Bibliomanie

In Darfur. Intervista a Lorenzo Angeloni
di , , numero 19, ottobre/dicembre2009, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Mauro Conti, Stefania Sebastiani, In Darfur. Intervista a Lorenzo Angeloni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 19, no. 16, ottobre/dicembre2009

D. da dove nasce l’esigenza di raccontare questa esperienza attraverso la forma narrativa del romanzo?

R. La decisione di scrivere sulle vicende della crisi del Darfur ha da subito preso la forma del romanzo. Una decisione nata nel corso dell’ultimo anno della mia permanenza in Sudan, il 2007, quando le vicende di quella regione avevano già preso una piega negativa e, temo, irreversibile. Avevo fino a quel momento dedicato larga parte delle mie energie alla trattazione di quella crisi, cercando di capirla innanzitutto, partecipando poi agli sforzi della Comunità internazionale per arginare l’emergenza e per trovare una soluzione politica. Avevo accumulato “materiale” di tutti i tipi in argomento: i rapporti inviati al Ministero degli Esteri e quelli stilati insieme ai colleghi dell’Unione europea; gli appunti presi durante i colloqui con i principali attori coinvolti nella crisi; le impressioni riportate durante le svariate missioni compiute in Darfur dalla fine del 2003 all’inizio del 2007; le testimonianze degli sfollati, ascoltate e riascoltate così tante volte da diventare parte integrante della mia vita, non solo professionale. Il libro si è presentato come un banco di prova per testare fino a che punto le cose mi erano chiare. E forse il vero perché di questa forma narrativa ( e non un saggio o un reportage) è proprio questo: la competenza accumulata non era sufficiente a “svelare” alcuni misteri di quella crisi. E allora, meglio scrivere un romanzo, anche se liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, e contribuire a suscitare qualche domanda piuttosto che fornire risposte.

D. Durante la stesura di questo testo, quali sono stati i modelli narrativi di riferimento alla base della sua ispirazione?

R. Sono sempre stato attratto dal genere che viene efficacemente definito in inglese non fiction novel. Trovo che sia un interessantissimo modo di sensibilizzare su aspetti problematici del nostro tempo con il tocco poetico e struggente che la forma romanzo consente. Poco prima che mi mettessi a scrivere mi era capitato tra le mani il bellissimo libro di Dave Eggers, Erano solo ragazzi in cammino, ambientato negli anni di un altro dramma sudanese, quelli della guerra civile tra il nord e il sud del paese. E mi piacque molto quella ricostruzione “romanzata” attraverso il racconto di uno dei protagonisti di quelle tragiche vicende. “In Darfur” si colloca in quel solco.

D. Se è vero che un autore non si può fare mallevadore dei suoi personaggi, è altresì inevitabile proiettare una parte di sé nelle loro espressioni. Quanto dunque della sua esperienza sul field in Sudan si riflette nell’autenticità degli eventi?

R: Se guardiamo alle vicende che hanno segnato la storia politica, diplomatica e militare del conflitto e che sono richiamati nel libro, si tratta di vicende alle quali ho avuto modo di partecipare o perlomeno di assistere, anche indirettamente. Il tempo della “storia narrata” nel romanzo coincide col tempo della mia permanenza in Sudan, permanenza che mi ha anche fornito le lenti interpretative per guardare agli eventi precedenti e successivi che vengono richiamati qua e là nel testo. Tutti i “fatti” della Storia con la “S” maiuscola narrati nel romanzo sono, in questo senso, filtrati dalla mia esperienza sul field. Ci sono poi i fatti della storia, anzi delle storie con la “s” minuscola che rappresentano la materia viva del romanzo. Sul field ho incontrato persone che mi hanno coinvolto nelle proprie vicende, personali e collettive, o che me le hanno raccontate, mettendomi così a disposizione una fonte ricchissima di ispirazione dalla quale sono sgorgati i personaggi: verosimili, se non veri. E in questo senso, posso garantire per loro… Quanto, infine, alla parte di me che è riflessa nei personaggi, l’ascoltare e il tentare di capire – che hanno rappresentato una costante della mia esperienza sudanese – hanno facilitato la costruzione corale del libro, dove i puniti di visti vengono presentati senza giudizio. Anche quelli di chi ha certamente compiuto crimini efferati. La scelta di scrivere in terza persona – inserendo quindi un diaframma, quello del “narratore”, tra lo scrittore-diplomatico e il lettore – mi è sembrata coerente con questa impostazione di fondo. Certo ci sono dei protagonisti che evidentemente si fanno portatori di alcune idee “mie”, (dell’osservatore privilegiato della crisi e non dell’Ambasciatore, naturalmente), ma ho cercato di non presentarle come quelle necessariamente “giuste”…

D: Quando e in che modo si sono installate le tribù arabe in Sudan?

R. Con la lenta ma costante penetrazione di alcune tribù provenienti dalla penisola arabica, cominciata nel corso del 14mo secolo, quando diverse ondate di tribù arabe raggiunsero il territorio sudanese partendo dall’Egitto, dando il via a quel processo che portò alla progressiva eclissi dei regni cristiani medievali e alla creazione dello Stato islamico di Sennar nel Sudan Centrale.

D. Quali problemi politici, economici e religiosi ha creato la dicotomia tra tribù arabe e africane?

R. Per secoli, le tribù si sono adattate, scontrate ma anche mescolate. Poi, la drastica riduzione delle risorse dal 1985 in poi ha reso la situazione di precarietà insostenibile e le divisioni tribali sono state sfruttate e manipolate.

D. Si è dato una risposta alla domanda che si pone nel libro “perché si è voluto insistere nel lasciare la conduzione politica del negoziato all’Unione africana?”

R. Non ho risposte certe, come accennavo prima. Nel periodo in cui scoppiava la crisi del Darfur, la Comunità internazionale era completamente presa dalla crisi in Iraq. Ha fatto comodo che l’Unione africana ( che del resto da tempo veniva incoraggiata dai paesi occidentali ad assumersi la responsabilità delle crisi sul proprio continente) provasse a togliere le castagne dal fuoco, anche se era palese a quel punto, che non sarebbe stato per niente facile riuscirci.

D. E sul tema del risarcimento alle vittime cosa è stato fatto?

R. Purtroppo, nulla. La non applicazione del Darfur Peace Agreement, per i motivi spiegati nel libro, ha di fatto impedito qualsiasi tipo di risarcimento. Si continua ad assistere gli sfollati e i profughi con l’aiuto umanitario, nei campi. Nel libro ci sono diversi riferimenti al tema del risarcimento, una delle occasioni perdute della gestione di questa crisi.

D. Sul piano personale, quali risonanze psicologiche sorgono da una esperienza narrativa di questo tipo?

R. Si consolida la vicinanza, l’empatia con i luoghi e le persone di questa tragedia. Si amplia l’orizzonte dell’osservazione, come se la lente diplomatica si sovrapponesse, unendosi, a quella umanitaria, culturale, artistica. Si deposita la sensazione, scontate le inevitabili frustrazioni che situazioni del genere producono, che qualcosa può essere sempre tentato, anche nelle situazioni più difficili e drammatiche.

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