Bibliomanie

Tradusioni
di , numero 29, aprile/giugno 2012, Traduzioni, inediti e rari,

Come citare questo articolo:
Giorgio Sandrolini, Tradusioni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 16, aprile/giugno 2012

Prendendo il coraggio a due mani, mi piacerebbe farvi leggere quelli che io chiamo “giochi di tradusione”. La tradusione è una modalità di traduzione-uso-illusione per trasferire all’Io presente la bellezza canonica di un irripetibile bello passato. È un modo di camminare costantemente sull’orlo di un baratro che attrae chi, consapevolmente o no, ama e odia il kitsch. E il mio odio-amore va alla scienza in cui mi sono laureato, la filologia, in onore della quale non disdegno qualche (im)probabile integrazione, mentre l’amore va alla poesia e al senhal (Lesbia, Eliodora-Cristodora di Meleagro, Cicala e onomatopee ad essa legate) che soggiace all’intero canzoniere. (Non) abbiate pietà di questo slancio adolescenziale, di cui vi invio qualche goccia. I malcapitati sono soprattutto Catullo e altri ero(t)ici compagni di classe (classici).

Alcmane 159

Dormon le cime dei monti e le gole,
dormono i picchi, le rupi, le selve,
gli animali di terra, le belve
che vivono sui monti da sole;

dorme la stirpe delle api e i mostruosi
abitatori dei mari abissali,
dormono gli uccelli dalle lunghe ali:
‹dormono gli occhi tuoi meravigliosi›.

Archiloco 71

Possa il cielo invocare non invano
di toccare Cicala con la mano.

Mimnermo, frammento 1

Quale vita mi aspetta, quale gioia
senza l(’)a -dorata mia divina?
Venga pure la morte quando noia
avrò di queste cose: clandestina
veglia d’amore, il miele dei suoi doni,
il letto, i fiori della giovinezza
che di uomini e donne son passioni.

Ma quando sopraggiunge la vecchiezza
piena d’acciacchi, che anche l’uomo bello
brutto ti fa, sempre gli affanni allora
fastidiosi tritano il cuore a quello,
e ai raggi del sole non s’accora,
ma ispira avversione nel pischello
e la femmina pure lo disprezza:
tanto penosa un dio fece vecchiezza!

Mimnermo 2

Noi come foglie che ha rinvenute
la Primavera cosparsa di fiori,
quando basta che il sole le sfiori
coi suoi raggi e già sono cresciute:

noi come quelle, un momento soltanto
dell’età fiorita godiamo, e ignoto
ci è Bene e Male per divino voto.
Ma nere le Parche incombono accanto…

L’una ha di vecchiezza il termine triste
l’altra di morte, e dura altrettanto
il frutto della giovinezza quanto
sulla terra un raggio di sole persiste.

Quando però di codesta stagione
passato avrai il confine, la morte
e non vivere sarà miglior sorte.
Molti mal d’animo in lei han cagione:

all’uno si consumano gli averi
e doloroso in povertà s’avanza;
un altro sente di figli mancanza
e mena laggiù in Ade i desideri.

Un altro infine soffre di malanni
che gli rendono la vita un inferno:
a nessun uomo Zeus, il Padreterno,
concesse non avere molti affanni!

Saffo, frammento 31

S’io fossi l’uomo che ti siede a fronte
e ascolta il tuo soave favellare
uscir col riso, che al desio è fonte,
mi crederei pari agli dèi di stare.

Nel petto il cuore allora mi si schianta
quando a te volgo per un poco il guardo,
nulla se n’esce di pronuncia e franta
è la lingua e di febbril fuoco ardo

che lieve sotto la mia pelle vola:
e agli occhi è il nulla e tutto un rimbombare
le orecchie, mentre il sudore cola;
tutto tremore sto per diventare,

verde più ch’erba, son lì per morire,
mentre ti guardo ma non so capire

Saffo 104a

Vespero, tu che ogni cosa riporti
quante sparse ne ha splendendo Aurora:
tu che pecore e capre a dimora
meni e la figlia alla madre via porti:
‹anche in sogno, fosse per pochi istanti,
io ti prego di riaverla davanti.›

Catullo 5

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.


Viviamoci la vita, mia signora
e insieme abbandoniamoci all’amore.
Quello dei vecchi sia solo rumore
di sottofondo, che mai non ci sfiora.

Tramonta il sole ma sempre rispunta:
per noi, invece, appena è tramontata
la breve luce che ci è stata data,
si fa notte, e interminata per giunta.

Baciami dunque, mille volte e cento
e mille altre volte e ancora cento
e non fermarti ad altre mille e a cento.
Quando scambiati ne avremo un portento,

li rimescoleremo come carte:
né noi sapremo quanti baci sono
né nessun altro mai poco di buono
che del malocchio esperto sia dell’arte.

Catullo 8

Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod uides perisse perditum ducas.
fulsere quondam candidi tibi soles,
cum uentitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu uolebas nec puella nolebat,
fulsere uere candidi tibi soles.
nunc iam illa non uult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser uiue,
sed obstinata mente perfer, obdura.
uale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit inuitam.
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
scelesta, uae te, quae tibi manet uita?
quis nunc te adibit? cui uideberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
at tu, Catulle, destinatus obdura.


Povero cristo, basta sbarellare:
ciò che appar perso, dallo per perduto!
Radiosi un tempo vedesti brillare
i giorni in cui eri andato e venuto
dovunque ti volesse guidare
la donna che di un amore ha goduto
quale nessuna mai potrà sperare.

Là non mancava nessuno dei piaceri
(radiosi, davvero, quei giorni di allora!)
che tu volevi e non malvolentieri
quella accettava. Ma non li vuole ora.
Dunque tu pure, se anche ti sfugge
il controllo, non volerne ancora,
non seguitare ad inseguir chi fugge,
basta con questa vita disperata,
mettici tutto quel che entro ti rugge:
tu tieni duro con mente ostinata!

Ciao, bella. Ha imparato a tener duro
povero cristo, e non si darà intorno
per cercarti e non si sbatterà, sicuro
che tanto non ne vuoi. Ma verrà il giorno
in cui ti pentirai, te l’assicuro,
quando nessuno ti ronzerà più attorno.

Povera te! Che pena mi fai! Che orrore
di vita ti resta? Chi verrà da te mai?
Chi ti troverà carina? All’amore
con chi lo farai? A chi sussurrerai:
“Son tua”? Chi dei tuoi baci avrà l’onore?
A chi le labbra a morsi umetterai?
Ma la via, povero cristo, è già segnata:
tu tieni duro con mente ostinata!

Catullo 43

Salue, nec minimo puella naso
nec bello pede nec nigris ocellis
nec longis digitis nec ore sicco
nec sane nimis elegante lingua,
decoctoris amica Formiani.
ten prouincia narrat esse bellam?
tecum Lesbia nostra comparatur?
o saeclum insapiens et infacetum!


Ti saluto, bambina, che il nasino
non hai così piccino, e che ti tocchi
in sorte di aver bello il piedino
certo non posso dirlo, e i tuoi occhi

non sono punto neri e affusolate
non paiono le dita né fragranti
le labbra, e nemmeno troppo alate,
amichetta di quel brucia-contanti

di Formia, emetti parole. Si ostina
qualche montruccio quanto sei graziosa
a novellare? Alla nostra diviina

anche solo accostarti qualcuno osa?
Che razza di gente! Quanto è burina,
priva di spirto, quanto è disgustosa!

Catullo 70

Nulli se dicit mulier mea nubere malle
Quam mihi, non si se Iupiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti
In vento et rapida scribere oportet aqua.

A nessun altro – fa la mia signora –
mai la darebbe, se non al sottoscritto,
manco se Giove stesso per iscritto
gliela chiedesse – dice Cristodora…

Ma quel che all’omo suo la sua signora
sta a di’, se quel porello è in gran tormento,
mejo sarebbe scriverlo nel vento
o sull’acqua che trascorre ora ad ora.

Catullo 72

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me uelle tenere Iouem.
dilexi tum te non tantum ut uulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
nunc te cognoui: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es uilior et leuior.
qui potis est, inquis? quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene uelle minus.


Ricordi quando andavi ripetendo
che eri tutta e solo di Giorgione
e manco Giove avea di me ragione?
Eri la mia diletta allora, intendo

non come lo è un’amica, ma una figlia
per suo padre, o gli sposi novelli
per il suocero dai bianchi capelli .
Ora che so chi sei, pur se mi piglia

più focosa di gran lunga la passione,
non vali più come oro può valere,
non sei più così pura. “E può accadere?”

Sì, la sciagurata tua omissione
stimola sensualità per reazione
ma toglie sentimento al ben volere.

Catullo 85

Odi et amo. quare id faciam, fortasse requiris.
nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio ed amo, poi ti odio e poi ti amo…
Mi chiedi, a buon diritto, come faccio:
io non lo so, ma è quello che sentiamo,
quello che ci succede, e mi disfaccio.

Catullo 85 bis

Odio ed amo, poi ti odio e poi ti amo…
“Come faccio”, sento chiede la tua voce:
io non lo so, ma è quello che sentiamo,
quello che accade, e che mi mette in croce.

Catullo 86

Quintia formosa est multis. mihi candida, longa,
recta est: haec ego sic singula confiteor.
totum illud formosa nego: nam nulla uenustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,
tum omnibus una omnis surripuit Veneres.


Squinzia è caruccia – e molti l’hanno detto -,
io dico pure che ha un bianco incarnato,
che è longilinea ed ha un gran bel portato…
disarmoniche virtù, però le ammetto.

Ma da qui a dire che sia ‘sta bellezza”
ce ne passa: è lo stile che non va!
E in tutta quella robba in quantità
non trovi manco un grano di saggezza.

Bella è la donna mia, lei sì che è bella!
Lei che davvero è così bona tutta
che a tutte lei da sola ha tolto tutta
la grazia e l’abbiccì per esser bella.

Catullo 101 (In morte di mamma Lucia)

Multas per gentes et multa per aequora uectus
aduenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, aue atque uale.


Quante strade, quanta terra che ho battuta
per giunger, mamma, all’ultimo saluto
e donarti questo estremo tributo
e parlarti invano, cenere già muta.

Or che la sorte mi ti ha strappato,
povera mamma morta indegnamente,
ora quel rito, che l’antica gente
volle per triste onore fosse dato,
accogli intriso di pianto filiale,
‹infondendo a piene mani la tua luce
a colei che sulla terra donna e duce
mi è›, e in perpetuo, mamma, ave atque vale.

Catullo 109

Iucundum, mea uita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
di magni, facite ut uere promittere possit,

atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere uita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.


Tu che sei la mia vita, questo amore
mi prometti eterno e privo di tempeste:
Dèi del cielo, del suo dire siate teste
perché affermi il vero che le vien dal cuore.

E così ci sia concessa la licenza
di serbar santificato questo patto
di amicizia, che per il lungo tratto
ci guiderà dell’intera esistenza.

Meleagro, A.P. 143

Perde, sfiorendo, il serto il suo splendore
che intorno alle tue tempie sta intrecciato:
lampeggia Cristodora il tuo fulgore
serto in fiore che il serto ha illuminato.

Meleagro V 155

Lui stesso l’ha plasmata nel mio cuore:
Cristodora, che tanto dolcemente
mi parla, l’ha messa dentro Amore,
e lei anima la mia anima e la mente.

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