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Questione di stanze. Virginia Woolf e il suo saggio su donne e romanzo
di , numero 49, giugno 2020, Note e Riflessioni,

Questione di stanze. Virginia Woolf e il suo saggio su donne e romanzo
Come citare questo articolo:
Magda Indiveri, Questione di stanze. Virginia Woolf e il suo saggio su donne e romanzo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 49, no. 17, giugno 2020

Il testo che conosciamo come A room of one’s own fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929 dalla Hogarth Press di Londra, la casa editrice fondata e diretta da Virginia con il marito Leonard Woolf, e contemporaneamente da Harcourt Brace & Co. negli Stati Uniti. La ricezione e la vendita del libro furono entusiastiche: diecimila copie in quattro mesi. Il testo incorpora, con sostanziali revisioni, un saggio che uscì nel marzo 1929 sulla rivista americana Forum intitolato “Donne e Romanzo”. Il manoscritto di questo saggio, diviso in due parti e comprendente cinque capitoli, fu ritrovato successivamente a Cambridge dal Prof. Rosembaum e pubblicato nel 1992, mentre la versione dattilografata è conservata a Monk’s House. Non è stato ritrovato invece il manoscritto delle conferenze vere e proprie da cui il testo prende origine: due lectures, a distanza una dall’altra, presso i college femminili di Newnham e Girton, a Cambridge, nell’ ottobre 1928.

«Grazie a Dio la mia lunga fatica per la conferenza alle donne è finita in questo momento. Torno ora da Girton dove sono andata a parlare, sotto una pioggia torrenziale» (27 ottobre 1928). 1

Poiché sarebbero occorse almeno otto ore per esporre l’intero testo quale lo leggiamo oggi, abbiamo la certezza di diverse redazioni, almeno quattro a quanto riferisce la Woolf nel suo diario, e quindi di un lavoro lungo un anno, da parte di Virginia, di ripresa, correzione, aggiunte.
Del resto Virginia Woolf, già molto conosciuta come intellettuale e scrittrice tra gli anni venti e i trenta, quando uscirono i suoi romanzi più famosi, La signora Dalloway, Al faro, Orlando, era invitata spesso a tenere conferenze; altri suoi saggi poi pubblicati, ad esempio alcuni sulla lettura quali “Come dobbiamo leggere un libro?” e “Mr Bennett e Mrs Brown” furono da lei ricavati da presentazioni pubbliche.
I due College di Newnham e Girton erano state le prime istituzioni di Cambridge ad aprire (tra il 1869 e il 1871) l’educazione superiore alle donne, anche se per il riconoscimento della laurea si dovette aspettare il 1948. La Woolf descrive nel diario il suo pubblico:

«Giovani affamate ma coraggiose: questa è la mia impressione. Intelligenti, avide, povere, destinate a divenire nugoli di maestre. Ho detto loro di bere pacatamente e di procurarsi una stanza indipendente.[…] A volte mi illudo che il mondo stia cambiando. Mi pare che la ragione si faccia strada. Ma avrei voluto avere una conoscenza più intima e corposa della vita. […] Penso come contiamo poco, come tutti contino poco; com’e travolgente, e furiosa, e imperiosa la vita, e come tutte queste moltitudini annaspano per restare a galla. (27 ottobre 1928)».

Merita notare che dal Newnham College sono uscite negli anni scrittrici del calibro di Iris Murdoch, Sylvia Plath e Antonia S. Byatt. Nel gennaio 1928 le studentesse della Girton, colpite dal racconto “A society”, “Una società”2, uscito nel ’21 nella raccolta Lunedì o martedì, invitarono la Woolf a tenere presso di loro una lecture. Lei rispose che sperava che la loro società sarebbe stata migliore della sua e si rese disponibile per la conferenza.
Quel racconto conteneva già il nucleo della riflessione woolfiana3 sul ruolo della donna nella società e sulla sua emancipazione, questioni di cui l’Inghilterra era antesignana in Europa a partite dal saggio di Mary Wollstonecraft, (la madre di Mary Shelley) Vindication of the Rights of Woman del 17924, e che sarà la sorgente per le successive rivendicazioni dei diritti, fino alle lotte per il voto alle donne (suffragio femminile che in Inghilterra sarà approvato nel 1919, in Italia nel 1946) e alle posizioni attuali.
I temi erano particolarmente cari alla Woolf, se già il 17 gennaio 1928 confessa di aver pensato, durante un funerale, alla “conferenza sulle donne scrittrici” e il 18 febbraio registra sul suo diario

«La mia mente sta fantasticando attorno a Women and Fiction, che devo presentare a Newnham in maggio. La mente è il più capriccioso degli insetti – svolazza, volteggia.[…] Di nuovo, invece di scrivere O. [Orlando], ho esplorato tutto il terreno della mia conferenza»

Modo ben strano di parlare della progettazione di una conferenza… insetti in esplorazione fanno la loro comparsa, quasi come il coniglio di Alice. Un anno dopo, a revisione definitiva, paragonerà il suo testo a un cavallo: “si sente che la creatura inarca il dorso e continua il galoppo”5.
Torneremo più avanti su questo originale punto di vista.

Una stanza per sé coglie la questione femminile dal punto di vista letterario, e questa è una prima grande innovazione.
Perché non ci sono scrittrici affermate prima dell’ottocento? Perché al contrario le biblioteche sono piene di libri scritti da uomini sulle donne? Da queste due domande si dipana una riflessione che è anche una indagine storica e sociale prima che un lavoro di critica letteraria. Dal paesaggio autunnale di Cambridge rivisitato dalla fantasia, quieto e variopinto, alla sala di lettura della British Library, alla propria biblioteca personale, Virginia procede passo passo, ma anche attraverso divagazioni e invenzioni, nell’analisi delle cause di una assenza femminile dalla letteratura attiva, che lei sintetizza nella formula divenuta famosissima delle 500 sterline e della stanza per sé: in pratica le donne non hanno potuto e non possono dedicarsi alla scrittura se non hanno una rendita e un luogo dove concentrarsi; se non hanno dunque indipendenza e libertà, se non accedono all’educazione, se sono interdette da tante attività, tranne quella di figlia, moglie e madre. È la Storia stessa che per secoli non ha considerato importante la presenza delle donne. Le poche scrittrici non rimaste nell’anonimato tra sei e settecento hanno patito umiliazioni e reclusioni. Anche dal punto di vista formale la “Tradizione” ha imposto regole e modalità di stile non adeguate alla scrittura femminile, la quale ha dovuto trovare il suo passo, avvalendosi del nuovo strumento del romanzo. E dopo aver passato in rassegna le “grandi madri”, Jane Austen, e Charlotte Brontë, il loro stile e le loro differenze, e aver letto “ad alta voce” un fittizio romanzo contemporaneo notandone i limiti ma anche le innovazioni, è alle studentesse dei College che la Woolf si rivolge direttamente (come nel finale del racconto “A society” in cui il testimone della ricerca delle protagoniste passa alla figlioletta di una di loro), assicurando loro che “vale la pena” (le ultime parole del saggio) proseguire un lavoro di scavo, di liberazione, di autoaffermazione che è patrimonio comune.

Gli elementi chiave del saggio, che diventeranno poi pietre miliari per gli studi di genere, si possono sintetizzare in alcuni punti:

• Necessità di uno studio accurato sulle condizioni materiali della donna nei secoli passati (“Non si sa nulla di preciso, nulla di perfettamente vero e sostanziale su di lei. La Storia quasi non la nomina”)

• Elogio della differenza (“L’educazione non dovrebbe forse tirar fuori e accentuare le differenze, invece delle somiglianze?”) e delle peculiarità proprie della mente maschile e femminile.

• Ruolo della donna come specchio (“Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere al doppio della sua taglia la figura dell’uomo”) e poi come musa ispiratrice delle multiformi attività dell’uomo.

• Potenzialità della scrittura femminile, se messa in condizione di indipendenza economica e sociale, purché ripulita da rancori e recriminazioni.

• Teoria della “mente androgina” come modalità di esprimersi del genio artistico (“Dobbiamo ritornare a Shakespeare, perché Shakespeare era androgino”)

• Concezione della letteratura come continuum, come opera collettiva e aperta alla quale ogni nuova scrittrice porta il suo contributo, e a cui sempre bisogna rifarsi.

• Esistenza di una linea materna che lega le scrittrici tra loro (“…una donna che scrive, pensa a ritroso attraverso le sue madri”).

• Importanza dello studio e della lettura connesse alla scrittura (“Ragazze, dovrei dirvi – e per favore ascoltatemi, perché comincia la perorazione – che a mio parere siete vergognosamente ignoranti”)

• Fuoco non più sui grandi nomi, ma sulle vite oscure, sconosciute (“E c’è anche la ragazza dietro il bancone – preferirei la vera storia della sua vita alla centocinquantesima biografia di Napoleone…”)

• Significato simbolico della “stanza per sé”, luogo di “chiusura” di valore rovesciato rispetto alle segregazioni compiute dalle famiglie, separazione necessaria per poter aderire alla realtà e al mondo, non per isolarsi; questa “stanza” diventa in qualche modo anche la consapevolezza del proprio corpo e del proprio esistere (“Le stanze sono così diverse; sono tranquille o tempestose; aperte sul mare, o al contrario sul cortile di un carcere; con il bucato steso, o brillanti di opali e sete; sono dure come crine o soffici come piume… basta entrare in una stanza qualunque di una qualunque strada perché ci salti agli occhi quella forza estremamente complessa della femminilità”).

• Estraneità della donna, come valore positivo, alle scelte politiche prese nei secoli dagli uomini, questione che poi nel successivo saggio Tre ghinee6 (pubblicato nel 1939) verrà sviluppata in modo importante (“Ancora, se si è una donna, si è spesso sorprese da un improvviso separarsi della coscienza, ad esempio camminando in Whitehall, quando, da erede naturale di quella civiltà, lei si sente al contrario fuori di essa, estranea e critica”).

Tutto questo, e molto di più, viene simbolicamente rappresentato da Judith Shakespeare, sorella di William, come lui dotata di talento artistico, che morì suicida e anonima nel tentativo di entrare come il fratello nel mondo del teatro londinese. La forza di questa invenzione – non esiste una Judith Shakespeare, ovvero ne sono esistite tante – è un’altra carta vincente che la Woolf gioca per dare alla serrata analisi scientifica una veste romanzesca ed emotivamente coinvolgente.

Già, perché l’altra grandissima innovazione di questo saggio, che negli anni non smette di essere generativo di riflessioni e di possibili modelli, è la forma: Virginia Woolf costruisce una non-fiction, come vengono etichettati i saggi letterari, attraverso la fiction e attraverso la commistione con generi diversi. In questo è apripista di tanti saggi contemporanei che leggiamo con rigore e con piacere, a cui aderiamo con tutta la passione del lettore, e che ci convincono nelle loro tesi appellandosi alla nostra fantasia; penso tra gli ultimi letti a quel Vivere nella tempesta dedicato da Nadia Fusini, non a caso traduttrice e commentatrice massima in Italia della Woolf, al suo rapporto con la Tempesta di W. Shakespeare7.

In una lettera al poeta Frances Cornford del 29 dicembre 1929, che si era complimentato con lei per il suo saggio, Virginia lo definisce “quel piccolo libro” e dice

«è stato un salto nel buio pieno di congetture + slanci +ogni cosa si è dovuta bollire in gelatina nella speranza che le giovani donne la ingoiassero». 8

La veste pedagogica che la Woolf pretende di aver usato è sicuramente motivazione insufficiente alla sperimentazione vera e propria che ha messo in atto, mescolando la scrittura saggistica a quella narrativa. Lo vediamo dalla prima pagina del saggio, quando mette le mani avanti (quell’incipit stravagante, «Ma, potreste dire, ….») sulla sua incompetenza, che tale non è, e anticipa quanto divagante sarà il percorso, certo non una lineare e coerente scaletta da saggio; passando poche righe dopo alla sapiente arte della descrizione pittorica, il paesaggio della campagna inglese nel fulgore dell’autunno, che insieme alle strade trafficate di Londra saranno la scena costante in cui viene lanciato e poi raccolto il “filo del pensiero”. Situare il pensiero: non si può non riconoscere in questo, oltre al ricorso dell’arte della memoria secondo gli stilemi antichi, la tecnica usata nei testi teatrali moderni e contemporanei, l’uso delle didascalie sempre più ampie, quell’ambientazione essenziale anche nei copioni cinematografici e negli story-board di oggi.
Per non parlare della quantità di metafore anche bizzarre che Virginia utilizza, e come nasconde l’Io della conferenziera in un personaggio cui il lettore è chiamato a dar nome tra tre possibili Mary: citazione colta di una ballata antica in cui si parla di una Mary rimasta incinta e morta tragicamente, anticipazione dunque di un refrain che culminerà con l’invenzione di Judith Shakespeare. Nella descrizione poi di Londra, chi conosce i romanzi della Woolf (si pensi a La signora Dalloway9) ritrova stilemi, scorci, descrizioni.

Il 10 novembre 1929 Louis Kronenberger recensendo il saggio sul New York Times10 dichiara che

«la signora Woolf parla per il suo sesso tanto con fantasia quanto con logica, con umorismo così come con competenza, e con l’immaginazione della vera romanziera […] Mantiene un saldo equilibrio, e permea questo libro di quella serie di valori letterari e critici così chiaramente enunciati nel Lettore Comune».
È interessante questo riferimento al Lettore Comune11, raccolta di saggi sul leggere, che anche in questo campo hanno reso famosa la Woolf. Ultimamente, la studiosa Sara Sullan ha giustamente preso in considerazione l’opera completa di Virginia Woolf legando nelle loro evidenti interazioni i romanzi al corpus saggistico12.

Ci troviamo dunque di fronte a un saggio “come un romanzo”, se lo scrittore Pennac consente che gli si rubi il titolo del suo fortunato libro sulla lettura (non escludendo che Pennac abbia letto la Woolf saggista): il romanzo in cui la protagonista Mary passa una giornata a Cambridge, durante la quale per alcuni motivi, tra cui l’interdizione ad entrare in una biblioteca e una cena poco soddisfacente, si incuriosisce sul destino delle donne, torna a Londra, passa un’altra mattinata in biblioteca con molta insoddisfazione, rientra a casa, continua a compulsare libri e a guardare dalla finestra, legge un romanzo commentandolo, e chiude con un’immagine di movimento;

«E rividi quella corrente che si era portata via la barca, lo studente e le foglie morte; e il taxi si è portato via l’uomo e la donna, pensavo, mentre li vedevo arrivare attraversando la strada; la corrente li ha spazzati via, pensavo, ascoltando il rumore lontano del traffico di Londra – in quella terribile corrente.»

È la giusta conclusione di un esperimento di scrittura ibrida, un’incursione nell’incrocio dei generi che esplicitamente viene esaltato dalla Woolf nel rivolgersi alle studentesse:

«Se voleste farmi piacere – e come me ce ne sono migliaia – scrivereste libri di viaggi e di avventure, di ricerca e di erudizione, di storia e di biografia, di critica e di filosofia e di scienza. Così facendo gioverete certo all’arte del romanzo. Perché i libri, in qualche modo, si influenzano tra di loro. Il romanzo sarà molto migliorato dallo stare fianco a fianco con la poesia e la filosofia.»

E davvero tutto il testo è percorso da un’aria di rinnovamento che circola tra le pagine, un senso di futuro; come se finalmente fosse giunta l’epoca per le donne di fare qualcosa di nuovo, e il connubio “Donne e Romanzo” potesse portare linfa al romanzo e alla letteratura in generale, come poi è effettivamente avvenuto nella letteratura europea; la Woolf ne è consapevole e non manca di puntualizzarlo nel suo prezioso diario:

«…siamo andati a Berlino il 16 gennaio, e poi sono rimasta a letto per tre settimane, e non ho potuto scrivere per almeno altre tre settimane, e da allora ho profuso la mia energia in una delle mie frenetiche esplosioni creative, scrivendo a letto la versione finale di Women and Fiction” (28 marzo 1929)»

« […] per il quale prevedo buone vendite. È molto convincente. Penso che la forma, per metà conversazione e per metà soliloquio, mi permetta, più di qualunque altra, di metter più cose nella pagina. Si è formata autonomamente e mi si è imposta (in questa forma – dopo aver pensato e poi scritto in modo insoddisfacente e rigido ben quattro versioni)….questo modo di fare mi fa sentire libera, mi lascia scorazzare qua e là con i miei pensieri. (13 aprile 1929)»

Davvero Una stanza per sé si pone come un “libro a venire”, secondo la definizione di Blanchot:

«Il libro solo importa, così com’è, fuori dai generi, dalle rubriche, prosa, poesia, romanzo, testimonianza, in cui rifiuta d’incasellarsi, negandogli il potere di fissare quale sia il suo posto e di determinare la sua forma»13

Virginia Woolf ci ha consegnato con queste pagine una nuova stanza, da cui partire e a cui tornare.

Note

  1. Virginia Woolf, Diari 1925-1930, a cura di Bianca Tarozzi, Rizzoli 2012.
  2. Si trova in Virginia Woolf, Tutti i racconti, Newton Compton 2007.
  3. Si veda utilmente su questo Naomi Black, Virginia Woolf as feminist, Cornell University Press 2004.
  4. Virginia scrive un articolo su di lei per l’Herald nell’agosto ‘29.
  5. Diari, lunedì 19 agosto 1929.
  6. Si veda Virginia Woolf, Le tre ghinee, (1938), Introduzione di Luisa Muraro, Feltrinelli, 1979.
  7. Nadia Fusini, Vivere nella tempesta, Einaudi 2016.
  8. Reperibile sul sito della British Library. Traduzione mia.
  9. Virginia Woolf, La signora Dalloway, trad. Magda Indiveri, Rusconi 2017.
  10. Louis Kronenberger, “Virginia Woolf Discusses Women and Fiction”, The New York Times, 10 nov. 1929. Traduzione mia.
  11. Virginia Woolf, Il lettore comune, voll. 1 e 2, Il Nuovo Melangolo 1996.
  12. Sara Sullam, Tra i generi. Virginia Woolf e il romanzo, Mimesis 2016.
  13. Maurice Blanchot, Il libro a venire, Einaudi 1969.

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