Bibliomanie

Automazione, cibernetica della mente, logonica attenzionale. Un dialogo con Francesco Forleo
di , numero 45, gennaio/giugno 2018, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Automazione, cibernetica della mente, logonica attenzionale. Un dialogo con Francesco Forleo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 8, gennaio/giugno 2018

Dott. Forleo, il suo La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine (Prefazione di Luca Angelone, Universitas Studiorum, Mantova 2017) non può prescindere dalla sua esperienza diretta in importanti centri di ricerca e di sperimentazione. Quanto di questa esperienza è passato nel suo libro?

Sarebbe semplice, e un po’ scontato, rispondere che, dopo averle abbastanza assimilate, ho provato a rinvenire la cesura e i punti di convergenza fra le teorie sulla modellazione della mente di Silvio Ceccato e le logiche della progettazione dei software che hanno guidato una buona parte degli esperimenti svolti sulla dinamica degli autoveicoli nella mia carriera in questo campo. Ciò è sicuramente vero, ed è suffragato da diverse evidenze, se pensiamo che ormai molti costruttori mettono sul mercato autoveicoli dotati dei più evoluti dispositivi cibernetici, come i sistemi di parcheggio automatico, il controllo della stabilità e gli apparati di frenatura assistita che riproducono in modo soddisfacente il comportamento di una mente umana. Il tentativo è sempre quello, ispirandoci a Norbert Wiener, di far compiere al veicolo, quando è pilotato da un dispositivo artificiale intelligente, quelle manovre che un essere umano dovrebbe o vorrebbe fare in vista di un fine, ad esempio riprendere il controllo in caso di una sbandata o modulare con freddezza una frenata disperata per evitare un ostacolo improvviso e imprevisto. Ma in realtà c’è anche qualcosa che viene da più lontano, e la sua domanda mi permette di astrarre altri elementi degni di nota fra i miei trascorsi professionali e quanto si può ritrovare nel volume.
All’epoca dei primi colloqui di selezione per essere ammesso al Centro Ricerche di una grande industria automobilistica italiana, incontrai Giovanni Savonuzzi (uno dei fondatori della prestigiosa Cisitalia) e Pierguido Castelli, che negli anni ‘90 assunse la carica di Direttore Tecnico della Scuderia Ferrari di Formula 1. Frequentavo ancora il Politecnico di Torino quando venni contattato per partecipare a un gruppo di lavoro su un progetto dal forte impatto innovativo. Non ricordo molto di quei colloqui, ero emozionato e intimorito dalla figura di Savonuzzi, ma una cosa mi è rimasta impressa: Castelli, giovane dirigente, mi disse che se avevo delle idee in cui credevo e della cui validità ero persuaso avrei dovuto sostenerle sino in fondo, con umiltà verso i colleghi più esperti e nell’osservanza delle regole dei luoghi di lavoro, ma senza desistere. Lo stesso concetto che mi espresse Enzo Ferrari, del quale mi impressionò l’umanità, in occasione di un incontro privato nel suo ufficio a Maranello: ne ho fatto una delle regole auree della mia vita.
Superai la selezione e mi assegnarono all’ufficio calcoli dei motori; dovevo lavorare in un gruppo incaricato di confrontare i risultati ottenuti con l’aiuto di un nuovissimo calcolatore con quelli derivanti da calcoli eseguiti in modo tradizionale, con formule consolidate di fisica, carta e matita. Fui fra i primissimi ad accedere all’uso dell’Univac, un cervello elettronico molto simile a quello usato dagli Usa nelle missioni spaziali che pochi anni prima avevano permesso l’allunaggio del primo essere umano. Per dare un’idea delle sue dimensioni fisiche, l’Univac occupava una stanza di oltre cento metri quadrati ed io, come altri addetti, entravo fisicamente dentro il calcolatore per inserire i dati necessari a compiere i calcoli (quello che oggi si fa con una comunissima tastiera), ricavandoli dalla perforazione codificata di schede di cartoncino. Per inciso, la potenza di calcolo era un decimo di quella di qualunque computer che abbiamo sulle nostre scrivanie o acquistabile presso le normali catene di vendita al pubblico.
Alcuni calcoli erano particolarmente complessi. Una volta memorizzati su enormi bobine magnetiche venivano stampati su centinaia di fogli dai bordi perforati per il trascinamento nelle stampanti. Le infinite operazioni sequenziali spesso impegnavano la macchina per una notte intera, e il paragone con l’uomo in termini di prestazioni era davvero sproporzionato: se avessimo dovuto fare le stesse operazioni a mano, avremmo impiegato un mese! Già in quell’epoca mi chiedevo, un po’ ingenuamente, come fosse possibile che un essere umano poteva stare dentro un cervello elettronico, fatto di fili, bobine e meccanismi, e che sortiva lo stesso risultato conseguito da un cervello biologico/umano. Ripensandoci, mi viene in mente l’esempio del mulino di Leibniz nella Monadologia, dove sosteneva che, se fossimo così piccoli da entrare in una macchina come un mulino, visitandola «al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione».
Ora, se da una parte entusiasmo e stupore per la potenza di calcolo del cervello elettronico erano quasi tangibili, dall’altra proprio la capacità sovrumana ingenerava ansia sino ad insinuare una certa paura fra diversi colleghi anziani, timorosi che quella macchina arrivasse anche a vedere o a leggere i nostri pensieri quando eravamo all’interno del calcolatore. Quindi il primo approccio a quella che in quel tempo si chiamava «automazione applicata» era segnato dall’apprensione dei neofiti dinanzi alla novità.
Inoltre, come ogni ricercatore, agli inizi della mia carriera dovevo prendere per vero ogni elemento o metodo che i colleghi più esperti e superiori di grado mi proponevano o mi imponevano. La maggior parte di essi, fatta eccezione per il responsabile del progetto, giudicava inutile e costoso l’uso del cervello elettronico. Quindi vivevo questa tensione fra scetticismo e una euforia motivatissima: continuare con i metodi tradizionali, oppure credere nell’uso delle macchine. Propendevo per questa seconda linea, convinto che la cibernetica automazionale fosse un reale contributo per velocizzare la ricerca e soprattutto per ottenere risultati più attendibili e ripetibili. Lo scontro fra le generazioni di sperimentatori era molto forte, ma mi tornavano sempre in mente le parole di Castelli: «…se ci credi vai avanti!». E comunque la strada era tracciata e sempre più le macchine erano presenti nel nostro lavoro. Il ruolo di noi umani nella costruzione di macchine, e più ancora nell’uso dei risultati prodotti dalle macchine, mi ha sempre affascinato, e ho sempre rispettato chi con le proprie conoscenze decideva, sulla base di quei risultati, cosa era valido e degno di rilievo e cosa non lo era.
L’incontro con Silvio Ceccato e la sua cibernetica è stato per me casuale, se non predestinante – visto che da tempo ero assorbito nella sfera cibernetica –, sicuramente decisivo. Ho iniziato a conoscere le sue teorie in occasione della tesi di laurea in Filosofia proposta dal Prof. Enrico Pasini, il quale conosceva i miei trascorsi e ben padroneggiava le teorie di Ceccato. A mano a mano che mi inoltravo nella sua opera, mi incuriosivano la determinazione nel perseguire le proprie convinzioni e il metodo con cui riuscì a concretizzare alcune delle sue idee più avanzate. Uno spaccato di storia dove Ceccato mostra affinità con quello che accade nella realtà di svariati ambienti di ricerca. La sua lungimiranza nell’individuare il potenziale delle macchine intelligenti (ormai fanno parte del nostro modo di vivere e le usiamo continuamente senza neppure farci caso) è stata davvero singolare: fu l’unico fra i cibernetici del dopoguerra a costruire un frammento di cervello in grado di riprodurre 23 categorie mentali usate dall’uomo, applicando il suo modello categoriale di operazioni mentali. A modo mio, da ricercatore e sperimentatore, ho pensato che scriverci un libro fosse anche un tributo alla sua genialità.

Una qualche idea cibernetica ha da sempre accompagnato l’uomo. In Cibernetica per tutti Silvio Ceccato riportava la definizione del Dizionario Garzanti: «scienza applicata che mira a riprodurre le operazioni del cervello umano in complessi meccanici od elettronici – dall’inglese cybernetics, dal greco kybernetikós, aggettivo di kybernétes, “pilota, nocchiero”». Lei riporta kibernetiké téchne, «arte del pilotare». C’è una caratteristica comune tra le varie accezioni che la parola «cibernetica» ha assunto lungo i secoli, prima di specializzarsi, nella Treccani, come «scienza dell’informatica e della comunicazione»?

Il motivo della rilevanza che ho accordato al significato di «cibernetica» come qualcosa che gravita intorno all’arte del pilotare, riattualizzando un senso quasi perduto – lo stesso senso, del resto, che aveva ispirato Norbert Wiener –, è dovuto a ragioni assiologiche e funzionali al contenuto del volume. Ciò che più mi interessava del significato che ho deciso di adottare nella mia ricerca sta nel plusvalore semantico della parola «téchne» – l’arte, l’operare, l’abilità, la perizia, qualcosa di associato a poiesis, alla produzione. A mio avviso, la téchne è il punto nevralgico del processo di regolazione biologica verso un obiettivo, l’elemento che opera la sintesi di quello che la scienza, con l’aiuto della tecnologia, cerca di riprodurre artificialmente in modo analitico. Sicuramente Wiener avrà molto riflettuto prima di stabilire il nome con cui chiamare la sua nascente disciplina, una scienza che nelle intenzioni del suo ideatore avrebbe dovuto occuparsi, nello specifico, dello «studio dei messaggi emessi e in particolare dei messaggi effettivamente di comando che modificano il comportamento del ricevente», come possiamo leggere nella Introduzione alla cibernetica, del 1950. A questa scienza venne assegnato il nome di «cibernetica», ed è Wiener stesso a scrivere, sempre nella Introduzione, di averla battezzata «con un termine greco che significa arte del pilota o timoniere».
Tuttavia, perché ricorrere a un nome di ispirazione antica per connotare una scienza essenzialmente contemporanea? Abbiamo visto che la cibernetica iniziale verteva sul come potessero comunicare le parti di un sistema affinché si modifichi il comportamento del sistema che sta operando in modo teleologico, nel tempo. La ricerca di Wiener, come sappiamo, era finalizzata alla riproduzione artificiale di comportamenti biologici: di qui l’aforisma del timoniere che conduce la nave, che caratterizza l’accezione wieneriana di «cibernetica». Dopo aver rilevato con il proprio apparato sensibile la variazione della rotta indotta da agenti perturbatori esterni, il timoniere pone in essere le correzioni con cui governa la nave (il sistema complesso di cui anch’egli fa parte col ruolo di governante) e riporta in linea il veicolo marino verso l’obiettivo, cioè il porto di destinazione. Rilevamento dell’errore rispetto alla rotta, correzione, riallineamento e verifica dell’efficacia dell’operazione compiuta dal timoniere sono i coefficienti della sintesi di un andamento circolare che avviene per mezzo dell’informazione trasmessa fra gli elementi del sistema. La comunicazione fra gli elementi e la modalità con cui avviene, cioè tramite l’informazione, costituiscono i punti focali nel processo che consente di orientare il sistema verso il fine accordatogli.
Quando si cominciò ad ipotizzare che i calcolatori fossero veramente in grado di riprodurre le funzioni biologiche/umane fra cui il cervello, la definizione di «cibernetica» ha assunto vari significati, ma gli esperti di linguistica non sono sempre stati d’accordo nel descriverli in modo concettualmente univoco. Per esempio, nel Dizionario Zanichelli, dove nel ‘57 «cibernetica» ancora non compare, nel 1962 troviamo: «Applicazione dell’elettromagnetica al funzionamento e al comando di meccanismi complessi. p.e. delle macchine calcolatrici»; nel 1994 il lemma viene così dettagliato: «Disciplina che studia in particolare l’applicazione dei meccanismi di regolazione naturali alla tecnologia». Ceccato riporta la descrizione del Garzanti degli anni ‘70: «Scienza applicata che mira a riprodurre le operazioni del cervello umano in complessi meccanici od elettronici», una descrizione in sintonia con suoi studi sulla modellazione dell’attività mentale.
Bisogna aspettare gli anni ‘90 per osservare la ricomparsa del concetto di «processo» nella definizione di «cibernetica»; per il Garzanti del ‘93 è la «Disciplina che studia i processi naturali o artificiali di controllo e regolazione dei sistemi complessi». Nicola Abbagnano, nel suo Dizionario di Filosofia del 1993, all’inizio di una lunga argomentazione, sostiene che la cibernetica è «lo studio di “tutte le possibili macchine”, indipendentemente dal fatto che alcune di esse siano o non siano prodotte dall’uomo o dalla natura». Non va dimenticato che con Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio e altri, Abbagnano faceva parte del Centro di Studi Metodologici di Torino, un centro di ricerche, nato nel 1948, che nel dopoguerra svolse un ruolo determinante nella diffusione della «metodologia operativa» e dell’informatica.
Una definizione interessante è quella attuale di Treccani: «La cibernetica integra nozioni e modelli neurofisiologici e biologico-molecolari con la teoria matematica dell’informazione, la teoria dei sistemi e la ricerca operativa»; nell’Enciclopedia Treccani «cibernetica» è correntemente designata «Scienza dell’informatica e della comunicazione», e questa, che io sappia, è l’ultima specializzazione che dal profilo cronologico le viene attribuita.
Come è evidente, la parola «cibernetica» è passata attraverso un mutamento sia formale che di senso. Ma c’è un comune denominatore rintracciabile nelle varie definizioni di «cibernetica»? Qualche elemento che – rispetto all’idea iniziale –permane nelle sue recenti evoluzioni? Per quanto conosco e ho cercato di mettere in evidenza, se ne trae che fra i significati dei vocabolari il concetto iniziale di Wiener è difficilmente identificabile; anzi, quello che rappresenta la disciplina cibernetica oggi è decisamente cambiato. Personalmente la definirei scienza della complessità, una complessità presente e da gestire nelle applicazioni tecnologiche, nell’intelligenza artificiale, nella logonica attenzionale (e vedremo il valore fondante del qualificativo) e nel suo coinvolgimento con le nostre vite.

Per Norbert Wiener la cibernetica mirava a superare la frammentazione del sapere, lo scollamento tra physiologoi e philosophoi. Un obiettivo realizzato?

Fra i desideri di Leibniz c’era quello di individuare un metodo per unificare il sapere. I molteplici interessi verso discipline – malgrado le inevitabili contaminazioni – dai contorni definiti, come filosofia, storia, logica matematica e osservazione della natura lo avevano indotto a pensare che un «simbolismo universale» avrebbe facilitato la comprensione, e soprattutto garantito l’acquisizione del sapere. Circa due secoli e mezzo dopo Leibniz, Norbert Wiener, ispirandosi al grande filosofo tedesco, tentò un incanalamento, sotto l’insegna catalizzatrice della cibernetica, delle conoscenze specialistiche che lo avevano soccorso nella realizzazione delle proprie intuizioni.
Ma quali furono le motivazioni che fecero insorgere in Wiener tale esigenza? Naturalmente non conosciamo tutte le ragioni del wieneriano intento di riduzione in unum. Sappiamo però che ad un certo punto della sua ricerca cominciò a prendere consapevolezza delle conseguenze e delle implicazioni filosofico-scientifiche di alcune novità che stavano emergendo relativamente ai sistemi complessi. Si rese conto che, mai prima di allora, si erano create le condizioni per realizzare macchine e sistemi che avevano in nuce la capacità di riprodurre comportamenti biologici di pertinenza umana ed animale.
Fu proprio la complessità dei sistemi a richiedere, per la loro realizzazione, la presenza di specialisti provenienti da diverse discipline. Infatti, pur trattandosi di macchine o sistemi a forte sbilanciamento elettromeccanico e computazionale, per la loro aspirazione di replica dell’operare biologico in vista di una concretizzazione avrebbero dovuto riferirsi alle linee teoretiche provenienti dalla fisiologia e dall’osservazione dei comportamenti naturali. Il gruppo di studiosi che collaborava alle ricerche presso il Massachusetts Institute of Technology annoverava pertanto fisiologi (Roesenblueth, Lorente de Nòe Mc Culloch), ingegneri (von Neumann e Shannon), logici e matematici (Wiener stesso e Pitts) e progettisti di calcolatori (Goldstine). Questi specialisti, pur animati dalla stessa volontà di portare al successo il frutto delle loro attività, spesso si trovavano in difficoltà nel comunicare fra loro, sia per la mancanza di alcune nozioni di base note ad altri colleghi, sia per l’uso di linguaggi estremamente specialistici talora l’un l’altro escludentesi. Il risultato, nella valutazione di Wiener e di von Neumann (un ingegnere, che in quella fase dello sviluppo condivideva la responsabilità di un importante progetto cibernetico di difesa antiaerea), era che l’attività nel suo complesso ne veniva compromessa.
Wiener e von Neumann si trovarono quindi dinanzi a due ostacoli da scavalcare: il primo insito nella intrinseca complessità di uno dei primissimi progetti cibernetici; l’altro, inatteso, costituito dalla oggettiva problematicità di relazione e dal travaso di conoscenze fra i componenti del gruppo di lavoro. Così, nell’inverno del 1943 Wiener e von Neumann organizzarono un convegno a Princeton, per affrontare in modo adeguato questi ostacoli supplementari che venivano assumendo dimensioni prioritarie. Alla fine del convegno, era divenuto evidente a tutti i ricercatori nei vari campi che esisteva una base comune di idee condivisibili, per cui ognuno – come Wiener scriverà nella Cibernetica – «avrebbe già potuto servirsi di nozioni che gli altri avevano meglio sviluppato, e che si doveva tentare di pervenire a un vocabolario comune». Ad una sorta di combinazione alchemica fra le parti che avesse colmato certe intermittenze dovute all’alternarsi di funzioni settoriali.
Ancora una volta, nella storia delle idee, si tentava il superamento, anche dal punto di vista metodico, di uno dei dualismi che, con la pretesa genesi epistemologica di un campo scisso dall’altro, sin dall’antichità aveva condizionato la conoscenza: cioè il secolare discrimine, o per lo meno la discontinuità, fra – dico impropriamente – scienze della natura e scienze dello spirito, fra naturalisti e confidenti nell’assoluto.
Ma cosa è giunto sino a noi di quella teoria organizzativa? Lo sforzo di favorire l’interdisciplinarietà ha trovato una sua estensione nelle attività di ricerca attuali? A mio avviso, le modalità di lavoro in gruppo non sono cambiate in meglio nell’operatività focalizzata sulla ricerca applicata attuale. Nel lavoro di gruppo vi sono indubbiamente dei vantaggi nel prevenire crisi individuali, nel motivare i componenti verso il comune obiettivo delle ricerche. Ma ricordo che nel condurre gruppi di lavoro ho dovuto fare i conti soprattutto con le competitività personali. L’intima ambizione e il perseguimento della gratificazione dei singoli membri rarissimamente vennero poste in secondo piano per una valutazione omologante e ridistributiva assegnata al gruppo.
Sappiamo che il sogno di Wiener non trovò piena realizzazione, lasciandoci in eredità un successo solo parziale. E ciò nonostante le buone premesse emerse dal convegno di Princeton, nato proprio per superare la contrapposizione fra physiologoi e philosophoi. L’egocentricità di alcuni esponenti e i timori della perdita della presunta autorità di alcune scienze rispetto alle altre fecero naufragare il tentativo di interdisciplinarietà della cibernetica wieneriana, senza con questo pregiudicarne gli sviluppi sino a i giorni nostri.

Qual è il passaggio decisivo che dalla cibernetica di Norbert Wiener conduce alla cibernetica della mente di Silvio Ceccato? E cosa ha comportato quel passaggio?

Le implicazioni filosofico-scientifiche della cibernetica wieneriana, che – come dicevo – inseguiva il proposito di riprodurre artificialmente comportamenti biologici presenti nella natura umana ed animale, aprirono forse un po’ precocemente dei campi di indagine ancora ardui da percorrere. Si ambiva inoltre a replicare l’organo più importante degli organismi viventi, cioè il cervello umano. Tutto partiva dallo spostamento della concezione di macchina da sistema esecutore a sistema teleologico: i primi cibernetici, nel tentativo di automatizzare le attività tipicamente biologiche, si avvalsero di protosistemi complessi governati da imponenti macchine calcolatrici elettromeccaniche (non era ancora stata scoperta l’elettronica) che nello specifico usavano il sistema binario, un qualcosa che alla lunga imitava il funzionamento dei neuroni. Wiener, Ashby e altri cibernetici, divulgando le loro scoperte, alimentarono i rivoli dell’immaginazione nonché articolate speculazioni, con effetti che influenzarono molti studiosi europei, fra cui alcuni italiani che si dimostrarono particolarmente recettivi.
Ceccato soffriva di disturbi sinestetici. Cominciò ad investigare sulle cause della contaminazione sensoriale a livello di percezione: il suo era quindi un angolo di osservazione particolare, non esente da un legittimo coinvolgimento personale. Poi, venuto a conoscenza degli studi cibernetici sul cervello, intravide in essi una potenziale risoluzione. Si rese però conto, direi anche abbastanza in fretta, che nel caso della riproduzione del cervello umano le incognite riguardavano il rapporto mente-cervello, considerati dalla comunità scientifica come organi funzionali agli enti concettuali: in altre parole, nella mente erano allocati gli enti, mentre il cervello con le reti neurali e i processi sinaptici governava la funzionalità del corpo. Sul piano della riproducibilità artificiale questo andava bene sino a quando si trattava di condurre operazioni di tipo sequenziale-matematico, ma appena si passava al campo della concezione categoriale, o peggio ancora della semantica, i calcolatori – che sono pur sempre macchine programmate – restavano imbrigliati in ostacoli il cui superamento appariva problematico.
Ma ogni problema suscita un processo, e Ceccato intuì che lo snodo della questione stava proprio nel rapporto mente-cervello. E lo intuì nella supposizione che la mente, lungi dal costituire un raccoglitore di enti, era la funzione dell’organo cervello. Sulla base di questa intuizione, la mente diventava la parte operativa del cervello e il processo costruttivistico poteva essere modellabile, con un procedimento consecutivo in cui le categorie, i concetti e le parole prendevano corpo sulla base di operazioni semplici, ripetibili all’infinito, proprio come avviene con i calcolatori. Un lampo riflessivo che costituì il passaggio decisivo dalla cibernetica automazionale di Wiener a quella della mente, chiamata da Ceccato «logonica». Da quel momento la comunità accademica ha dovuto prendere atto che una nuova prospettiva metodologica e un nuovo tipo di operazionismo – che andava oltre Bridgman e oltre Digler – davano respiro all’ipotesi, invero alquanto complessa, di riprodurre artificialmente un cervello biologico.
Queste teorie (qui ho dovuto sintetizzare molto, e per un approfondimento di questo nodo cruciale rimando alla bibliografia posta a conclusione del mio volume) al momento vennero sottovalutate e Ceccato stesso, dall’indole così poco incline alle relazioni dal dare l’impressione di situarsi e di non situarsi, quasi in partibus infidelium, allo stesso tempo dentro e fuori del gruppo di studiosi, non ne favorì certo la divulgazione. Abbiamo dovuto attendere sino all’inizio del secolo corrente per vedere ripresentate oltreoceano, allegramente e indebitamente sottoscritte, alcune fra le sue intuizioni più originali.

Come abbiamo visto, il protagonista del suo libro è Ceccato, nominato nel sottotitolo: Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Silvio Ceccato. Uomo geniale, scontroso, non allineato, insuperato. Quale punto del suo pensiero è ancora attualissimo, e perché?

Le biografie che compaiono su Treccani, Wikipedia e in generale nella bibliografia corrente, pur ricche di elementi oggettivi come i rimandi puntuali e circostanziati a saggi, convegni, ad articoli e a pubblicazioni varie, non rendono giustizia del contributo di Ceccato alle ricerche sulla mente in Italia, e come vedremo anche nel mondo occidentale. Un contributo altamente innovativo, che a partire da sfere del sapere abbastanza consolidate, come la storia della filosofia antica, l’operazionismo, il linguaggio e la psicologia, lo ha indotto ad avventurarsi in territori completamente incogniti e non privi di insidie: la cibernetica, l’automazione, l’informatica e altre discipline tecnologiche e filosofico-scientifiche figlie dei nostri giorni e tuttora in corso di sviluppo.
A pensarci, è davvero singolare che i risultati scolastici di Ceccato non furono granché esaltanti. Date queste premesse, difficilmente all’epoca del conseguimento della sua maturità classica si sarebbe potuto immaginare che da un profitto appena sufficiente sarebbero emerse tanta energica genialità e straordinarie doti intuitive in sfere di indagine che lungo il percorso scolastico prima, e universitario poi, non erano neppure state sfiorate. Proprio nel contrasto fra i numeri delle valutazioni scolastiche, al limite della sufficienza, e la somma delle riflessioni e degli esperimenti condotti sino all’epilogo della sua vita, sta il personaggio Ceccato. Sta nello scarto fra l’incertezza delle premesse (chi avrebbe scommesso su di lui? Chi avrebbe potuto prevedere la sua effervescente e prestigiosa carriera?) e l’eccellenza dei risultati della sua ricerca, spesso divulgati a proprie spese. Certo, sin dal primissimo periodo milanese le agiate condizioni familiari permisero al giovane Ceccato l’indipendenza oltre che economica anche intellettuale, circostanze che ritroviamo nei passaggi salienti della sua vita. Tuttavia, e non è uno stereotipo dei biografi, l’assunzione di atteggiamenti ostentanti superiorità intellettuale, un certo individualismo sprezzante, e in diverse occasioni (come mi è stato riferito da coloro che lo frequentarono di persona) lo schernimento e la derisione di alcuni blasonati interlocutori e persino di qualche collaboratore – bruscamente allontanato in quanto reo di non condividere ciecamente, o addirittura di contrastare, i risultati di alcune sue analisi – hanno creato intorno alla sua figura e al suo pensiero un alone di ostracismo e di insofferenza, cioè i presupposti per incorrere nell’incomprensione. I suoi modi sbarrarono quindi la via per una accoglienza adeguata del suo orientamento di pensiero – ormai distante, claustrale, il pensiero di «un tecnico fra i filosofi», per dirla con Ceccato –, messo in forse o non esposto a una valutazione attenta, né aperto a un séguito di allievi disposti a misurarsi con la radicalità delle sue teorie e con gli esiti del suo «come non filosofare». Ovviamente ciò nulla sottrae al valore intrinseco delle sue opere, e da questo profilo l’ecletticità di Ceccato ha dell’incredibile. In questa sede abbiamo preso in esame prevalentemente le sue intuizioni in ambito cibernetico, che aprivano a implicazioni filosofico-scientifiche relative alla riproduzione dell’attività mentale, in definitiva, le più importanti. Ma le varianti applicative correlate al sistema costruttivistico operazionale della mente hanno invaso molti altri campi: dalla traduzione automatica alla registrazione visiva dei geroglifici oggetto della papirologia (quasi un novello Champollion) alla classificazione semantica dei reperti giuridici, per non dire della traduzione diretta da una lingua all’altra (anticipando di oltre cinquant’anni le funzioni dei nostri attuali traduttori elettronici), sino alla registrazione dei movimenti del bulbo oculare per oggettivare la funzione attentiva. E potrei continuare…
Come accennavo sopra, credo che il contributo determinante di Ceccato sia l’esito dello studio di un modello dell’attività mentale fatto da operazioni semplici, stati di coscienza elementari, costituiti dall’attenzione come elemento atomico (lo stato attentivo attivo-non attivo da cui parte tutta l’attività mentale consapevole). Quello che per analogia è presente nel bit del processo operazionale dei calcolatori, nella visione di Ceccato era già presente nel cervello umano. Ha avuto il merito di individuarne l’esistenza e di sorprenderne la funzione come facoltà intellettiva. L’attenzione, che con la memoria costruisce quelli che in La mente vista da un cibernetico (1972) egli chiamava i «presenziati» (la sintesi di attenzione, percezione sensibile e memoria breve costruisce un elemento mentalizzato che, lo si vedrà, permette la conoscenza), parte fondamentale dell’attività di «una mente resa creatrice e responsabile». Nella cognizione di tali meccanismi (uso questo termine per giustificare la catena causa-effetto che necessariamente avviene nelle reazioni sinaptiche del cervello), da un lato è possibile modellare il processo per tentare di riprodurne artificialmente l’attività, e dall’altro, in modo biunivoco, si può intervenire per migliorare il ritmo biologico del cervello umano, con incursioni nella sfera troppo umana dei meccanismi psicologici, così da correggere stati d’animo patologici, anche nella prospettiva della conquista dell’appagamento della persona, nella prospettiva cioè del fare la felicità di qualcuno. Ecco, questa intuizione, che partendo dalla cibernetica automazionale di Wiener ci ha condotti molto lontano, sino alla cibernetica della mente, la «terza cibernetica» o «logonica», era qualcosa di completamente nuovo nello scenario epistemologico, filosofico e psicologico. Sdegnata o screditata quasi come eretica dal mondo accademico dell’epoca recentemente è stata rivalutata da un grande psicologo e divulgatore statunitense, Daniel Goleman, che sperabilmente in buona fede, dopo oltre sessant’anni se ne è arrogato il privilegio della scoperta. In particolare, del processo costruttivistico dell’attività psicologica incentrata sull’attenzione, che Goleman sulla scia di Ceccato, ma chiamandola in inglese «focus», delinea come elemento atomico/elementare capace di «mettere in atto la consapevolezza e la concentrazione» (Focus, 2013). In estrema sintesi, l’uso dell’attenzione per la costruzione e il raggiungimento della concentrazione stabile sembra stia trovando ampio credito nelle terapie psicologiche finalizzate al conseguimento del benessere interiore e della valorizzazione delle attitudini personali. Come vede, tutto è molto attuale!

Come si formano le categorie mentali secondo la teoria di Ceccato?

Come sappiamo, nel tentativo di riprodurre artificialmente il funzionamento di un sistema biologico-finalistico, i primi cibernetici si spinsero ben oltre il perimetro di ricerca ipotizzato all’inizio dell’avventura wieneriana. Il fervore e l’entusiasmo li aveva indotti a lavorare molto sulla parte che nei sistemi faceva capo ai servomeccanismi, ma l’impegno maggiore venne profuso verso il calcolatore, cui veniva attribuito il ruolo di governo nei sistemi complessi.
Inizialmente la macchina (il calcolatore) doveva solo eseguire una grande quantità di calcoli: operazioni semplici, consecutive, basate sulla combinazione di elementi minimi (bit) eseguite nel tempo in modo discreto, intermittente; il procedimento più efficace per svolgere le operazioni di calcolo risultò essere, e tuttora lo è, il sistema numerico binario, basato su «0» e «1». Ma sorprendentemente il sistema operazionale binario mise in evidenza l’analogia fra calcolatore e cervello biologico, analogia acclarata da autorevoli fisiologi come Rosenblueth e Lorente de Nó: il cervello biologico, nel suo modo di operare discreto, caratterizzato dall’alternanza di attività-non attività, ha momenti di attivazione delle scariche neurali assimilabili al «tutto o niente» dei calcolatori, in buona sostanza lo «0» o «1» del sistema binario.
Cresceva così la fiducia di essere verosimilmente prossimi alla riproduzione di un cervello umano, l’organo riconosciuto come essenziale per la vita piena di un corpo. Ma se la soluzione sembrava alla portata di informatici ed elettronici, sorgevano nuovi interrogativi sul piano filosofico ed ontologico: cos’era in definitiva il cervello? È a sua volta un sistema? Esistono delle gerarchie funzionali? E dove e come si formano i pensieri? Sono contenuti nella mente? E i concetti? E soprattutto, ispirandosi a Kant: come si formano al suo interno le categorie con cui diamo realtà alla semantica? Fra domande, immaginazione e scienza, tutti teorizzavano tutto, ma nessuno riuscì a riprodurre un cervello. Tutti tranne, appunto, Ceccato.
Luca Angelone, nella interessante Prefazione al mio volume, ci ricorda che la mente è qualcosa che nessuno ha mai visto; tuttavia ci rendiamo conto che ragionevolmente dovrebbe esistere e lo deduciamo dagli epifenomeni di cui abbiamo coscienza. Per capire come si formino i pensieri, e soprattutto come si formino pensieri dotati di carattere semantico, Ceccato parte proprio dagli epifenomeni e risale sino all’origine del processo. Ecco la sua genialità (in merito, ho anticipato qualche tratto in precedenza): attribuendo al cervello il ruolo di organo e alla mente quello di funzione, la mente poteva diventare la sede per i procedimenti costruttivi operazionali, abbandonando così l’archetipo che la voleva un contenitore di enti; inoltre, essendo una funzione, non doveva fare altro che funzionare e produrre attività mentale.
Gli elementi fondamentali che costituivano il modello operazionale ceccatiano diventano quindi: il tipo di procedimento, l’attenzione e la memoria. L’attenzione con il suo stato discreto di attivo/passivo (correlati a «1» e «0», cioè gli stati binari, tipici del funzionamento di un elaboratore) si poneva come elemento fondamentale e atomico dell’attività mentale. Applicandosi in forma duale o ai sensi o a se stessa, dà luogo ai «presenziati» e alle «categorie». Nel primo caso, rivolgendosi agli organi di senso, costituisce i presenziati, elementi – sintesi di percezione sensibile e di attenzione – mentalizzati che rimangono attivi per poco tempo grazie alla memoria breve. Questa, a sua volta, in modo sequenziale li consegna al procedimento «consecutivo», sommandoli ai presenziati preesistenti, formando così la memoria a lungo termine: ossia la vita mentale trascorsa del soggetto pensante, la nostra memoria, la nostra identità.
Il secondo piano su cui lavora l’attenzione si ha quando si rivolge a se stessa anziché al funzionamento di altri organi. Con tale modalità costruisce le categorie mentali, e ce lo spiega benissimo Ceccato nella Mente vista da un cibernetico: «Una volta che noi abbiamo assunto uno stato di attenzione vuota, pura, lo stato in cui ci mettiamo per esempio se qualcuno ci dice “attento!”, “guarda!”, e simili, è possibile riempire questa attenzione focalizzandola su di sé, mantenendo cioè quel primo stato e aggiungendovene un secondo. Questo passaggio costruttivo è facilmente seguibile se dopo la parola “attento!”, la parola che segue è per esempio un “ecco!”». Questa seconda proprietà dell’attenzione, nell’ambito della metodologia operativa, permette la costruzione categoriale e la possibilità di formulare un modello sistematico, vale a dire un vero e proprio modello di attività mentale. La categoria più semplice e più diffusa è quella di «cosa» in quanto, come Ceccato stesso scrive (ancora in La mente vista da un cibernetico), «non c’è nulla che non possa essere visto come cosa. L’uomo è una cosa, il punto è una cosa, l’amore è una cosa…». Chissà che avrebbe pensato di tutto questo Kant, posto dinanzi ad Adamo II (cioè il frammento di cervello presentato da Ceccato nel 1956), capace di costituire 23 categorie mentali. Un Kant che nella Critica della ragion pura, pur avendo intuito per primo che la conoscenza è costituita dalla sintesi di percezione sensibile e trascendenza categoriale, si era però fermato a dodici categorie.

Per lei la macchina difficilmente sarà in grado di equipararsi all’uomo. Una questione di neuroni. Può spiegarci? Inoltre, la posizione che lei esprime in La cibernetica italiana della mente sembra collidere con quello che Ceccato scriveva (richiamando il precedente Ingegneria della felicità) nella Prefazione a Contentezza & intelligenza: «costruire un robot felice, un capriccio da cibernetico». Una provocazione, una sfida per testare fino a che punto possano spingersi le così dette «intelligenze artificiali»? Ma la domanda preliminare, secondo Ceccato, è un’altra, e cioè: «come è fatto l’uomo felice?»

Comparare un cervello umano e un cervello artificiale, il quale, evoluto fin che si vuole, è pur sempre una macchina, è come parlare dell’occhio umano e della macchina fotografica. Occhio umano e macchina fotografica, una volta sorpreso, focalizzato e catturato un certo istante, producono entrambi la stessa cosa, vale a dire un’immagine. Il primo trasforma gli stimoli sensoriali in un codice di segnali nervosi che costituiscono l’alfabeto usato dal nostro cervello per la ricostruzione della realtà del mondo esterno; la macchina, pur rendendoci un oggetto ad altissima definizione, si limita a trasformare gli oggetti fissati dall’obiettivo in un’immagine statica, che testimonia un attimo irripetibile e cristallizzato, sottratto all’evoluzione del soggetto o dell’elemento effigiato alle trasformazioni dovute al passare del tempo. Attimo emotivamente non connotato e altamente sovrainterpretabile, perché nel caso dell’immagine fotografica siamo noi, gli osservatori, ad assegnare al soggetto effigiato stati d’animo magari del tutto estranei alla trama vissuta dell’osservato.
Gli oggetti visivi, quelli percepiti sensorialmente dall’occhio, sono invece parte della realtà e sono ricostituiti nel cervello in stretta contiguità con le facoltà psichiche ed emotive, che a loro volta produrranno pensieri, decisioni, volizioni, ecc. Hanno un passato e un futuro, sono immessi nel tempo ed occupano spazi nel mondo, hanno colori, rapporti dimensionali, prospettive e moltissime altre elaborazioni che contribuiscono alla vita del soggetto senziente. La complessità con cui l’occhio porta l’acquisita percezione a disposizione del cervello, quindi, è di molto superiore a quella di una macchina fotografica che, in definitiva, riproduce anch’essa un istante della realtà, ma svolgendo il suo compito, che è eseguire, nella fattispecie, limitarsi a memorizzare questo istante su una pellicola o su un supporto digitale.
Ho fatto questo raffronto sperando di dare la misura atta a quantificare il rapporto fra i livelli di complessità che riguardano un cervello umano e un cervello elettronico. Con questo non vorrei porre a priori limitazioni a futuri sviluppi sulla possibilità di riprodurre un cervello umano con le sue straordinarie (e ancora in parte sconosciute) facoltà, ma a mio avviso collocare in posizione subordinata gli artefatti è una questione di numeri, e siamo ancora estremamente distanti dal vedere un oggetto artificiale che possa competere con il più complicato ed arcano degli organi presenti nello scenario biologico del pianeta.
Alla base delle limitazioni funzionali estese riguardanti un cervello artificiale c’è anzitutto il modo con cui si costruisce un qualunque apparato elettronico. Pur provando ad immaginare quanto siano miniaturizzati i componenti che costituiscono i semiconduttori (quello che ormai è identificato come l’hardware dei calcolatori, cioè la moltitudine di transistor, condensatori, resistenze ecc., presenti nei circuiti integrati), il numero di elementi è di gran lunga minore rispetto alla struttura cortico-neurale di un cervello biologico, la cosiddetta «materia pensante» che possiede circa 100 miliardi di neuroni (più o meno il numero di stelle che compongono la Via Lattea). Il limite quantitativo è condizionato sostanzialmente dagli strumenti esterni e dalla tecnologia con cui produciamo i semiconduttori, che oltre un certo margine non si è in grado di miniaturizzare.
Un altro rilevante problema per i cervelli artificiali riguarda l’energia: elemento indispensabile per la persistenza del nostro cervello artificiale. Contrariamente al cervello biologico, la macchina non è in grado di produrre l’energia elettrica in modo autonomo per il proprio funzionamento, anzi non solo ne usufruisce attingendola dall’esterno, ma col calore indotto che si sviluppa al suo interno una parte di essa si trasforma in entropia, cioè in un processo di perdita energetica irreversibile e aperto (con conseguente incremento dell’effetto serra del pianeta).
Al contrario, qualunque organo biologico si sviluppa con un procedimento sostanzialmente opposto: trasforma l’energia fornita al sangue dall’alimentazione in materia biologica che dall’interno si evolve per sovrabbondanza e divisione delle molecole. Il cervello umano si è sviluppato da un nucleo centrale che è la sede della sfera emozionale; la sua superficie, la corteccia, presenta circonvoluzioni e controlla la mobilità, gli organi di senso e i processi associativi. Si parte da elementi infinitamente piccoli come gli atomi che si moltiplicano e costituiscono tessuti, muscoli, nervi, neuroni, capillari che trasportano il sangue, ecc.: la complessità dell’infinitamente piccolo, paragonabile all’infinitamente grande dell’universo, è al limite dell’immaginazione, e in gran parte è una questione ancora insondata.
Questo, se non la rende completamente comprensibile, giustifica la nostra attuale incapacità di replicare artificialmente processi intenzionali e volitivi, eventi emozionali combinati con procedimenti logici che con inferenze interne presiedono ai processi di deliberazione mediati in funzione delle circostanze accidentali della realtà esterna.
Ceccato, dopo aver intuito, teorizzato e modellato il funzionamento attenzionale della mente operativa e semantica, negli anni ‛80 gettò il guanto della sfida sul piano delle emozioni e dei sentimenti riprodotti artificialmente. Sino a dire, nella Prefazione a Contentezza & intelligenza, di voler «costruire un robot felice, un capriccio da cibernetico». E ci fa capire come fosse convinto quanto meno di argomentare su come progettare una vera macchina felice. Come sempre si proponeva di applicare il suo metodo: partendo dallo studio dell’uomo, dopo averlo capito, cercare di ripeterne le cifre caratteristiche. Questa impresa non vide il compimento nell’arco della sua vita, ma ci lasciò non pochi contributi nella ricerca dell’ingegnerizzazione della felicità.
A questo punto credo sia giunto il momento di cambiare codice, e di adottarne un altro, diversamente severo. È un fatto ineludibile chiedersi cosa sia la felicità per l’uomo. Si apre il vaso di Pandora. Filosofi, poeti, letterati, scienziati, cineasti, in molti si sono prodigati nel disegnare un paradigma della felicità. Ritengo intanto che la felicità non è un fine prescrivibile alla macchina. L’impronta dell’uomo, nei suoi artefatti, si infrange contro il limite costituito dai sentimenti: le macchine non provano pietà, compassione, né – come aveva già detto Ceccato – hanno paura della morte, tanto meno sono felici o infelici. Qui siamo nel campo dell’indeterminabile che non può essere programmato né riprodotto per analogia.
Detto questo, non resta che sfiorare l’eterna questione della felicità, sommo e asintotico bene per l’animale-uomo. Forse sarà anche vano domandarselo, in quanto lo sforzo si riduce a configurare qualcosa di ineffabile. Rispondo allora con qualche paradigma. Diceva Rousseau che la felicità consiste nell’avere un consistente conto in banca, un ottimo cuoco senza però incorrere a una cattiva digestione. Se fosse davvero così, qualcuno potrebbe essere pienamente felice.
Sembrerebbe più credibile Flaubert, per il quale la felicità è un’invenzione diabolica volta a consolidare la nostra disperazione. E Marcel Proust, più sottilmente: «il est rare qu’un bonheur vienne justement se poser sur le désir qui l’avait réclamé». Quindi sembra essere qualcosa di imprendibile, per lo meno di non identificabile. La felicità dei poeti non è più incoraggiante, ma talora riesce a cogliere nel segno. «Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina», diceva Montale. «La felicità consiste nell’ignoranza del vero», aveva detto Leopardi, ma a questo assunto mi allineo con riserva. Oppure, sempre con Leopardi, il piacere è «frutto / Del passato timore»… Forse, flettendo Husserl, potremmo dire che «uomo felice» è come dire «circolo quadrato», cioè un controsenso. O una sfida nei confronti del principio di non-contraddizione. Personalmente, capita che mi adegui al verso di Sbarbaro quando «una felicità fatta di nulla / mi colma», oppure al detto di Jim Morrison (sempre che non sia apocrifo): «happiness is made of a nothing that when we live so we feel everything».
Ovviamente non possiedo prospettive o formule per qualificare in modo univoco la felicità, ma contrariamente al luogo comune che le attribuisce un qualcosa di superlativo, di straordinariamente elevato dal profilo della gratificazione rispetto a stati d’animo che dominano le nostre vite fatte di lavoro, famiglia, svaghi, sacrifici, mutui ecc., per me essere felice consiste nello stare bene essendo consapevole di stare bene. Una consapevolezza della normalità con tutte le ansie, le esaltazioni positive e negative e malanni neutralizzati. Una definizione fra le tante che certo non ambisce a competere con quelle dei poeti o dei maestri del pensiero, ma dalla quale ho sempre tratto soltanto benefici.
In conclusione, come se ne esce? Una nuova frontiera nel rapporto uomo-macchina sembra affacciarsi all’orizzonte. Inerisce non tanto alla contrapposizione fra cervello biologico e cervello artificiale, quanto a una sorta di alleanza funzionale fra questi due pilastri della sfera cognitiva e di quella emotiva: mi riferisco alle nuovissime tecnologie che fanno capo alla Brain Computer Interface. Dato che non si riesce a riprodurre in modo adeguato il cervello umano, la nuovissima cibernetica (sarà la quarta cibernetica?) è costituita da componenti elettroniche impiantate nei corpi umani e connesse fisicamente ai terminali nervosi del corpo, i quali ricevono e inviano le informazioni a dispositivi esterni che possono così essere comandati direttamente dal cervello umano. Un cervello umano che, dall’alto della sua estrema complessità, usa il cervello artificiale come protesi per compiere le operazioni che in natura non riusciamo a svolgere con la potenza e la velocità di cui è capace l’intelligenza artificiale. Come finirà? Per ora sembra che il cervello umano – come anch’io credo – la spunti, ma potrebbe finire anche come diceva Tommaso in riferimento a fede e ragione, dove l’una era ancella dell’altra: non rivali ma alleate, camminavano insieme verso la conoscenza.

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