Bibliomanie

Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza
di , numero 30, luglio/settembre 2012, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Monica Fabbri, Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 30, no. 8, luglio/settembre 2012

L’Iliade. Nei banchi del liceo (un tempo anche alle medie) imparavi a conoscere l’asprezza di alcuni versi, l’atmosfera cupa, il presagio di morte. Alla fatidica domanda per scongiurare la noia di alcune mattinate, ‘ma tu quale dei tre poemi preferisci’, puntualmente la mettevi all’ultimo posto. Dopo l’Odissea e l’Eneide, si intende. Diciamoci la verità. Nessuno riusciva a competere con l’Ulisse, il farfallone, l’imbroglione che ti strizzava l’occhio e ti spingeva al di là del consentito. Il non plus ultra. L’Iliade proprio no. Poteva piacere a qualche saputello appassionato di guerre. Ma a noi incantava quel viaggio tra mille perigli, le sirene ammaliatrici, i popoli sconosciuti con abitudini alimentari a dir poco eccentriche. Invece Simone, una donna, ci ribalta la prospettiva, ci racconta la sua lettura dell’Iliade, dove intuisce tutta la violenza dell’epoca nella quale lei vive. Infatti L’Iliade o il poema della forza fu elaborato da S. Weil tra il 1936 e il 1939, un periodo in cui la storia aveva preso un suo corso vorticoso; uscirà tra il 1940 e il 1941 sui “Cahiers du Sud” a Marsiglia, in una zona della Francia che poteva ancora dar voce e offrire un riparo a chi non era allineato al governo collaborazionista di Vichy; è uno dei pochissimi testi pubblicati mentre Simone Weil era ancora in vita. I diversi totalitarismi che andavano delineandosi in quegli anni affondavano impietosi le loro radici in una storia apparentemente sepolta. “La forza trasforma chiunque da essa venga toccato”. E’ l’essenza del poema, secondo la Weil, e ci riguarda tutti. Questa interpretazione, oltremodo drastica e crudele, spazza via la polvere da un testo che per molti è semplice archeologia. Eroi e dei si arrabattano come sempre, ma non è questa la trama vera e appassionante. L’Iliade è piuttosto il poema della Forza e del potere che essa ha da una parte di portare alla rovina chi la esercita e dall’altra di pietrificare e ridurre chi la subisce. “Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae … Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse solo al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi, invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi. La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa”. La guerra e i duelli trasformano gli uomini in cadaveri; prima respirano, vivono e amano, poi, un istante dopo, non ci sono più.

i cavalli
Facevano risuonare i carri vuoti sui sentieri di
Guerra,
in lutto per i loro condottieri senza macchia. Essi
sulla terra
Giacevano, agli avvoltoi assai più cari che alle
loro spose


La moglie premurosa prepara per Ettore un bagno caldo, ma “il braccio di Achille lo aveva sottomesso, a causa di Atena dagli occhi verdi”. Anche Odisseo fuggiva la quotidianità con il suo destino avventuroso, però nell’Iliade la consapevolezza di essere “ben lontano dai bagni caldi” è tragica. Ancora più struggente e misterioso il potere che la Forza esercita sui vivi, facendoli diventare cose. Sono gli schiavi, paradossi viventi, cose animate: “una cosa che ha un’anima; che strana condizione per l’anima … essa non è fatta per abitare una cosa; quando vi è obbligata non v’è più nulla in essa che non patisca violenza”. Ma chi possiede davvero la Forza, che potremmo definire, con un termine più attuale, il Potere? Nessuno. Si crede di possederla. Nessuno la possiede veramente. Tutti, vinti e vincitori, liberi e armati, si piegano ineluttabilmente. Coloro che sottomettono o vincono i duelli si illudono ancor più miseramente di chi diventa schiavo: il potere inebria e annienta insieme. Agamennone, insopportabilmente tronfio, umilia Achille per dimostrare che lui è il padrone, poi si umilia davanti al Pelide e lo supplica in modo del tutto vano.
“Ma chi ascoltava l’Iliade sapeva che la morte di Ettore doveva dare una breve gioia ad Achille, la morte di Achille una breve gioia ai Troiani e l’annientamento di Troia una breve gioia agli Achei”. Molti, persino Achille, pronunciano parole ragionevoli, che però cadono nel vuoto durante il gioco disumano del conflitto. Presto la guerra smette di essere un sogno di gloria, diventa una realtà consistente e porta solo la morte. “La guerra cancella ogni idea di scopo, persino l’idea degli scopi della guerra”. Nei banchi di scuola non si avvertiva la poderosa umanità dei versi di Omero: parevano elenchi interminabili di battaglie, un freddo accumulo di violenze. Simone Weil ti costringe a rileggere quelle pagine per riscoprire fino in fondo “un’inguaribile amarezza che si fa continuamente sentire, anche se spesso è indicata da una sola parola, spesso solo da una cesura nel verso, da un a capo”. Tuttavia una siffatta amarezza è ben lontana dal divenire lamento, semmai lascia il posto alla tenerezza che si riversa su tutti gli uomini, vincitori e vinti, con una tensione maggiore nei confronti della sventura dei nemici. Il poeta non pare un greco, anzi alle volte potresti confonderlo con un troiano, non importano fazioni o patriottismi perché il nucleo essenziale del poema verte sulla “subordinazione dell’anima umana alla forza, cioè alla materia. Questa subordinazione è la stessa per tutti i mortali, benché l’anima la porti diversamente a seconda del grado di virtù. Nell’Iliade, come pure sulla terra, nessuno vi si può sottrarre. Nessuno di coloro che vi soccombe è visto per questo come un essere spregevole”. La reificazione dell’individuo assume un ruolo centrale in tutta la letteratura del Novecento: basti pensare ad un solo esempio, spesso dimenticato ma illuminante e premonitore, I quaderni di Serafino Gubbio operatore, romanzo di Luigi Pirandello uscito nel 1925. La vicenda dell’operatore cinematografico Serafino, soprannominato Si gira ( il testo era stato inizialmente pubblicato nel 1916 con questo titolo) è emblematica dell’alienazione dell’uomo causata dalla macchina. Una sorta di Forza contemporanea, per dirla con la Weil, che distrugge l’anima fino alle radici. Serafino si sente totalmente alienato dal suo lavoro tant’è che poi afferma: “Finii di essere Gubbio e diventai una mano”. Secondo Pirandello, il fragoroso meccanismo della vita porterà alla schiavitù dell’uomo: l’individuo si reifica attraverso la sua più geniale invenzione. Credendo di sottomettere la natura con la tecnologia, smarrisce l’identità, viene sopraffatto dalle macchine e ridotto in schiavitù. La meccanizzazione ha tolto la possibilità di dare un senso alla vita. Riecheggiano allora le parole di Achille:

Nulla vale la mia vita, nemmeno tutti i beni che
si dice
Contenga Ilio, città così prospera …
infatti si possono conquistare buoi, grassi montoni …
Una vita umana, una volta andata, non si riconquista più


A che serve la vita all’uomo? A che gli vale tanto arrabattarsi nel fango, nella gloria, nella storia, se poi diventa cosa, oggetto informe e senza vita? Simone Weil ci presenta la pietrificazione dell’essere determinata dalla violenza della guerra: tutto si fa immobile. Chi può spezzare una simile inesorabile catena che rende la persona angosciosamente statica? Per la Weil Cristo è l’esempio vivente di una possibile redenzione e della rottura dell’imperio della forza: l’interruzione di un destino cieco a favore di un destino umanizzato è la folle scommessa del cristianesimo. “Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco come l’Iliade ne è la prima … la miseria umana viene messa in mostra, e questo in un essere divino e umano allo stesso tempo”. Dio diventato carne, presenza certa, si impone sulla Forza come una sottile linea rossa: l’unica possibilità data all’uomo per scoprire il suo vero volto.

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