Bibliomanie

Il verbo come imago aeternitatis. Note su Francesco Acri interprete di Platone
di , numero 35, gennaio/aprile2014, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Matteo Veronesi, Il verbo come imago aeternitatis. Note su Francesco Acri interprete di Platone, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 3, gennaio/aprile2014

Dall’antichità al Medioevo all’Umanesimo (da Cicerone artifex più che interpres, artista e ricreatore, ben più che mero, passivo traduttore, del testo platonico, a San Girolamo, con la sua idea della traduzione che rende non verbum e verbo, ma sensum e sensu, non la lettera esteriore, per così dire epifenomenica, del testo sacro, ma il suo messaggio recondito, le risonanze e le armoniche di quel mysterium che è insito nello stesso verborum ordo, nella stessa tessitura verbale e grammaticale della voce divina, fino al De interpretatione di Leonardo Bruni, persuaso, come Dante, che il discorso della bellezza e della sapienza fosse cosa «per legame musaico armonizzata», retta da equilibri ed intrecci sottili, necessari, delicatissimi – «verba inter se festive coniuncta, tamquam in pavimento ac emblemate vermiculato»1 – che il traduttore doveva saper salvaguardare nel momento stesso in cui li trasfigurava nella nuova creazione), l’atto della traduzione è stato intimamente associato a quello, in senso lato, dell’ermeneutica: ermeneutica intesa, nel suo valore più autentico ed essenziale, come investigazione del mistero, esplorazione del sostrato semantico e speculativo più celato e oscuro del testo, della parola e, attraverso di essi, dell’Essere stesso, la cui struttura profonda, la cui configurazione metafisicamente spazio-temporale, si riflettono, in certo modo, nel tessuto verbale e retorico della scrittura, riversandovi, e in essa effondendo e rispecchiando, la propria autonomia e la propria aseità, riscattate da ogni succube mimesi del fenomeno. Parola pura, insomma, come specchio e dimora del puro essere, del nudum esse, dell’esse in se.
Questa, o simile, fu, certo, la visione dell’ermeneutica e della tradizione che animò anche Francesco Acri, pensatore platonico che fu, fra secondo Ottocento e albori del Novecento, all’Università di Bologna, collega di Carducci, di Pascoli, del geniale e oggi un po’ dimenticato glottologo Alfredo Trombetti (nonché successore di Francesco Fiorentino, dal quale lo divise una garbata polemica metafisica, innescata dalla volontà antihegeliana, da parte di Acri, di conciliare l’assolutezza della logica e dell’ontologia con la storicità e la tangibilità, schiettamente cristiane, del Verbo incarnato, nonché con il carattere, da ultimo, sovrarazionale e iniziatico della Rivelazione), e maestro, fra gli altri, di Renato Serra, di Manara Valgimigli così come dello storico delle religioni Raffaele Pettazzoni, oltre che predecessore di Rodolfo Mondolfo, che gli dedicò un’equilibrata rievocazione, sottolineando come, in lui, la ricerca di un rifugio, nella religione, dalla ragione e dalla filosofia con la loro dialettica corrosiva e il loro spirito, tanto spesso disgregante, di analisi e discussione, non fosse che l’altra faccia di un ciclico tornare al moto, e nel moto, della dialettica, dell’analogia e della dissociazione, l’altro risvolto e l’altra implicazione del «bisogno, in lui persistente, di confortare e confermare la fede con la ragione», quasi ricalcando il principio, tipico della sapienza cristiana, del crede ut intelligas, intellige ut credas, prefigurazione, ancora entro l’orizzonte della fede, di quello che sarà il circolo ermeneutico, il continuo andare «dal centro al cerchio, e poi dal cerchio al centro»2.
Invero, con Acri – che pure si era formato, in Germania, alla rigorosa scuola del Trendelenburg, da cui con tutta probabilità mutuò la fondamentale concezione del moto, dell’assiduo, vitale ed animato movimento, come potenza, condizione e facoltà che congiungevano e unificavano il pensiero e l’essere, mediando fra l’uno e l’altro e rinsaldando il nesso fra l’essere stesso e la parola, l’espressione, il testo, intesi come riflesso perpetuo di una temporalità assolutizzata e sublimata, di un divenire cristallizzato in una perennità intesa quale inesauribile reiterabilità interpretativa – sembra giungere al proprio compimento, ai suoi esiti estremi e insieme, forse, all’esaurimento di tutte le sue possibilità speculative ed espressive, fino a risolversi, proprio al culmine della sua mistica evasione, in una paradossale e insospettabile modernità – vicina allo spirito della poesia simbolista, vociana e poi ermetica – di forme, di stili, di coscienza della parola assoluta, tutta una tradizione ottocentesca di pensiero spiritualistico, ispirato da una matrice platonica o tomistica: da Augusto Conti, il quale cantava l’Armonia delle cose, l’«idea sublime dell’uomo interiore», l’essenza musicale dell’anima «armonicamente composta nelle sue potenze», intesa, secondo lo spirito pitagorico di un’antica sapienza italica già rievocata e mitizzata da Vico e da Cuoco, come un’immateriale eppure potente facoltà che «riceve in se stessa l’armonie musicali», fino a certe pagine del Rosmini più raccolto, mistico, meditante, orante, che nel Verbo, nel Logos cantato da Giovanni (e poi identificato, da Acri, con il Logo platonico, con l’ordine universale effigiato nel Timeo) vedeva la sintesi dell’armonia e del destino del tutto, tese alla propria incarnazione e al proprio inveramento nel volto del Cristo (una prospettiva, quest’ultima, che trovava riscontro in Della vita di Gesù Cristo di Vito Fornari, al quale Acri fu sempre legato da una devota amicizia).
«Le relazioni sono di tutte le verità la più recondita, e ad un tempo più manifesta», scrive Conti. Il mistero, chioserà splendidamente un pur diffidente Gentile, «messo a capo della metafisica, l’avvolge tutta nella sua lucentezza misteriosa»3. Non dissimile sarà l’approdo ultimo di Acri nella sua opera più impegnativa, Videmus in aenigmate, edita a Bologna, da Cappelli, nel 1907 (ma nella quale culminano una riflessione e un magistero miti, defilati, quasi pudichi, di una pazienza, un’assiduità e una parsimonia cenobitiche, che non per nulla affascineranno un letterato puro come Serra): Acri che si discosta, in modo sottile ma decisivo, dalla concezione rosminiana dell’idea dell’Essere come premessa intuitiva, naturalmente fondante, di ogni ulteriore conoscenza (per poter conoscere un qualsiasi ente determinato, argomentava in sintesi Rosmini, è necessario prima possedere l’idea innata ed originaria dell’Essere in universale), e proprio in questo suo differenziarsene si avvicina – con la sua idea di un essere che si dà e si rivela per gradi, in modo dapprima nebuloso, erratico, caliginoso, per speculum et in aenigmate, per l’appunto, come diceva San Paolo, e poi progressivamente, di grado in grado, in maniera più chiara, fino alla semplice e fulgida evidenza del “mistero in piena luce” che resta, nondimeno, in se stesso, nella sua impenetrabile profondità di roveto ardente, mysterium, mai pienamente accessibile alla sola ragione umana, e conoscibile o intuibile solo per simboli, anticipazioni, barlumi, bagliori, progressivi ma parziali, indefinitamente approssimati e protratti – all’analogismo e al “pensare per immagini” di tanta poesia, e filosofia, novecentesca.
L’intuizione originaria dell’essere è, per Acri – come in un verso di Dante che sarà caro a D’Annunzio –, «incognita indistinta»: «come un alto albero nascosto è nell’umile seme, così è la chiara coscienza in quella prima coscienza indistinta e incognita». «In tanto ci si svela cotesta coscienza, in quanto ci si vela e si cela in un sistema di quasi transeunti coscienze, delle quali ciascuna è sistema essa medesima». L’Essere può venir conosciuto per via analogica – per via, diceva D’Annunzio, di segrete analogie –, attraverso una scolastica analogia entis rivisitata alla luce della gnoseologia tardo-positivistica già oltrepassata, però, in direzione di una «verità come non-nascondimento», ontologicamente fondata e fondante (ma si ricordi che forme di conoscenza e di coscienza analogiche, intuitive, immerse e diluite nel fluire della durata reale e del tempo interiore, erano appena state illuminate da Bergson: mentre, nelle pagine di Acri, quella coscienza, anzi quel pullulare di coscienze come sfere luminose avvolte da cortine nebulose di tenebre e caligini, e annullantisi vicendevolmente in una catena di dissoluzioni e avvicendamenti, di superamenti reciproci e di eclissi, non può non far pensare ai celebri, vacillanti «lanternini» del pensiero umano nel Fu Mattia Pascal di Pirandello, o al «tenue bagliore», esangue e fragile, eppure ostinato, del montaliano Piccolo Testamento, o, sempre in Montale, che di Acri era rispettoso lettore, al «nerofumo della spera», che più «non serba ombra di voli» alle «molli meduse della sera», degli Orecchini).
C’è qui già, in nuce, l’idea (che sarà propria, in vari modi, dell’esistenzialismo, della fenomenologia, dell’ermeneutica) di una verità celata, essenziale, sostanziale – sub-stantialis, e proprio per questo soggiacente, radicata, sepolta –, di una «verità che giace al fondo», dirà un poeta, che «ama nascondersi», e che sta alla coscienza, con le sue visioni, le sue autorappresentazioni, le sue concettualizzazioni, i suoi phantasmata, le sue species, i suoi eide, di cogliere, cristallizzare ed esprimere, operandone il «disvelamento», il «non-nascondimento» – ma si ricordi già, nel Sartor Resartus (1831-34) di Thomas Carlyle, homme de lettres che godette di una certa fortuna fra tardo Ottocento e primo Novecento, l’idea del simbolo come pàtina o velame che svela e insieme nasconde, che accenna, evoca, addita senza dire e mostrare appieno, come finitizzazione (pur se fitta di spiragli, crepe, pertugi luminosi) dell’infinito – o, prima ancora, la medievale «allegoria dei poeti» come (ancora Dante) «veritade ascosa sotto bella menzogna». Pura armonia verbale, testualità autotelica, fine a se stessa, aristocraticamente vana e volubile, «vaga e solubile nell’aria», diceva Verlaine – musica incondizionata, librata, in sé compiuta.
Tale in definitiva, per Acri, il pensiero di Platone, simile, proprio in ciò, ai dogmi della Chiesa, che gli apparivano, essi stessi, musica, armonia, bellezza, «festa dell’intelletto» avrebbe detto Paul Valéry, e come tali potevano venire còlti ed accolti attraverso un’appercezione intuitiva nella quale si fondevano sensibilità e intelletto.
Francesco Acri, scriverà Renato Serra in una delle sue pagine più suggestive e più sentite, pervasa dal ricordo del Simposio platonico con la sua astrazione dalla bellezza terrena a quella assoluta, «cercava la bellezza nel suo principio più mero, nella musica e nei suoni e nelle parole; […] la bellezza più pura e aerea e lontana e difficile, quella che non ha nessun corpo nessun peso nessun criterio, ma deve esser colta in sé e nello spiro lieve del fiato»4 (e Serra, qui, in questo eremitico ritratto che fa pensare a ciò che Fogazzaro, nei Discorsi del 1898, scriveva del sublime romitaggio di Rosmini, del «silenzio mistico» di solitudine e pensiero in cui egli si rinchiuse, sembra velatamente alludere, con un sottile intreccio di ammiccamenti intertestuali – con un nodo prezioso, avrebbe detto Giorgio Pasquali, di «allusioni necessarie» –, alla matrice culturale classico-cristiana dell’ideale di armonia che animava Acri, fra i virgiliani e lucreziani «suaves spiritus» e «spirantes aurae» della bellezza e della vitalità animatrici del creato e l’ineffabile Verbo divino evocato dal Salmista: «Verbo Domini caeli firmati sunt, / et Spiritu oris eius omnis virtus eorum» – senza dimenticare l’ideale ed antimaterialistica “inspiration qui regagne le ciel” dei poeti simbolisti).
Il flatus vocis, i nuda nomina destituiti di realtà dei nominalisti antichi e moderni, nemici dell’astrazione e degli universali, divengono qui, in sé e per sé – nella loro autonomia suprema di sostanza stilitistica e di materia di un essenziale, non esteriore, ornatus retorico –, oggetto, e insieme strumento, fondamentali e consustanziali del discorso filosofico.
Tradurre Platone viene visto e vissuto, nel discorso culturale di Acri, in questo stesso spirito. Gli intenti programmatici e la poetica della traduzione sottesi a tutta l’operazione sono illustrati dall’autore nell’introduzione all’edizione Morano (Napoli 1889) dei Dialoghi5. La scolastica analogia entis – a cui già si è accennato (e di cui vari studiosi moderni, dei più diversi orientamenti, dal Maritain di Art et scolastique al Melandri di La linea e il circolo, per non dare che due esempi, hanno sottolineato la sorprendente modernità) – è lo strumento di cui si avvale non solo l’intelletto per accostarsi al reale e all’essere, ma anche il traduttore stesso per tentare di afferrare e di rendere il mistero celato del testo, e reso ancor più spesso e più fitto dalla lontananza storica e culturale, dall’inevitabile tramonto (schilleriano o leopardiano) della naturalezza e dell’armonia del mondo greco.
Vi è, al fondo della «somiglianza», dell’affinità o della connaturalità, fra l’originale e la traduzione, una «medesimezza di relazione», un terreno comune, uno spazio ontologico di rapporto e di dialogo, un sostrato comune che però, a sua volta, non può essere pienamente illuminato, facie ad faciem, ma pittosto suggerito, per lampi, bagliori, pertugi, sottili analogie e relazioni, attraverso i segni del testo. La testualità, lo stile, la bellezza pura e sola, in sé e per sé, autè kath’autén, sono rivelazione e specchio, per quanto opachi e cangianti, dell’essere, del noùmeno, della matrice originaria – il testo platonico, nella sua perfezione virginea, irripetibile, aurorale, è una sorta di archetipo di cui la resa, per quanto compartecipe, simpatetica, animata da una sorta di alchemica affinità elettiva fra traduttore e testo tradotto, non può dare che un riflesso, tenue, per quanto limpido.
Nel discorso Contro ai veristi filosofi, politici e poeti, premesso alla versione del Convivio edita, sempre per i tipi di Morano, nel 1885, l’armonia delle parole di Platone è accostata a quella di Dante; nel Timeo, come nel Paradiso, la silenziosa armonia delle sfere celesti, impercettibile all’udito corporeo, si trasfonde e si traduce nella melodia segreta delle sillabe cantate e ricantate nel silenzio della coscienza interpretante: una musica senza suoni, insomma, o levata al di là del suono, vòlta a trascendere ogni musica terrena; una musica mundana, dettata e intonata dalle cifre sottili e dalle leggi arcane del cosmo, come quella di Agostino e di Boezio. La bellezza della parola, del suono, dell’immagine – e qui Acri sembra vicino più a Plotino che a Platone, e in pari tempo non lontano dalle posizioni di un Angelo Conti, esteta dannunziano – vince l’oscurità e il peso della materia, trascende la materia bruta per farsi immagine dell’invisibile, spia dell’oltre, simbolo terreno della trascendenza, specchio della «sensualità rapita fuor de’ sensi»6.
Più che esser vuoti e nudi simulacri, schemi esangui e incorporei, i nuda nomina che vivono solo «nello spiro lieve del fiato» divengono, per Acri, il supremo inveramento del reale, il vertice della sublimazione estetica e speculativa – l’ens realissimum della metafisica o, come diceva Novalis della poesia, il «reale assoluto». «La distinzione e il legame delle idee rappresentati vivamente sono moto spaziale». «Il mistero è nel finito fatto immagine, apparizione, specchiamento dell’infinito; e la grazia è la circolazione dall’amore primo agli amori secondi»7. Vi è, in noi, «una musica di moti… la quale suscita svariate danze di immagini». La mente, insoddisfatta della finitudine, come una sorta di hegeliana «coscienza infelice» illuminata però dalla grazia, «s’induce a infinitare il reale, giovandosi in quest’opera d’infinitazione, come di guida e lume, dello stesso essere reale»8.
La silenziosa musica dell’indicibile, l’«incognito indistinto» della forma in cui l’infinito si finitizza restando infinito, e dunque sottraendosi, nella sua totalità, all’abbraccio dello sguardo, trovavano in Dante, agli occhi di Acri, una perfetta consonanza. «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista, dritto a quella parte / dove l’un moto e l’altro si percuote» (Paradiso, X, 7-9). «La divina bontà, che da sé sperne / ogne livore, ardendo in sé, sfavilla / sì che dispiega le bellezze eterne» (Paradiso, VII, vv. 65-67). Questi i versi citati nelle pagine di Videmus in aenigmate appena menzionate, per illustrare la concezione dell’armonia. In modo non dissimile, nella mente di Vito Fornari, le immagini nascevano dalle visioni, e le armonie dalle immagini, in un progressivo cammino di purificazione e di rarefazione9.
Dante e Platone s’identificano come cantori della sublime «luce intellettüal piena d’amore». Già dal Trendelenburg, del resto, Acri sapeva che «come l’occhio viene armoniosamente eccitato dai contrasti dei colori, sicché per mezzo di esso diventa cosciente di tutta la sua vivente energia: così anche lo spirito si riesce a soddisfare solo in quanto nell’equilibrio del concetto e dell’intuizione produce la piena espressione di tutta la sua essenza»10. In una pagina emblematica del citato ragionamento Se si possa volgarizzare uno scrittore, Acri identifica l’autonomia della parola letteraria e filosofica còlta nei suoi specifici valori formali precisamente con il moto delle idee e delle immagini: nei dialoghi di Platone, che talora paiono non giungere a una conclusione univoca, «la danza fatta è per la danza, la battaglia per la battaglia»; a Platone «non di rado è fine nelle disputazioni sue la bellezza, e questa è nel medesimo moto vivo di quelle».
La bellezza, che è fine del filosofare, risiede nel movimento intellettuale e stilistico della disputatio. Nell’autonomia, nell’autoreferenzialità, nel carattere nobilmente inutile e sterile, s’incontrano il discorso della letteratura e quello del pensiero, che hanno, l’una come l’altro, in se stessi il proprio puro fine. La traduzione è, per Acri, discesa, sulle orme del testo da tradurre, verso le profondità prime e pure dell’essere.
In Fedone 65e, tò alethéstaton theorêitai diviene «si discerne ciò che ha di puro vero nelle cose» (dove il verbo, di sapore dantesco, accentua il lavoro della distinzione razionale e concettuale, mentre il superlativo è tradotto con un’espressione che enfatizza la purezza e l’assolutezza dell’essere che ne è oggetto); ma questo sforzo e questa tensione conoscitivi ed intellettuali non potrebbero essere portati a compimento se non da chi «quanto può si profondasse in ciascun ente con la ragione medesima» (dove il greco ìoi, che varrebbe semplicemente «si muova, vada», è reso con «profondarsi», verbo dantesco della beata visio, della visione pura e suprema del Divino).
Il campo semantico della luce e dell’ombra esercita, sull’Acri traduttore del Fedone, una suggestione particolare. In 69c, dove si dice che la virtù disgiunta dall’intelletto è solo un inganno, una skiagraphía, un dipinto pieno di chiaroscuri e di figure indecifrabili, Acri rende quel termine con una perifrasi: «ombra vana di virtù» (che evoca, ancora una volta, Dante, stavolta non quello radioso del Paradiso, ma quello delle ombre d’Averno); e il verbo ainíttesthai, che Platone utilizza per indicare il processo allegorico e simbolico con cui le cerimonie misteriche ed iniziatiche evocavano verità profonde e aneliti di purificazione e di immortalità, è reso con «significare in ombra»; e, nel seguito del periodo, la prosa puristica, di ascendenza neoclassica, di Acri – per il quale il purismo e il trecentismo, teorizzati nell’ambiente bolognese da Francesco Zambrini, tendevano ad acquisire un valore trascendentale, eterno, a rispecchiare la purezza e l’assolutezza del pensiero in quelle, analoghe, di uno stile giudicato inimitabile e insuperabile – rende mirabilmente l’antitesi dualistica (sottolineata, nel testo greco, dalle clausole ritmiche e dall’assonanza: en borbóro kéisetai… metà theòn oikései) fra il destino dei beati e quello dei destinati al fango della mancata iniziazione ed illuminazione: «Colui, il quale non mondo e non iniziato arriva in inferno, starassi nel loto; colui, al contrario, che è purificato e iniziato, là pervenendo, abiterà con gl’Iddii».
Di un amico filosofo scomparso, nelle squisite, toscaneggianti Prose edite nel 1894 a Bologna, presso Mareggiani, Acri dice che «ora apprende dalla Verità medesima parlante, non per ombre, al glorificato intelletto». La filosofia diviene davvero, come sarà anche per Valgimigli, medicina animi e insieme meditatio mortis, meditazione sulla morte e nel contempo strumento per alleviare, sublimandoli o colmandoli di significato, i dolori dell’esistenza. Proprio in quanto esercizio retorico, proprio in quanto letteratura, la filosofia può rendere più tollerabile l’esistente con le sue asperità, le sue iniquità, i suoi paradossi e le sue sparizioni.
Nella resa dell’Assioco, oggi ritenuto spurio, la tensione intellettuale, vòlta di per sé a trascendere i vincoli della materia, si fa slancio mistico. Nell’oltretomba, «una cotale vita è, serena, senza mali. […] Godendo ivi d’una quiete senza mutamento, contemplerai la universale natura». E Assioco: «Dico a te che io mi sono incelato, e trascorro già le divine eternali vie, e sono rifatto della infermità mia, e sono rinnovellato» (cap. XII). La resa si colora, anche qui, di tratti danteschi: «mi sono incerato» (cfr. Par., III, 97) rende meteorologô, «rinnovellato» (si ricordino le dantesche, purgatoriali «piante novelle / rinnovellate di novella fronda», simbolo vegetale del rinnovamento dello spirito) ghégona kainós. «Illic perages vitam … serena placidam quiete, philosophiae ad puram germanamque deditus veritatem», traduceva Marsilio Ficino. Il flusso, il corso del testo si snodano nel tempo, immagine mobile dell’eternità secondo la celebre definizione del Timeo.
Pure a questo riguardo, Acri poteva aver presente il magistero del Trendelenburg, che in uno spazio e in un tempo immateriali e figurati collocava il vivo moto dialettico del pensiero. Nella resa di Acri del Timeo, l’immagine si colloca sul piano del moto intellettuale e ragionativo, il simulacro su quello della perennità, la forma su quello della trascendenza e dell’assolutezza proprie delle entità aritmetiche. In Timeo 37b sgg., il Lógos alethés, il «discorso veritiero» o l’essenziale ordine razionale che domina il cosmo diviene «logo», nel senso (come Acri chiarisce in nota) del «verbo interiore dell’anima», secondo l’idea tomistica (fatta propria da Vito Fornari in Dell’arte del dire) del verbum come imago mentis, come meditato riflesso interiore dell’esperienza e della conoscenza. Il cosmo, come armoniosa, scandita eppure silenziosa sinfonia della sfere, è gegonós àgalma, «generato simulacro»; quella kinetòs eikòn che è il tempo è anch’essa, per Acri, simulacro, «mobile simulacro»; ma l’eikòn diviene poi non più «simulacro», ma «immagine eterna dell’eternità immanente nell’uno» (ménontos aiônos en ení) quando si trova posta, semanticamente ed ontologicamente, in più stretta relazione e compartecipazione con l’eterno e il perenne. Ma la parola di Acri, pur se improntata a un’ontologia pura e perpetua, a una cristallina stasi di archetipi, riesce a cogliere e a restituire, del testo come della realtà, anche il vivo e mobile fluire. In 45c sgg., il phòs hémeron, la luce mite del giorno, diviene, con tono dantesco e petrarchesco, «dolce lume»; tò tès ópseos rhéuma è «il rivo della vista», che, poche righe dopo, quando si scinde al contatto delle prime ombre della notte, diviene «ruscello», quasi a sottolineare, con il mutamento lessicale, il divenire perpetuo del tempo terreno, della natura fluxa, immanente, contrapposta all’eternità trascendente della purezza ontologica. Al sopraggiungere poi del sonno, la traduzione sembra emulare la sommessa e sussurrante musica dell’originale, dominato dagli aloni della quiete, del silenzio, dell’esuchía – quella stessa che, nell’Assioco, connota e rende beata la vita dopo la morte: «Se è molta quiete, sì viene sonno insieme con lievi sogni» (brachyóneiros hýpnos).
Dal franto, discontinuo e chiaroscurale divenire della percezione immanente l’iniziato ai misteri di amore e di sapienza può scuotersi e sollevarsi attraverso la contemplazione della Bellezza ideale. Il richiamo va, ovviamente, al Simposio. Dove il «volgendosi al grande mare della bellezza» (210d-e), come dice il testo letteralmente, diviene, con amplificazione illuminante, «annegando la vista nello smisurato mare di questa bellezza nova», con un duplice richiamo, da un lato, al «naufragio» leopardiano nel mare dell’infinito (naufragio còlto qui, peraltro, nel suo risvolto mistico, più che in quello, pur presente, sensistico), dall’altro alla «pulchritudo tam antiqua et tam nova» di Agostino (ma già alcuni dei riscontri che precedono hanno mostrato, in Acri, una persistente tensione alla spirituale renovatio).
Infine, giunto «a l’ultimo suo», al limite estremo e supremo della conoscenza teoretica e insieme estetica, l’iniziato, «pervenuto al termine, vedrà subitamente certa maravigliosa bellezza» – dove quel «subitamente» (exáiphnes) restituisce a dovere l’idea dell’epifania, della rivelazione culminante e improvvisa.
Ma, sulle orme di Platone, la parola di Acri si misura anche con la vita transeunte e variegata della natura immanente, la quale risalta, ad esempio, nel celeberrimo passo (vero e proprio idillio ellenistico ante litteram) del Fedro (230b-c) in cui è tratteggiato un delicato e quieto quadretto bucolico, sede ideale per un riposato colloquiare filosofico. Proprio attraverso la mediazione, all’apparenza così artificiale e filologica, dell’atto della traduzione, la parola ritrova la natura, e arriva a dire, a pronunciare la realtà con il suo nome autentico e originario, proprio perché vicino – pur non potendo, in quanto mezzo umano, terreno, opinabile, rifletterlo appieno e puramente – ai modelli ideali e celesti delle cose.
La traduzione, con la sua forza metamorfica, dischiude e movimenta, per così dire, la sinteticità e l’esattezza del greco, facendo fiorire e germogliare dalla parola i colori della natura. Kalè katagoghé si dilata in «un bel luogo per sostare», il platano amphilaphés si fa «molto frondoso e imponente»; il soffio del vento (therinón te kài ligurón), che fa eco al coro delle divine e antiche cicale, spira e mormora, petrarchescamente o leopardianamente, anche nella traduzione, che reduplica, mutandolo di tonalità e di timbro, il sottile fonosimbolismo dell’originale: «Questo venticello d’estate piacevole è assai, e dolce; e risponde con il mormorio suo lieve al coro delle cicale».
Già Schleiermacher, nell’Ermeneutica (convinto, tra l’altro, che per cercare di cogliere il messaggio e l’essenza dell’antico e dei classici fosse necessario immergersi e trasferirsi spiritualmente, al di là dei secoli, nella loro oramai remota epoca, immedesimarsi con il loro sguardo ormai eclissato), aveva suggerito che il senso profondo del discorso platonico si celasse dietro le maschere che lo rivestivano, e che il lettore moderno fosse, forse, capace di coglierlo e di restituirlo «innanzitutto come e poi meglio» dell’autore stesso. Ma la via scelta ad Acri non è tanto quella del dubbio, del sospetto, della disgregazione critica o della contestualizzazione storica, quanto, piuttosto, quella di un’immedesimazione mistica, di una metatemporale sintonia che vada oltre la storia, il tempo, la contingenza, che travalichi la storicità, e dunque la relatività, dell’«interpretazione come evento» senza però reprimere, e anzi accentuando, elevandola al grado dell’assolutezza, della trascendenza, della sovrarazionale verità, l’individualità dell’interprete. Schleiermacher si concilia con Trendelenburg (e forse con lo stesso Platone, quello del Cratilo): vi è un «libero gioco dei pensieri» («ein freies Spiel der Gedanken»), che accomuna la creazione e il pensiero all’interpretazione; vi sono sequenze, movimenti, flussi di pensiero, Gedankenreihen e Gedankenbewegungen, che è dato cogliere solo per via intuitiva, per lampi, affinità, analogie, essendo impossibile ripercorrere tutto il complesso cammino che il pensiero dell’autore ha compiuto per giungervi. Eppure, partendo da quell’intuizione e mettendola in relazione con altre idee, altri contesti, altre parole e altre ansie, è possibile comprendere l’autore più e meglio, addirittura, di quanto egli non abbia compreso se stesso (Ermeneutica 150-153).
Immagine mobile dell’eternità, si è detto. Tale, per l’appunto, era in definitiva per Acri l’essenza dell’essere, del linguaggio e, insieme, del tradurre, tutti e tre còlti nella loro perennità, nella loro compiutezza, nella loro metafisica necessità, ma, in pari tempo, nella loro manifestazione esperienziale e comunicativa. E il linguaggio era, già per lui, come insegneranno taluni protagonisti del Novecento, «casa dell’essere», e la traduzione redenzione del linguaggio, sua vertiginosa, e sempre incompiuta, risalita alle più pure sorgenti. Dirà un poeta, anch’egli non lontano dal platonismo cristiano, e immerso nel mare del bello così come nell’immagine mobile dell’eternità:

È, l’essere. È.
Intero,
inconsumato,
pari a sé.
Come è
diviene.
Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
diviene
se stesso
altro da sé.

Note

  1. L. BRUNI, Opere letterarie e politiche, a cura di P. VITI, UTET, Torino 1996, p. 168.
  2. R. MONDOLFO, Francesco Acri e il suo pensiero, Zanichelli, Bologna 1914 (poi in ID., Da Ardigò a Gramsci, Nuova Accademia, Milano 1962; mi riferisco alle pagine 104-105 di questa edizione). Si possono vedere, nella non vastissima bibliografia sulla figura di Acri, A. CARLINI, La filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino 1954, pp. 41-50; V. CILENTO, Francesco Acri, «Vichiana», I, 1964, pp. 59-72; F. CRISPINI, Francesco Acri e la tradizione ontologica, «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», LXXX, 1969, pp. 331-374; G. GENTILE, Storia della filosofia italiana, a cura di E. GARIN, vol. II, Sansoni, Firenze 1969; S. BLASUCCI, Francesco Acri, la fortuna e l’opera, Laterza, Roma-Bari 1992; F. FARNÉ, Il problema esistenziale nel pensiero di Francesco Acri, Japadre, L’Aquila 1984; E. GARIN, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Laterza, Bari 1955, pp. 87-88; L. MALUSA, La polemica Acri-Fiorentino, in ID., La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell’Ottocento, Marzorati, Milano 1970, pp. 191-197; per uno sguardo d’insieme, la voce nel Dizionario biografico degli italiani.
  3. G. GENTILE, Storia della filosofia italiana, cit., p. 206.
  4. R. SERRA, Scritti, vol. II, a cura di A. Grilli e G. De Robertis, Le Monnier, Firenze 1938, p. 438.
  5. Che si possono ora leggere, con una importante introduzione di Pietro Treves, nell’edizione einaudiana del 1970.
  6. Cfr., su questi temi, G. ZANETTI, Estetismo e modernità, Il Mulino, Bologna 1996.
  7. F. ACRI, Dialettica serena, Cappelli, Bologna 1917, pp. 75 e 108.
  8. ID., Videmus in aenigmate, ivi 1907, pp. 323 e 399.
  9. ID. Amore dolore fede, ivi 1917.
  10. Logische Untersuchungen, terza edizione 1867, cap. XXIV.

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