Bibliomanie

Sonetti d’occasione
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Federico Cinti, Sonetti d’occasione, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 8, maggio/agosto 2013

Da un po’ di tempo, ormai, da un paio d’anni direi, se la memoria non m’inganna, ho cominciato a scrivere soltanto sonetti dallo schema originario, con le rime alternate nella fronte e nella sirma. Se sia un bene o un male, questo davvero non lo so capire, e francamente m’interessa il giusto. Vorrei solo sapere perché per molti, oggi, il sonetto sia avvertito come un gioco dilettantesco e obsoleto, come un assurdo retaggio del passato. Lo strappo forte delle avanguardie non ha fatto altro che ridurre i versi a briciole, più o meno corpose, di parole. Io, purtroppo, non mi ritrovo che nel verso misurato, nello schema tornito e cesellato, e questo perché è una scelta di assoluta libertà, perché nessuna tradizione me lo impone più, perché in fondo sono convinto che la regola sia la mia unica libertà, che mi oppone al mondo del caos e del disordine. Ecco, allora, che la regola, la norma, il canone sono il mio tratto distintivo, il mio stile, la mia riconoscibilità più profonda.
Nemmeno io amo la maniera: ci tengo a sottolinearlo e a rimarcarlo in modo deciso. E, del resto, tutto può divenire manierato e stucchevole, finto intendo dire e ozioso. Io cerco nel sonetto, come in altre forme chiuse, o apparentemente tali, un’ancora di salvezza e di ricostruzione sulle macerie crollateci addosso dopo la disgregazione del sistema. Non è, però, si badi bene, un ritorno al classicismo; è, piuttosto, la ricerca di ciò che ci ha resi quello che siamo oggi, con tutte le contraddizioni del caso. Sono, infatti, sempre più convinto che il sonetto sia veramente ancora vivo, presente, alla coscienza dei lettori di questo Terzo Millennio così incerto e ansioso.
Non sarò certo io a negare, è evidente, che vi sia anche un pizzico di provocazione nella scelta della forma misurata. Nel momento in cui vogliono farmi credere che non si scrive più così, come se poi si potesse davvero decidere e soprattutto imporre, ecco che io proprio così scrivo, e mi diletto, e provo a denunciare che il re è nudo. Già, perché non posso sopportare che schiere di critici schierati debbano difendere una scrittura il cui senso è oscuro, al limite dell’impenetrabile. Un testo poetico veramente degno di questo nome non abbisogna di cervellotiche interpretazioni o di difese d’ufficio. È il lettore che giudica, compartecipando alla creazione di un’emozione, condividendo un’esperienza, litigando anche con chi ha scritto quei versi. Fino a oggi, chi mi ha letto e continua a leggermi mi apprezza; ma chi non mi ha letto e non vuole leggermi perché mi giudica, o pregiudica, vecchio o non adeguato al tempo in cui viviamo, beh… dimostra una scarsa capacità critica e un dogmatismo francamente insopportabile.
In barba a tutto e tutti, allora, continuo questo mio scavo nella forma, questa mia dissoluzione dello schema, e mi rendo conto anche di come la tessitura abbia qualche distorsione, qualche deviazione, qualche erosione. Non che tutto non sia già stato, in una certa misura, sperimentato; però, a poco a poco, mi sono accorto di avere abolito la divisione interna tra le varie parti che compongono il sonetto. Ed è stata un’abolizione progressiva, una sorta di rivelazione illuminante, prima tra le due quartine e le due terzine: erano come due blocchi contrapposti e unitari, che si opponevano e si completavano. Ora, negli ultimi testi, è come se la materia prendesse forma in una colata unica o quasi unica.
Qualche esempio tra i tanti potrà rendere più chiaro il mio discorso. E procederò un po’ per giustapposizione, per accumulazione quasi e distorsione, non certo secondo una rigida scansione cronologica. Un caso simile ad A Zacinto mi è capitato di scrivere in questo testo d’occasione. Una donna bellissima, il cui nome è Alessandra (il cognome l’ho dimenticato subito o quasi subito), ERA VENUTA a presentarmi alcune opere dell’UTET. Ero rimasto così estasiato da pensare alle «donne angelicate» della tradizione stilnovistica.

AD ALESSANDRA DELLA UTET

Pensavo che le donne angelicate
non fossero realmente mai esistite,
le donne eteree e lievi come fate
vissute in altre epoche o altre vite,

le donne dai poeti immaginate,
apparse un giorno e un giorno poi sparite,
le donne eterne, quasi idee innate
o dee nate da donne indefinite,

e invece no, esse esistono davvero,
non sono il frutto della fantasia
solitaria, del genio o del pensiero:

ieri sera è venuta a casa mia
Alessandra, un miracolo, un mistero
di bellezza, dolcezza e d’armonia.

Era venerdì 7 dicembre 2012. segno anche la data, come una sorta di diario poetico. Del resto, altra caratteristica della scrittura di sonetti, per me, è l’unicità del momento. E questo non significa che si elimini il labor limae, ma che l’atto poetico si venga collocare nello spazio e non solo nel tempo.
Per il Natale di due anni fa, del 2011, ho scritto quasi di getto questo divertissement, un sonetto dedicato a un amico carissimo. Certo, in questo caso, l’immagine iniziale, la descrizione di questo Ingegnere umilissimo, si distende in modo serrato nelle due quartine; l’azione, poi, si risolve nello sberleffo graffiante delle due terzine.

L’INGEGNERE UMILISSIMO

L’Ingegnere umilissimo ha vestito
un abitino candido di organza,
porta l’anello piscatorio al dito,
ma senza dargli poi troppa importanza,

e da due o tre fantesche è riverito
come un pascià, che nettano la stanza
da bagno turco, perché abbia abbastanza
aria, se deve compiere il suo rito.

Dopo quell’atto di liberazione
nazionale, col volto rinfrancato
e il profumo dell’ultima abluzione,

quando si sente pronto, e ha preparato
tutto quanto, va subito al balcone,
e ammansisce la folla che ha pagato.

Ancora per il Natale, ma del 2012 questa volta, ho provato a trattare il tema della Sacra famiglia. Ecco, in questo caso, la divisione interna tra le varie strofe è venuta completamente meno, in una sorta di unico grande periodo.

LA SACRA FAMIGLIA

In un’aura soave, che trastulla
l’anima in sogni di felicità,
dorme un bimbo indifeso in una culla
umile in una stalla, e con lui sta

la sua mamma, una vergine fanciulla,
che medita in silenzio non si sa
che mistero infinito, e quasi nulla
sembra turbarne la tranquillità,

sospesa tra le stelle luminose
e i canti dei pastori in lontananza,
che fanno eco alle voci melodiose

degli angeli nel cielo in esultanza,
e un uomo guarda tutte quelle cose,
e veglia, meditando una speranza.

Passo rapidamente, ora, ad altri testi, lasciando al mio lettore il giudizio sul componimento in questione. Dico solo che, dopo uno dei primi giorni di scuola, spiegato con un certo trasporto Virgilio, ho chiesto ai miei studenti di esprimere un giudizio sul poeta dei poeti. Il risultato è stato quello che segue: avvilente? Naturale e scontato? Non so proprio dire.

CRONACA DI UN LUNEDÌ QUALUNQUE

Stamattina, un’angelica fanciulla,
con voce lieve e timida espressione,
con quella pacatezza che trastulla
gli animi saggi, dopo la lezione,

in due e due quattro, come fosse nulla
la sua bimillenaria tradizione
di vate e la sua fama arida e brulla,
mi ha frantumato il povero Marone:

«È un po’ noioso!». E sono andato via
barcollando qua e là, quasi stremato,
in preda alla tristezza e all’afasìa.

Mi sono preso il solito macchiato
con una palla, per la glicemìa,
e lemme lemme, poi, ci ho riprovato.

Era lunedì 24 settembre 2012, un giorno che, ormai, non posso più dimenticare. La poesia, in fondo, serve pure a eternare un istante e con lui il poeta che lo ha vissuto.
Mi piace anche proporre alcuni sonetti epistolari che, ultimamente, ho scritto a un mio ex-studente, Leonardo, che dopo la scuola, si è innamorato della poesia e con cui ho cominciato a corrispondere, come nei secoli addietro, proprio in versi.

RISPOSTA A LEONARDO

Avrei voluto scriverti qualcosa
in versi, ma mi sento una stanchezza
addosso, una stanchezza perniciosa
che mi avvince le vertebre, mi spezza

le giunture, e mi abbraccia senza posa,
e a volte è dolce come una carezza
che, a poco a poco, si stende e si posa,
mentre altre è tetra e stringe con asprezza,

e quindi me ne vado presto a letto,
e lascio il mondo e tutto ciò che dice
a chi, in questo momento, è più perfetto

di me, a chi ora è contento ed è felice,
e penserò così, solo soletto,
come Dante alla sua, alla mia Beatrice.

lunedì, 18 marzo 2013

E ancora, non pago, ho continuato con un sonetto d’accompagnamento a un testo che Leonardo mi aveva chiesto di rivedergli. Sono cose che si fanno, anche per chiedere un parere.

Carissimo Leonardo, ti rinvio
in allegato il testo che ti ho letto
e ti ho rivisto, certo a modo mio,
e ti rispondo in forma di sonetto,

senza troppa fatica o logorio
di cerebro, d’ingegno o d’intelletto,
ma in fretta e furia, come faccio io
a volte e come già, credo, ti ho detto,

perché tu possa trarre qualche spunto
da quello che ti scrivo e che ti dico
o, se non altro, almeno qualche appunto

come si prende certo da un amico
più che da un vecchio prof. unto e bisunto,
e infine ti saluto. Federico.

venerdì, 29 marzo 2013

Nel prossimo testo annunziavo, sempre a Leonardo naturalmente, l’uscita del mio Bestiario. Ritratti veri di persone false (Bologna, Persiani edizioni 2013). Certo, il testo è molto ironico, soprattutto nell’ultima parte. Proporrò, poi, un sonetto del Bestiario, che altro non è che il mio autoritratto. Ma prima questo di cui sto parlando.

Non c’è molto da dire: con un po’
di pratica, di voglia e di mestiere,
tutto quanto si fa, tutto si può,
e dà soddisfazione, e dà piacere,

come pure tu sai, come io so,
e come tutti possono vedere
tanto al di qua quanto al di là del Po,
e sono gioie semplici, ma vere,

come questa che, adesso, hai in anteprima,
e che ti scrivo in modo un po’ sommario
tra un verso, tra una strofa e tra una rima:

è uscito finalmente il mio Bestiario,
che ho già qua in mano, il frutto della lima
incallita di un genio letterario.

venerdì, 29 marzo 2013

e adesso il mio autoritratto, ovviamente sottoforma di bestia, la bestia umana.

L’UOMO

L’uomo era nato lirico; ma, poi,
alla satira fu riconvertito;
studiò nella città dei Galli Boi,
donde fu ricacciato e fu spedito

in provincia, tra i falchi e gli avvoltoi,
e da nessuno o quasi fu assistito;
cercò sempre di farsi i fatti suoi,
ma da molti gli fu spesso impedito.

L’indagine dell’animo gli piacque,
di quell’animo umano e disumano,
di cui sempre parlò, di cui non tacque;

pochi amici gli tesero la mano,
e spesso navigò in cattive acque,
ma da solo arrivò molto lontano.

Chiudo questa breve (e spero intensa) carrellata con un testo tremendamente serio, ma d’occasione. A un amico era fuggito un corvo che, tempo addietro, aveva salvato da morte sicura. Il piccolo uccello, pure addomesticatosi, ha preferito comunque la libertà alla gabbia dorata in cui era stato allevato. Anche in questo caso, visto che il sonetto è molto recente, la struttura è ormai solo un simulacro di se stessa.

L’ULTIMO VOLO

Una finestra, un vetro, una carezza
amorevole è tutto, o forse solo,
quello che aveva un corvo, una certezza
nell’infinito, nell’immenso stuolo

dei pericoli, un mondo senza asprezza
e inganno, dove mai cadere al suolo
senza alzarsi di nuovo, e l’amarezza
in quel momento in cui spiccava il volo

verso la libertà, verso quel cielo
lontano, verso un mondo più sincero,
visto e sognato nel suo cuore anelo,

verso la vita, l’unico mistero
di cui giorno per giorno cade il velo,
e che si ama d’amore puro e vero.

domenica, 7 aprile 2013

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2013 Federico Cinti