eredità della Bibbia il Medioevo ha recepito la distinzione tra la povertà ascetica ed umile degli anawim e la nozione pessimistica della povertà come castigo di un peccato personale o famigliare, di cui i Farisei accusavano il cieco nato dell’Evangelo».
  3. Si pensi all’incontro tra Diogene il Cinico e Alessandro Magno raccontato nel VI libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (e in Cic., Tusc., V 92; Val. Max., IV 3-4; Arr., Anab. Alex., VII 2, 1), e ripreso in seguito da Lucano, nel V libro della Pharsalia, nel famoso episodio di Cesare ed Amiclate.
  4. R. Manselli, Evangelismo e povertà, in O. Capitani (a cura di), La concezione della povertà nel Medioevo, Bologna, Pàtron, 1983, pp. 153-191.
  5. Ibidem, p. 189.
  6. Ibidem, p. 173.
  7. Cfr., a riguardo, R. Lambertini e A. Tabarroni, Dopo Francesco: l’eredità difficile, Torino, Gruppo Abele, 1989; A. Tabarroni, Paupertas Christi et Apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324), in “Nuovi studi storici”, 5, Roma 1990 e, inoltre, L. Tinti, La spada e il pastorale. L’Italia come teatro dello scontro tra papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, Bologna, AZetaFastpress, 2006, p. 113: «Agli occhi del pontefice lo statuto della regola francescana doveva contenere un’implicita svalutazione dell’intera organizzazione mondana della Chiesa, la quale era stata tratta in un fine paradosso giuridico: era stata richiesta, infatti, di accordare e, quindi, di garantire ai Minori il privilegio dell’abdicatio dominii, legittimandolo attraverso l’autorità della propria giurisdizione civile, e questo affinché l’ordine potesse pervenire a quello status perfectionis che, proprio perché in gran parte esulante dagli schemi della giustizia umana, non poteva riguardare l’istituto che l’aveva concesso. Così, attraverso la dimostrazione della necessaria inseparabilità di uso e dominio nell’ambito delle res consumptibiles e attraverso il riconoscimento dell’inutilitas, e anzi della dannosità, della reservatio dominii attuata dalla Chiesa Romana sui beni dei Minori, il papa revocò le disposizioni prese da Niccolò III, invalidò il concetto di usus facti e dichiarò nullo qualunque diritto della Chiesa di Roma sui beni dell’ordine francescano, che, da quel momento, avrebbe dovuto legittimamente ritornarne proprietario.»
  8. M. Mollat, I poveri nel Medioevo, cit., pp. 329-30.
  9. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Bari, Laterza, 1988 [1ª ed. it. 1986], p. 266.
  10. Ibidem, p. 265.
  11. E. Auerbach, Mimes. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000 [1ª ed. it. 1956], pp. 339-340.
  12. G. M. Anselmi, La saggezza della letteratura. Una nuova cronologia per la letteratura italiana, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 90.
  13. A. Marchese, Storia intertestuale della letteratura italiana, II, Messina-Firenze, D’Anna, 1992, p. 471.
  14. G. Berchet, Lettera semiseria. Scritti scelti di critica e di polemica, Azzate, Mursia, 1977, p. 49.
  15. C. Tenca, Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia, in Saggi critici, Firenze, Sansoni, 1969, p. 286.
  16. C. Tenca, Prose e poesie scelte, Milano, Hoepli, 1888, II, pp. 124-28.
  17. L. Reina, Introduzione, in G. Berchet, Lettera semiseria. Scritti scelti di critica e di polemica, cit., pp. 26-27.
  18. Cfr. F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007, p. 192: «Il filone del cosiddetto “romanzo sociale”, su una base ideologica di protosocialismo e riformismo umanitario, aveva intrapreso una vasta opera di propaganda per denunciare le ingiustizie e i mali profondi della società, tentando di svolgere una missione educativa e di suscitare simpatia per le masse sofferenti. Che poi questi romanzi di scrittori progressisti, fondati su un impianto assiologico ingenuamente manicheo (il ricco perverso contro il povero virtuoso), non avessero molto a che fare con un’osservazione realistica e autenticamente critica dell’universo sociale, sembra una conferma speculare della famosa diagnosi di Engels sul realismo di Balzac, autore di un’opera che smentisce e trascende le sue implicite convinzioni politiche».
  19. A. Rossi, Socialismo e fraternato, in «La rassegna nazionale», XXXVIII, 1887, p. 784.
  20. E. De Amicis, Cuore, Torino, Einaudi, 1972, pp. 14-16.
  21. S. S. Nigro, Manzoni, Bari, Laterza, 1978, pp. 41 e segg.
  22. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, in Id., Quaderni dal carcere, III, Roma, Editori Riuniti, 1991 [1ª ed. 1951], pp. 83-88.
  23. Champfleury, Lettre à M. Veuillot, in “Le Figaro”, 10 luglio 1856; cit. da R. Wellek, Storia della critica moderna, IV, Dal realismo al simbolismo, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 8-9.
  24. Cfr. A. Castoldi, Il realismo borghese, Roma, Bulzoni, 1976, p. 254: «I Realisti testimoniano della difficoltà e delle incertezze degli intellettuali dopo il 1848, quando non si presentano loro che due scelte: o farsi conniventi del potere, o emarginarsi; il loro merito maggiore consisterà proprio nel rifiutare questa alternativa e nel proclamare l’esigenza di un impegno che doveva esercitarsi in funzione critica nei confronti del potere, ma senza saper proporre in definitiva una visione organica del proprio tempo; come Eugène Sue essi sono consapevoli della propria posizione privilegiata, in quanto detentori della cultura, ed è in nome di questo privilegio che si propongono di svolgere il loro intervento “educativo”, senza per altro interrogarsi sul valore conservatore, ed il significato paternalistico di tale intervento, che li allea inconsapevolmente a quel potere che negano».
  25. G. Verga, Introduzione (19 gennaio 1881) a I Malavoglia, introduzione di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1991, p. 3.
  26. E. Zola, Prefazione a Id., Thérèse Raquin (1867), Milano, Rizzoli, 1949, p. 5.
  27. I. Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Milano, Bompiani, 1990, p. 9.
  28. E. de Goncourt, I fratelli Zemganno, Milano, Rizzoli, 1960, p. 7.
  29. Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma 1966, pp. 59-60: «In Verga la rappresentazione popolare è solo un momento di un quadro più vasto, di cui essa non rappresenta un fattore particolarmente significativo. Dietro ai proletari dei Malavoglia e di tante delle novelle siciliane del Verga, c’è una visione di carattere più metafisico che storico, un atteggiamento morale più ontologico che terreno, un’indignazione e un pessimismo più universali che umani. Verga non assegna al popolo un posto “privilegiato” nella grande vicenda del dolore. Quel che affascina lo scrittore non è la sofferenza dei ceti subalterni, considerati come aventi leggi e manifestazioni proprie, bensì la ciclica inesorabile riconferma di una legge comune a tutti i ceti, a tutti gli uomini, a tutte le creature viventi: dal miserabile asino della novella Rosso Malpelo, ai pescatori dei Malavoglia, all’aspirante borghese Mastro-don Gesualdo, fino ai personaggi immaginati ma non compiuti degli ultimi romanzi del “ciclo dei vinti”.»
  30. L. Tinti, Introduzione, in G. Verga, I Malavoglia, Siena, Barbera, 2006, pp. XXVIII-XXIX.
  31. Ibidem, p. X.
  32. I. Silone, Prefazione (1930) a Fontamara, Milano, Mondadori, 2001, pp. 3-4.
  33. Si legga, a titolo esemplificativo, B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. XIII: «L’atteggiamento attuale nei confronti della povertà – indipendentemente dalle premesse metodologiche e dalle tecniche adottate nella ricerca – considera la povertà stessa come un fenomeno negativo. Perfino nelle versioni più estremistiche, che attribuiscono alla indigenza un ruolo rivoluzionario e che si aspettano dai “dannati” – les damnés de la terre – una radicale trasformazione del mondo, ritroviamo la convinzione di un ruolo degradante della miseria.»
  34. G. Greco, Introduzione a S. Di Giacomo, Gli sfregi di Napoli, Napoli, Liguori, 2005, p. 3.
  35. P. P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 2003, p. 167.
  36. P. P. Pasolini, Studi sulla vita del Testaccio (1951), in Alì dagli occhi azzurri, in Romanzi e racconti, II (1962-1975), Milano, Mondadori, 1998, p. 419.
  37. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, La nave di Teseo, 2019 [1ª ed. 1971], p. 134.
  38. S. S. Maxia, Svevo e la prosa del Novecento, Bari, Laterza, 1977, p. 112.
  39. F. Tozzi, Creature vili in Id., Giovani e altre novelle, Milano, Rizzoli, 2000 [1ª ed. 1994], p. 249.
  40. C. Segre, La letteratura italiana del Novecento, Bari, Laterza, 2004, p. 56.

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