Bibliomanie

Alcune schede critiche
di , numero 45, gennaio/giugno 2018, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Alberto Castaldini, Alcune schede critiche, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 10, gennaio/giugno 2018

1. Antropologia Giorgio Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 242, 16 euro.

Il paleoantropologo Giorgio Manzi traccia nel volume un bilancio delle ultime scoperte scientifiche e delinea un rapido ma esaustivo quadro delle più recenti costruzioni teoriche circa il percorso evolutivo dell’uomo. L’Africa rimane la culla dell’evoluzione, un lunghissimo processo che separandosi dalla linea evolutiva dei primati antropomorfi ha condotto alla nostra specie, ma negli ultimi anni, grazie anche all’indagine paleogenetica, la ricerca si è affacciata su nuovi inattesi scenari che hanno tracciato un quadro molto più complesso di quello da tempo descritto e condiviso dalla maggioranza della comunità scientifica. Ci riferiamo ad esempio all’affermazione della specie Homo sapiens in Asia e in Europa, un tempo ritenuta aver soppiantato i Sapiens arcaici e l’Uomo di Neanderthal, mentre le recenti analisi molecolari hanno evidenziato un’avvenuta ibridazione nel Vicino Oriente e nell’area eurasiatica. Questa complessità di forme umane, confermata anche da nuove scoperte fossili in Caucaso e in Africa settentrionale, non fa che confermare la straordinarietà della condizione umana, sia nella sua specificità sia nel suo inserimento in natura a partire dal Pliocene. Manzi si mostra costantemente attento al tema della biodiversità umana, perché è proprio nello scenario naturale che, ancora oggi, si colloca il posto di Homo sapiens. Il complesso panorama che Manzi delinea con lo stile dell’alta divulgazione ci induce però a ulteriori riflessioni, e cioè a quel tratto di straordinarietà che l’uomo presenta e progressivamente rivela in modo esclusivo lungo il cammino evolutivo. L’incompatibilità tra scienza e fede, sovente evocata da ambienti contrapposti nelle loro asserzioni, sembrerebbe non giustificarsi proprio di fronte alla complessità dell’evoluzione, ancheperché, come osservò vent’anni fa Giovanni Paolo II parlando alla Pontificia Accademia delle Scienze, la scelta tra la proposizione di fede e la teoria scientifica non va paventata “non potendo in alcun modo la verità contraddire la verità” (Leone XIII, Enciclica Providentissimus Deus, Conclusione).

Arnold Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici, a cura di Vallori Rasini, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 326, 25 euro.

Arnold Gehlen (1904-1976) fu, nel periodo tra le due guerre, assieme a Max Scheler ed Helmuth Plessner, uno dei protagonisti dell’antropologia filosofica tedesca e non solo. Di Gehlen viene riproposto in edizione italiana Urmensch und Spätkultur, uno dei suoi volumi più importanti, scritto nel 1956. Se alcune delle tesi proposte dal pensatore appaiono sorpassate, resiste la singolarità di molte sue intuizioni. Gehlen fu una figura decisamente controversa rispetto a Scheler e Plessner, entrambi con origini ebraiche. Egli infatti aderì inzialmente al Partito Nazionalsocialista per poi distaccarsene. Gehlen se appartenne alla corrente tedesca di pensiero neo-conservatore non aderì però alle tesi razziste. Il volume esamina una una prospettiva di lunga durata le forme socioculturali umane con l’intento di elaborare criteri intrepretativi allo scopo di spiegare la funzione delle istituzioni comunitarie nel corso della storia. Attraverso l’osservazione empirica, la puntuale contestualizzazione storico-archeologica e l’approccio interdisciplinare, Gehlen si proponedi ricostruire uno scenario complesso nel quale, partendo dalle forme arcaiche di convivenza tra gli esseri umani, applica le proprie categorie antropologiche, anzitutto quelle di “azione” ed “esonero” in relazione alla dimensione etologica e culturale. Gehlen riteneva infatti che l’uomo non si fosse evoluto da altre specie animali ma avesse da sempre costituito una specie unica e a se stante. Le sue stesse caratteristiche fisiche, l’assenza di precisi tratti istintuali, la neotenia spinsero l’uomo a significare i suoi bisogni fondamentali favorendo la nascita e l’evoluzione delle istituzioni sociali.

Michael Tomasello, Unicamente umano. Storia naturale del pensiero, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 231, 16 euro.

L’Autore è condirettore del Max Planck Institute per l’Antropologia evolutiva di Lipsia, centro internazionale di studi all’avanguardia in questo campo di ricerca. Tomasello nella sua attività di ricerca si occupa particolarmente dei fondamenti etologici del comportamento umano in una prospettiva evolutiva. Nel volume vengono poste una serie di domande, allo scopo di fornire agli studiosi di scienze umane una serie di categorie interpretative del fenomeno Uomo. Che cosa ci rende unici, differenziandoci dagli altri animali? La domanda è antica e certamente alcuni tratti distintivi costituiscono un discrimine indubbio: il linguaggio, la capacità di fabbricare utensili, le credenze religiose. L’Autore propone, o meglio: approfondisce, una soluzione alternativa, dimostrando che alla base dell’unicitàumana stanno due aspetti fondamentali: la cooperazione e l’intenzionalità che animano quei processi di “coordinamento sociale” che hanno permesso la genesi del linguaggio e la costruzione della cultura. Il pensiero – ricorda Tomasello – potrebbe sembrarci una attività solitaria, ma in realtà è essenzialmente cooperativa. Una caratteristica che si è sviluppata nella soluzione dei problemi di sopravvivenza che imponeva la quotidianità dei nostri antenati. Inizialmente i progenitori erano fra loro in competizione nel perseguire obiettivi individuali (pp. 19-49). Questa prospettiva mutò grazie ai cambiamenti ambientali: la nascente socialità impose così scopi di vita comuni e affinò le forme di comunicazione verbale tra i membri del gruppo. In sostanza fu il bisogno di cooperazione a rendere possibile, oltre l’iniziale competizione isolante, il linguaggio, il pensiero, la cultura (pp. 111-191). L’umanità perciò non può, per sua stessa natura, esulare dai fondamenti essenzialmente ‘altruistici’ alla base della sua ontogenesi fin dai primi anni di vita di Homo sapiens sapiens (pp. 191-196).

2. Filosofia

Sergio Givone, Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito, Firenze, Leo S. Olschki, 2016, pp. 155, 15 euro.

Il volume raccoglie cinque dialoghi che potremmo definire ‘filosofici’, anche se non esclusivamente tali. Sergio Givone, professore emerito di Estetica all’Università di Firenze, allievo del filosofo torinese Luigi Pareyson, colloca queste conversazioni all’interno di episodiestemporanei dell’esistenza di pensatori e scrittori. Si tratta di incontri realmente avvenuti o solamente ipotizzati dall’autore ma non meno veridici, realistici, e perciò rivelatori. Protagonisti, dall’età antica al Novecento, sono: Lucrezio, san Girolamo, Cecco d’Ascoli, Francesco da Barberino, Kierkegaard, Fëodor Dostoevskij, Ivan Turgenev, Paul Celan, Martin Heidegger. Essi, nonostante le loro incompatibilità, le loro rotture, “restano caparbiamente sul luogo dello scontro e del combattimento spirituale: in nome della fedeltà a se stessi”. Il dialogo interrotto viene così ripreso, “per il bisogno di conquistare uno spazio ulteriore di conoscenza e forse anche un silenzio che gli è negato” (p. V). Calata in una cornice tragica, come nel caso dell’incontro Heidegger-Celan, ambientato non a caso in un Lager restaurato e aperto alle visite turistiche, l’inconciliabilità di visioni ed esperienze non riesce in ogni caso ad oscurare una luce di verità la cui trascendenza infine si impone. La stessa verità, custodita dalla poesia, la cui derivazione dalla parola è possibile “solo attingendo all’umiltà del cuore” (p. 131), in ciascuno dei protagonisti di questi “incontri” rivela anzitutto una “nostalgia d’assoluto” e, forse, il desiderio di una riconciliazione postuma.

Claudio Ciancio, Maurizio Pagano, Ezio Gamba, Filosofia ed escatologia, Milano-Udine, Mimesis, 2017, pp. 765, 26 euro.

Il volume, affidato a una vasta schiera di filosofi, storici del pensiero, teologi, giudaisti, storici del cristianesimo e delle religioni, offre un bilancio di rara ampiezza e articolata analisi sulla tematica teologica e storico-religiosa delle “cose ultime”. L’incessante domanda dell’uomo su tali realtà (ta eschatà), sebbene abbia la sua sorgente nell’esperienza dell’homo religiosus, presenta un’incidenza significativa e una grande importanza anche per la filosofia, giacché coinvolge la capacità di interrogarsi sul senso ultimo del mondo come dell’esperienza degli uomini in relazione alla morte. La riflessione escatologica caratterizza la fede biblica, nella concezione religiosa sia ebraica sia cristiana, dove risulta attraversata da una profonda connotazione storica. Essa è presente anche in svariati culti e filosofie del mondo antico, dove però l’interesse per la storia appare più contenuto. L’escatologia segna anche la filosofia occidentale successiva all’Età antica, e nella patristica come nella scolastica la sua riflessione risulta certamente sviluppata dagli autori cristiani. In Età moderna e contemporanea accanto a questa prospettiva emerge un’escatologia in forma secolarizzata, fino a inquadrarsi in scenari estranei a ogni concezione trascendente. Il volume offre dunque uno spettro pressoché esaustivo sulla riflessione escatologica nel mondo biblico e in quello classico, con una ricostruzione delle indagini filosofiche condotte sulle “realtà ultime” dalla tarda antichità al pensiero contemporaneo. Tra gli autori dei saggi ricordiamo i nomi di Remo Bodei, Massimo Borghesi, Claudio Ciancio, Paolo De Benedetti, Adriano Fabris, Giovanni Filoramo, Virgilio Melchiorre, Pier Paolo Portinaro, Giuseppe Riconda, Sergio Rostagno, Paolo Sacchi, Francesco Tomatis.

Paola Zambelli, Alexandre Koyré in incognito, Firenze, Leo S. Olschki, 2016, pp. 288, 32 euro [Biblioteca di Galilaeana, V].

Aleggia ancora il mistero intorno alla singolare figura di Alexandre Koyré, al secolo Aleksandr Vladimirović Kojre (1892-1964). Chi lo descrive come un filosofo, chi lo considera uno studioso di Galileo, Cartesio, Newton, chi lo definisce un seguace della fenomenologia di Husserl. A tutto ciò si aggiunge anche un suo lato “incognito”, decisamente più avvincente: quello di terrorista e di spia. Senza dubbio egli incarnò, attraverso tutti questi “ruoli”, l’ambiguità e l’essenza tragica del Novecento. La sua personalità complessa e sfaccettata ci viene restituita da questa biografia intellettuale. Nato in una facoltosa famiglia di commercianti, Koyré fece i suoi studi a Rostov, Tiblisi e Odessa. Negli anni della giovinezza aderì alle idee trotzkiste, tanto che la polizia zarista lo sospettò di terrorismo. Nel 1908 Koyré passò in Germania dove frequentò le lezioni di Husserl per poi trasferirsi quattro anni dopo a Parigi, dove morirà nel 1964. Nel 1914 si arruolò volontario nell’armata francese e combatté in Russia, dove nel 1919 finì nelle file bolsceviche come addetto stampa. Accusato di spionaggio fu recluso in una fortezza di Istanbul. Tornato in Francia, si addottorò con una tesi su sant’Anselmo e negli anni Trenta si dedicò alla ricerca e all’insegnamento. Nel frattempo viaggiò intensamente in Europa, in Medio Oriente, in India (favorendo l’espatrio di molti intellettuali ebrei dalla Germania nazista) e soggiornò più volte in America confermando in questo suo peregrinare la definizione che di lui diede HannahArendt: “Un ebreo russo, sbattuto in Francia e del tutto francesizzato, eppure ancora interamente ebreo russo”. Scheler, Gilson, Reinach, Lévi-Bruhl, Durkheim, Brunschvicg, Meyerson, Bachelard furono i suoi pensatori di riferimento, ma la sua riflessione spaziò in campi culturali e scientifici disparati, dalla storia della scienza, dove divenne indiscusso maestro (celebri i suoi Studi galileiani), alla mistica. Esilio e resistenza furono le due parole chiave della sua avventurosa esistenza.

Franco Rella, Figure del male, Milano, Meltemi, 2017, pp. 267, 18 euro.

Il filosofo roveretano Franco Rella, già docente di Estetica alla Facoltà del Design e delle Arti dell’Università di Venezia, scandaglia in questo volume i recessi dell’iniquità umana. Il male, per il suo carattere misterioso e imperscrutabile, sembra sfuggire al nostro discernimento, ma Rella individua una serie di figure ed eventi in cui esso si mostra, si svela, diventando visibile, se non comprensibile. Giobbe, Auschwitz, il Faust, la storia: il male vissuto e il “male di vivere” (evocato grazie ai versi di Montale) vengono fatti affiorare da opere letterarie, filosofiche e artistiche (Giovanni Bellini), cercando di dare forma a “domande di senso” emergenti dal rapporto dell’uomo con il mondo, all’interno di una trama fatta di intrecci culturali, come lo stesso Rella spiega. Ma il male non è solo semplicemente malvagità e sofferenza: il fenomeno presenta prospettive articolate, dimensioni modellate su diverse possibilità etiche, su esperienze differenti fino a svelarsi nelle pieghe della scrittura, dell’attività creativa con il suo individualismo. Il libro, negli intenti dell’Autore, si propone così di fornire una visione complessa e problematica della questione, rendendo partecipe il lettore non solo di un pensiero ma soprattutto di un’esperienza fatalmente condivisa, di fronte a un male che si sedimenta da secoli nella nostra coscienza.

3. Letterature

Marco Giardini, Figure del regno nascosto Le leggende del Prete Gianni e delle dieci tribù perdute d’Israele fra Medioevo e prima età moderna, Firenze, Leo S. Olschki, 2016, pp. XX-350, 38 euro [Biblioteca della “Rivista di storia e letteratura religiosa” – Studi, vol. 32].

Fra Basso Medioevo e la prima Età moderna le leggende del Prete Gianni e delle dieci tribù perdute d’Israele sono giunte a intrecciarsi reciprocamente in modo intricato quanto avvincente, alimentando l’immaginazione e le aspettative escatologiche di ebrei e cristiani. Il volume di Giardini intende ripercorrere non solo le principali narrazioni, le loro varianti, descritte dai testi ma anche gli eventi storici che hanno veicolato le due leggende, nonché a evidenziare le sorprendenti affinità che esse contengono. In entrambe le leggende si ravvisano infatti tratti meravigliosi eparadisiaci nella descrizione dei luoghi in cui i sudditi del Prete Gianni e le dieci tribù perdute avrebbero soggiornato, colte ed esaminate dalla puntuale ricerca grazie a una serie di testimonianze e riferimenti di carattere escatologico (come Gioacchino da Fiore, Avraham Abulafia) e cabbalistico-messianico (come Avraham Eliezer ha-Levi, David Reuveni). Secondo l’Autore del saggio sembra quindi delinearsi alla base delle descrizioni del “Regno Nascosto” un “prototipo” comune tanto che un’analisi comparativa e una osservazione incrociata delle narrazioni potrebbe gettare nuova luce sulle relazioni giudaico-cristiane fra i secoli XII e XVI, rivelando inattese affinità dottrinali e simboliche.

4. Scienze religiose

Moshe Idel, Il male primordiale nella Qabbalah. Totalità, perfezionamento, perfettibilità, Milano, Adelphi, 2016, pp. 411, 32 euro

Idel, giudaista israeliano di origine romena, è uno dei maggiori studiosi internazionali di mistica ebraica. Al centro del corposo volume, dal punto di vista ebraico, la dibattuta questione teologica e filosofica della teodicea, rimasta aperta sin da Bereshit, dal libro biblico di Genesi. L’origine del male è ad esempio qualcosa di estraneo o di interno alla creazione? Il male è una “presenza” che Dio ha previsto sin dall’inizio o è un “principio” che preesiste, che è in lui contemplato o addirittura compreso? Forse si tratta del lato oscuro di Dio evocato dalla Qabbalah? Il Sitra achra, “l’altra parte”, che si oppone al principio della santità? Sullo sfondo di queste considerazioni fin dall’età antica si staglia sull’orizzonte teoretico il rischio della visione dualistica, inaccettabile nelle fedi monoteistiche. Idel studia gli antichi testi della mistica ebraica, in cui però appare evidente l’influsso della Gnosi, e dove Satana è descritto come il primogenito di Dio. Una variante è quella che vede nel primogenito del primo uomo, Adamo, di nome Agrimas, una malvagia potenza primordiale che da una demonessa ebbe novecentomila figli. Questo esercito malefico dopo aver invaso la terra l’avrebbe dominata se non fosse intervenuto Matusalemme che con una spada magica lo sconfisse. Idel analizza testi ignoti, poco conosciuti o male interpretati dalla critica, e ricostruisce sulla base della sua pluridecennale esperienza esegetica i processi che portarono all’ingresso nel giudaismo di concezioni dualistiche iraniche o gnostiche, in una ricorrente visione nella quale bene e male appaiono entità subordinate al loro creatore.

Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei VI. Da Giosuè a Ester, a cura di E. Loewenthal, Milano, Adelphi, 2016, pp. 554, 38 euro.

Il volume conclude una grande opera in più volumi che Adelphi ha proposto in edizione italiana a partire dal 1995. L’autore (1873-1953) fu rabbino, talmudista, filosofo di origine lituana, in seguito naturalizzato americano. Ginzberg era discendente del Gaon di Vilna, uno dei principali saggi del mondo ashkenazita, celebre per la sua erudizione rabbinica, e fu docente per molti anni al Jewish Theological Seminary di New York. Agli inizi del Novecento lavorò a questa sintesi dell’enorme patrimonio narrativo tradizionale ebraico, a partire dalla caduta di Adamo, ricavato dalla Mishnah, dai due Talmud (babilonese e gerosolimitano) e dal Misdrash, contemplando anche le fonti apocrife e la letteratura cristiana antica. Quella di Ginzberg non è una semplice antologia ma una elegante parafrasi dei testi, arricchita di un imponente apparato di fonti. Il volume che completa l’antologia comprende i racconti haggadici che vanno dall’ingresso del popolo ebraico nella Terra Promessa sotto la guida di Giosuè per arrivare all’esilio babilonese e all’avvincente vicenda della regina Ester. I fatti si susseguono con una direzione spesso contraddittoria, ricca di colpi di scena, ma è Dio che alla fine risolve ogni aporia della storia e rimedia agli errori degli uomini, alle debolezze del suo popolo, impedendo la malvagità dei nemici perché l’Alleanza non viene mai meno.

Maria Caterina Camici, Franco Cardini, Attilio Mordini, il maestro dei segni, Rimini, Il Cerchio, 2016, pp. 135, 14 euro.

Attilio Mordini (1923-1966) scrittore religioso, terziario francescano, germanista, pensatore originale, fu uno dei protagonisti dell’ambiente cattolico fiorentino del secondo Dopoguerra, assieme a figure come Ernesto Balducci, Divo Barsotti, Giorgio La Pira, Adolfo Oxilia, Piero Bargellini e Giovanni Papini, che nell’ultimo scorcio della sua vita fondò la rivista “L’Ultima”, della quale Mordini fu redattore. In occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 4 ottobre del 1966, festa dell’amatissimo Francesco d’Assisi, Maria Camici e Franco Cardini, suoi amici e discepoli, hanno scritto il partecipato ritratto di quest’uomo di fede autentica che nella sua breve esistenza sacrificò ogni forza fisica per l’insegnamento (fu lettore di lingua italiana in Germania) e la militanza intellettuale intesa quale vocazione dello spirito nella sequela di Cristo. Non ebbe vita facile Mordini, carattere tutto toscano, singolare combinazione di mistica ascesi e radicata idealità. L’esperienza della guerra che lo minò gravemente nella salute, la fedeltà ai valori della tradizione cristiana, la scrittura e lo studio instancabili (si occupò di teologia della storia, mito e letteratura, germanistica, esegesi biblica) non lo allontanarono mai dalla piena consapevolezza di quella condizione umana nella quale egli vedeva costantemente riflesso il mistero dell’Incarnazione, come dimostra la voce “Il lavoro in luce cristiana” che lui redasse per la Moderna Enciclopedia del Cristianesimo (1963). La maggior parte della sua opera è stata pubblicata postuma, e in parte recentemente riedita per l’esemplare cura di Maria Camici.

Mino Gabriele, La Porta Magica di Roma simbolo dell’alchimia occidentale, Firenze, Leo S. Olschki, 2015, pp. 220, 24 euro [Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», Serie I: Storia, Letteratura, Paleografia, vol. 444].

L’Autore è docente di Iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini presso l’Università di Udine. In passato ha curato l’Hypnerotomachia Poliphili (1998), il Corpus iconographicum di Giordano Bruno (2001), l’Iconologia di Cesare Ripa (2010) e il Libro degli emblemi di Andrea Alciato (2012). In questo saggio, corredato da numerose tavole, Mino Gabriele analizza l’unica testimonianza plastica e architettonica nell’intera storia dell’alchimia occidentale. La Porta Magica fu fatta erigere a Roma, nel 1680, nella sua villa sul colle Esquilino, dal marchese Massimiliano Palombara, singolare personalità del suo tempo, membro del patriziato romano, gentiluomo della regina Cristina di Svezia, la cui corte ai piedi del Gianicolo era ben nota ad alchimisti e a studiosi del rango del gesuita Athanasius Kircher che alla regina fattasi cattolica, della quale fu consigliere per l’antico Egitto, donò un piccolo obelisco con un’iscrizione in suo onore. La Porta, detta anche Alchemica, conservata in un muro al centro della attuale Piazza Vittorio Emanuele II, tuttora suscita grande interesse e suggestione per il sottile sincretismo, le concezionifilosofiche e alchemiche rappresentate dal suo corredo simbolico. Il monumento fu oggetto di studi sin dall’Ottocento, ma l’approccio analitico del presente volume, non avulso dall’evocare e decifrare gli svariati significati enigmatici, legge in modo inedito e documentato le arcane cifre del celebre manufatto seicentesco con prospettive inattese.

Lorenzo Fabbri, Il papavero da oppio nella cultura e nella religione romana, Firenze, Leo S. Olschki, 2017, pp. 398, 34 euro [Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», Serie I: Storia, Letteratura, Paleografia, vol. 469].

Il volume è un esemplare saggio di storia culturale dell’Età antica che analizza con dovizia di fonti l’impiego del papavero da oppio nel mondo romano. A Roma il papavero da oppio era di comune usoculinario, e veniva impiegato anche per ragioni ornamentali e nella farmacopea come terapia di diverse malattie. L’Autore però non si limita a una rigorosa ricostruzione degli aspetti di storia materiale, ma si inoltra negli svariati significati simbolici di questa pianta, nella letteratura come nell’iconografia antiche, ambiti ai quali sono dedicate due ampie sezioni del volume. Nel campo letterario Virgilio e Ovidio, Livio e Macrobio, Plauto e Apuleo, gli dedicano significative pagine, attestando la pluralità e la ricchezza semantica del suo simbolismo, in quanto metafora poetica o elemento centrale di fatti evocati nell’annalistica. Aspetto centrale della monografia è il ruolo rivestito dal papaver somniferum nella religione e nelle pratiche cultuali, per la sua associazione a numerose divinità (soprattutto Cerere, ma anche Cibele e nei rituali funerari) e per la sua funzione sacrale. Utilizzo cultuale che ci viene testimoniato nella statuaria, nella numismatica dell’età repubblicana e imperiale come in manufatti artistici di straordinaria importanza documentaria quale l’Ara Pacis Augustae.

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