Bibliomanie

Mirco Dondi, I malriusciti
di , numero 31, ottobre/dicembre 2012, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Giorgio Sandrolini, Mirco Dondi, I malriusciti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 11, ottobre/dicembre 2012

I malriusciti è un romanzo di formazione e di informazione. Il processo di postmaturazione di un gruppo di adolescenti è descritto in pagine incorniciate in una linea del tempo, talora utile talora un po’ forzata. Ma è il prezzo da pagare a uno storico di professione.
Si tratta senza dubbio di un romanzo generazionale, ma affermarlo è tautologico. Chi non scrive di/ e secondo i canoni della/ generazione d’appartenenza? E la nostra, proprio perché generazione mancata, scippata, malriuscita, cerca di marcare quei territori che non ha avuto (o di cui ritiene, nel congenito vittimismo, di essere stata privata). È una recherche proustiana che esplora l’immaginifico, immaginando quell’immaginazione al potere gridata e adesso a tutti gli effetti in mano a quelli che ci hanno preceduto e che, precedendoci, nunc et semper staranno davanti a noi, potenti e invidiati.
Non potendo cantare le occupazioni e i cortei, gli slogan e le bandiere, Dondi descrive i silenzi, le azioni mancate. È un sistema verbale imperfetto, nel senso di “non portato a compimento”. In questo senso più “non-riuscito” che “mal riuscito”. O meglio non siamo proprio usciti, siamo rimasti, anzi, come due dei protagonisti, tornati e rintanati nell’alveo materno del natio borgo selvaggio. E in questo sta il fallimento, segnato anche dal linguaggio. Se qualche eco delle parole e dell’ideologia dei Settanta(“gli anni della modernità”) risuona nelle prime pagine, dopo tace per sempre. Forse per questo la pianura, l’indistinta bassa nebbiosa dove il “privare” e quindi il “privato” e i “privati” (cioè i malriusciti) hanno la meglio sul pubblico (e quindi sulle agognate generazioni precedenti) è l’ambiente ideale (cioè immaginario) della vicenda. E forse è proprio per questa sconfitta generazionale che sanguina e lacera, che ai maschi velleitari della prima parte si sostituiscono come protagoniste le femmine nella seconda. E la narrazione al femminile, riflessiva più che attiva (non oso dire passiva), è la dominante a indicare la resa, la mancanza di impegno.
Insomma, se di un romanzo on the road, tra la via Emilia e il Waste Land vogliamo parlare, dobbiamo rispondere alla fatidica domanda su “dove andiamo”, con un laconico: “l’importante è non dove andare ma come restare”, come continuare a restare gli stessi anche senza avere compiuto nulla di memorabile, nulla che sia “uscito” da questo orizzonte senza orizzonte, grigio, nebuloso, uguale e minimale.
E neanche la Storia, quella con la maiuscola, accarezzata per caso, come nella tradizione dell’altra Hollywood dei Settanta, riesce a far rialzare questa generazione di sommersi e saldati a terra. Forse perché il secolo breve è stato troppo breve per dare ospitalità a tutti, e il muro è crollato proprio quando loro pensavano che il primo gennaio 1980 sarebbe stata l’alba di un nuovo mondo, mentre era solo l’inizio del decennio del crepuscolo.

Un fratello malriuscito

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