Bibliomanie

Note di lettura per l’ultimo Ferraris
di , numero 37, settembre/dicembre 2014, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Note di lettura per l’ultimo Ferraris, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 37, no. 16, settembre/dicembre 2014

1. NELL’INEMENDABILE IL POSSIBILE

È stato più volte fatto notare come le istanze del Nuovo Realismo si caratterizzino per un eccesso di complessità tale da non renderle circoscrivibili in una definizione sintetica. Anche a voler prescindere dalle varie posizioni che vanno sotto il comune denominatore del Nuovo Realismo, nella specifica prospettiva di Maurizio Ferraris ci troviamo di fronte ad assunti sempre più capillari ed esigenti che aprono a nuove coimplicazioni insieme a nuovi gradi di estensione dei predicati nuovorealisti. È il caso di Realismo positivo (ovvero l’antefatto di un’opera più vasta e sistematica, come viene anticipato nella nota editoriale), dove le intenzioni che muovono Ferraris riguardano il decorso dialettico e il conseguente accrescimento delle competenze proprie del carattere resistenziale della realtà, vale a dire dell’autonomia strutturale di quel vasto strato di esistenza che permane indocile e non sempre intelligibile a noi.
La cognizione di esistenza in Realismo positivo continua pertanto a rispondere al paradigma della inemendabilità (secondo cui esiste un mondo «incontrato» e non finalisticamente organizzato per le nostre esigenze, in merito al quale nulla vincolano i nostri modelli mentali) e il realismo continua a dirsi antirealismo nel caso particolare della ontologia sociale (ricordiamolo: in qualità di «atto iscritto» e idiomatizzato, l’oggetto sociale reagisce alla teoria della inemendabilità in quanto artefatto umano, una res che si istituisce a partire da deliberazioni di soggetti). E specularmente: la filosofia nuovorealista si attiene a una dimensione pre-critica nell’ambito autonomo dell’ontologia naturale, mentre diviene dottrina critica nella sfera dell’ontologia sociale, perché qui è chiamata a operare un accertamento – dunque, a interpretare – di ciò che c’è indipendentemente da noi, di ciò che è meramente soggettivo, e di ciò che viene socialmente costruito. Una dottrina, allora, non esclusivista o radicale né nominabile univocamente, che al contrario mostra una elasticità particolarmente feconda anche sotto il profilo della mutuazione dei suoi criteri assertori.
Ora, dal momento che la realtà non ci si pone soltanto frontalmente, la nozione di resistenza dell’esistenza (e l’annominazione sta a siglare il nesso qualificativo di due maniere di essere che si interdefiniscono) implica che opposizione e possibilità siano proprietà indissociate, sinergiche e dialetticamente interagenti, al punto che l’«affermatività del reale», cioè la negazione frapposta dalla realtà, è essa stessa la condizione per l’esplicazione di una positività possibile, la sola del resto che può esserci data in una prospettiva dove il mondo non sia la funzione dei nostri pensieri o moti, l’opposizione del mondo rendendoci anzitutto la percezione di tutto ciò che non siamo noi. La realtà del «mondo esterno», apparente calembour tra mondo fuori, fisico, e mondo esterno ai nostri schemi concettuali (la seconda accezione è quella appropriata, Ferraris ricorda nelle pagine di Realismo positivo), obbedisce alla legge della inemendabilità, che predica la non permeabilità di quella parte dell’esistente che per suo statuto non si piega alle nostre inquisizioni o applicazioni, così come non si lascia determinare in asserzioni categoriali. Tuttavia, nel suo configurarsi semanticamente bivalente come «noumeno concreto» dove certezza e intrasparenza non sono in rapporto di reciproca esclusione, e ancora, come «opacità, inintelligibilità, non-senso» – per usare precedenti espressioni di Ferraris –, non è mai da escludere l’interferenza dell’inaspettato che orienti verso una direzione non prevista il corso delle cose, cioè del possibile il cui generarsi dipende per lo più dal mondo che non da noi: il che dà inoltre la misura della limitatezza dei nostri schemi mentali, non sempre sufficienti a configurare il mondo. All’esistenza è dunque incorporata l’evenienza del farsi avanti di un potenziale possibile, e con esso di una positività latente e sul punto di emergere.
È la possibilità sostanziale alla negazione, ingenita nell’inalterabile spessore del mondo, perché ogni possibilità che si realizzi non può che far conto su una resistenza (un oggetto reale) quale presupposto per promuoverla: «in ogni inemendabilità si celano delle opportunità». È ciò che Ferraris chiama «resistenza positiva». L’asseribilità di una «resistenza positiva» esclude ovviamente ogni tendenza a considerare gli oggetti fisici come qualcosa di concettualmente dato o assoggettabile a forme non controllate di costruttivismo condotte sull’ontologia: avremmo infatti delle difficoltà a concepire una accessibilità a quanto di eventuale e di invitante, di imprevedibile o di sorprendente possa essere alluso da qualcosa di senso non oggettivo. La flessibilità dell’inemendabile sembrerebbe ulteriormente screditare il costruzionismo. Se ogni opera costruttivistica si rivelava inconsistente di fronte all’inflessibilità del mondo esterno, ora ci restituisce un mondo al margine dell’evanescenza. Già deoggettivato e denotato nei modelli talora speciosi del sapere, appare inoltre inabile a riconoscere ciò che appartiene al dominio della potenza. Ma rischia anzitutto di divenire l’oggetto di un antirealismo privo di vincoli e confini. A riguardo, ricordiamo la sorte dei negatori dell’ontologia – di chi misconosce la soglia tra «meri ‘fingimenti’ ontologici» e «quelle entità di cui invece il mondo è realmente costituito» (sono parole di Achille Carlo Varzi) – nella pena di uno dei dannati che compaiono nello straordinario e potente «poema filosofico» di Achille C. Varzi & Claudio Calosi, Le tribolazioni del filosofare. La «perduta mente» in questione è un nichilista.

«Dei fingimenti volea liberarmi
e misimi a svotar quel ch’era pieno
fin che tolli sostanza ad onne cosa
che i monti, li animai e me nemmeno
io dissi ch’esistenza lor reposa
e tutto è sempre solo fingimento.
Così rovino adesso sanza posa

e sanza posa cado nel tormento,
ché cancellata onne resistenza
mi sfianco come sfianca foglia al vento».


E nel nominare Achille Varzi – interlocutore di Ferraris nel dialogo filosofico che chiude Realismo positivo – viene da sé il richiamo al «senso della possibilità» quale «linfa della filosofia», che per Varzi deve occuparsi tanto di «come stanno le cose» che di «come potrebbero essere». A partire dal suo «motto»: «Non siamo ciò che potremmo essere, ma potremmo essere ciò che non siamo!». Anche di qui la mirabile terzina: «Né cresce né potrebbe incominciare, / se fosse ‘l mondo quel che noi s’aspetta, / la maraviglia del filosofare». Un filosofare imperfetto per insufficienza di immaginazione è quello degli «avversi al possibile» puniti nell’ottavo Cerchio di questo Infero, i quali mostrano delle limitazioni in termini di inerzia e passività, qualità che riceveranno ulteriori specificazioni.
Tornando a Ferraris, la filosofia nuovorealista sembra possedere tutte le facoltà perché non la si designi una dottrina che segue il dominio dell’uso, salvo considerare alla stregua di vezzi o di tendenze transitorie questioni fondamentali all’umano connaturate, quali, ad esempio, l’attenersi al senso comune o il difendere le condizioni basilari dell’etica. Come si definirebbero gli esiti emancipativi, che il Nuovo Realismo persegue, in un discorso filosofico alla moda? La quale, con Leopardi, collabora con la morte (differente è solo la forma di annientamento che entrambe procurano), designata «nemica capitale della memoria». Nella stessa misura della moda, che dà la morte in quanto sottrae agli individui la speranza di «non morire interi». Vale a dire il merito, nella specifica circostanza, di essere almeno ricordati come precursori o fondatori di qualcosa di filosoficamente rilevante e fondativo che sensibilmente incida in vista di una riqualificazione dei presupposti del fare filosofia. È piuttosto sotto un diverso profilo che il Nuovo Realismo – lungi dal prescindere dal pregresso della tradizione, decostruzionismo ed ermeneutica inclusi – si tiene al passo con i tempi, caratterizzandosi cioè come «filosofia globalizzata», lavoro in fieri, allora, in quanto si incarica di dar conto dell’odierno attraverso una indagine che si mantenga in un livello espressivo fruibile anche dall’utente non specialista.

Riferimenti bibliografici
M. Ferraris, Realismo positivo, Rosenberg & Sellier, Torino 2013.
Id., Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001.
Id., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.
Id., Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma Bari 2012.
Id., «Esistere è resistere», in Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (a cura di M. De Caro e M. Ferraris), Einaudi, Torino 2012, pp. 139-165.
A. C. Varzi & C. Calosi, Le tribolazioni del filosofare. Comedia metaphysica ne la quale si tratta de li errori & de le pene de’ l’Infero, Laterza, Roma-Bari 2014.
M. Ferraris, Filosofia globalizzata (a cura di L. Caffo), Mimesis, Milano-Udine 2013.
L. Caffo-S. De Sanctis, Nuovo Realismo: un bilancio in dieci punti, in «Fenomenologia e Società», Rosenberg & Sellier, 1/2014, XXXVII, pp. 104-115.
Rassegna «Nuovo Realismo»

2. ICONE, NOMI E SEGNI DELL’ORRORE: SPETTRI DI NIETZSCHE

Propedeutica a una riconsiderazione di Nietzsche che voglia prescindere da luoghi comuni, questa storia comincia con una lapide commemorativa datata «15 ottobre 1944», cioè con una anticipazione, relativa agli anni della perdita della rispettabilità, quelli di Torino cui la scritta sulla lapide si riferisce, e dove Nietzsche scrisse Ecce homo, gli anni della follia, della infermità e della morte. Si procede da qui controcorrente al fine di identificare le ragioni di un destino che diventa collettivo in quanto permeato di una tragica e unanime «volontà del nulla» quale stigma di un’epoca che ebbe in sorte l’assistere all’attualizzarsi del nome «dionisiaco». In seguito al cedimento della promessa di Dio, l’immotivazione a una vita priva di nuove fondazioni diviene generalizzata: «non solo – Ferraris scrive – un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di senso, ma la stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente. L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio, moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il nulla come lemming». È l’alternativa alla noia, leopardiana e baudelairiana, alla chandra degli uomini superflui o del sottosuolo, alla melancolia di Freud, è l’orrore autodistruttivo che aleggia in Lenzerheide da Nietzsche impresso nel Nichilismo europeo, «una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di qualsiasi messianismo o anche più modestamente di qualsiasi speranza».
Spettri di Nietzsche (Guanda 2014) è una anamnesi individuale e storica sulla quale regna una suspense reatroattiva che coinvolge sia Ferraris che il suo lettore: sulle acque plumbee del Congo di Cuore di tenebra che metaforizzano la vita di Nietzsche, e sulle tracce di Kurtz – di Nietzsche omologo, son semblable, son frère – si consuma la diffrazione dell’orrore nietzschiano. Il soggetto di questo libro è allora plurale: l’autore, che ricorda o ripete le vie percorse dal filosofo di Zarathustra, il suo oggetto (un uomo dapprima caduto al rango di un discriminato, poi salito a quello di profeta o precursore, il suo sogno inappagato di gloria e l’intempestivo e sconfinato riconoscimento), il pensiero dell’essere, la storia, e noi che viviamo ancora nella sua eco.
La forza dei luoghi (il libro è scandito da capitoli che assumono ognuno una città come riferimento, e il dramma lì depositato misto ai temi filosofici che vi si generarono) interferisce con la direzione degli avvenimenti. Geografia, biografia, biologia e storia vengono fatti interagire non soltanto per rendere l’intreccio o l’incontro tra privato e avvenimenti pubblici, visto che i dati biografici e quelli storici, malgrado il pressoché costante sfalsamento degli strati temporali, a un certo punto si divaricano, e più ci si inoltra retrospettivamente nella vita di Nietzsche più recenti sono le testimonianze addotte, puntualissime, indiscrete, compassionevoli, sconcertanti. Su tutte, la drammatica descrizione di Nietzsche da parte di Franz Overbeck nella lettera a Peter Gast. Se gli anacronismi possono anche rispondere a una strategia narrativa che si proponga di istituire intermezzi di racconto nel racconto ‒ una mise en abîme che renda tangibilmente la profondità di questa riscrittura di Nietzsche ‒, la loro funzione primaria resta quella di procurare un complesso di coreferenze volte a illuminare le ombre e le implicazioni tragiche di una esperienza individuale marcata da un coefficiente di orrore ancora riecheggiante nella storia in corso, in esiti meno drammaticamente clamorosi, ma in misura maggiore onnipervasivi: in due parole, il postmoderno filosofico con le sue conseguenze.
Conosciamo a grandi linee la biografia di Nietzsche, ma ci sorprende come nella trama di Ferraris appaia talora significativamente diversa – ad esempio, si chiarisce nel dettaglio come Elisabeth Förster non potesse nazificare proprio nulla dell’opera del fratello, contrariamente a quanto dicono non soltanto i manuali. Seguiamo l’avvicendarsi dei fatti e delle loro connessioni essenziali con i più capillari aspetti della cultura del tempo, parafrasati dall’esubero calcolatissimo delle testimonianze, dall’analisi focale e disincantata degli argomenti nodali della filosofia di Nietzsche riscontrati con le confessioni tratte dal suo epistolario. Ma sul momento non siamo troppo inclini a soffermarci sulle riflessioni di carattere strettamente filosofico, tanto questo inseguimento di un orrore e di un abisso via via sempre più definiti ci coinvolge con i suoi revenants e le sue sottoscritture, con l’inserzione dei numerosissimi appelli ai referti storici, all’arte, al cinema, alla musica, alle scienze della natura, ai corrispettivi lirici ogni volta delegati ad attestare – d’Annunzio su tutti – o a documentare una peculiare Stimmung. Sappiamo di dover tornare sulle pagine lucidissime relative al nichilismo, alla volontà di potenza, all’eterno ritorno, al dionisiaco, scoprendo che in fondo sono concetti coessenziali e aventi una origine comune, nel nome di una volontà che ha smarrito il suo spessore. Come il celebre frammento «non ci sono fatti, solo interpretazioni», il «progetto di Zarathustra – Ferraris osserva – rientra pienamente in questo clima: una religione per il mondo secolarizzato, un mito qualunque, quasi un pretesto per predicare, di certo un gesto per scacciare l’orrore un po’ più in là».
Anche per questa loro prossimità Ferraris contestualizza i grandi temi della filosofia nietzschiana in una struttura, per così dire, ritmica, espansiva, recuperandoli in successive riprese, dove variano di natura e quindi di tono, pervenendo a un livello secondo o terzo o ulteriore di visione e di incidenza, come in un climax che con progressione inversa ci trascini verso il fondo del fiume a soddisfare «una voglia di naufragio e di nulla», per poi affondare in un abisso («disperdersi, negarsi, annegarsi») infine sgravato nel compimento del «vieni, dolce morte» come nel corale di Bach, e ricomparire nel profilo spettrale in larga parte già distribuito lungo i capitoli del libro. Tutto si gioca in uno sfondo che sembra avere assorbito il potenziale sovversivo dell’eredità ideologica di Nietzsche, quasi la rovina fosse l’incarnazione della sua sensibilità malata che gli aveva ispirato l’iperbole: «io sono tutti i nomi della storia». «C’è chi è nato postumo», Nietzsche aveva scritto nella prefazione a L’anticristo. Tuttavia, se in quella sede la percezione della sua inattualità assumeva gli indeterminati contorni di un destino, di una fatalità, nelle successive contingenze storiche quel destino finì per dimostrarsi vero, a partire dalla ricezione e dalla decodifica alterna delle sue opere. Ma Nietzsche è responsabile degli esiti fattuali dell’enfasi insita in certi suoi aforismi o apologhi? E per quale motivo la sua dottrina è stata strumentalizzata ‒ assunta o biffata all’occorrenza ‒ sia dalla destra che dalla sinistra? Unicamente per la sua duttilità? Vale allora la pena di ritornare su alcune parti del libro (la suspense resta comunque, il perché ce lo ha spiegato Carola Barbero nel recente suo Filosofia della letteratura, benché Spettri di Nietzsche sia un libro di filosofia, ma non per canonem), di questa rifigurazione dalla struttura accumulatoria e oscillante tra un tempo senza fedi e scenari desolanti.
Una precisazione, fatta da Ferraris al termine di una presentazione di Spettri di Nietzsche: ciò che di Nietzsche ci affascina e ci appassiona è proprio questo tratto di anomalia, l’idea di un’esistenza fuori dell’ordinario e una dottrina talora inconclusiva che sfida il metodo della trattazione sistematica, l’extrametodica vocazione alla iperbole inesauribile e verbosa (una saturazione compensatoria delle mancanze di una vita possibile che Nietzsche ha visto solo tramontare? Ferraris non banalmente si chiede), l’aspirazione all’eclatante e insieme alla marginalità e al silenzio.
Enunciato e motivato nella postilla «L’imitazione dell’Anticristo», il modus operandi di Ferraris risponde alla sua disposizione a non deviare dalla historia, dal «contingente», dal «particolare», anziché tentarne una rielaborazione mitizzante. Interviene anche qui il realismo che trasferisce ad altro segno una mitologia esistenziale fin troppo lungamente esposta a simbolizzazioni, quel Nuovo Realismo che preliminarmente predica la letteralità e la partecipabilità di ogni argomentare. E volendo chiamare in causa una circolarità quasi necessaria che da Ecce homo ci riporta agli esordi (a uno spostamento circolare che investe anche i luoghi si fa riferimento nel paragrafo «Torino, 1888» dell’ultimo capitolo del libro, «Röcken, 1884-1900. Geologia della morale»), essa potrebbe inoltre risolversi in questa ostinata volontà di senso. Se «filologo», è stato detto, vuol dire «amico della parola portatrice di senso», e se filologici furono i primi studi nietzschiani (cui presto seguirono il distacco e una critica articolata), anche in questi termini la fine potrebbe saldarsi a un inizio già diffuso di fine. Come in queste parole di Jim Morrison, nelle quali Ferraris intercetta la zarathustriana «volontà di tramontare»: «This is the end, beautiful friend / this is the end my only friend…».

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