Bibliomanie

Licia Giaquinto, La Ianara
di , numero 23, ottobre/dicembre 2010, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Mauro Conti, Licia Giaquinto, La Ianara, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 23, no. 15, ottobre/dicembre 2010

Uno dei migliori romanzi che ha catturato l’interesse dei lettori lungo la stagione estiva appena trascorsa è certamente La Ianara di Licia Giaquinto, uscito da Adelphi. E’ la storia di Adelina, una sguattera, un essere da tutti ignorato, una bambina cresciuta tra i monti dell’Irpinia il cui destino, come quello della madre e della nonna, è quello della Ianara, una specie di strega, una sciamana. Si tratta di quella figura tipica del sistema animistico caratteristico dell’Italia del Sud studiata dal grande antropologo De Martino, i cui poteri, negati ai cosiddetti individui normali, sono quelli della vita e della morte, dell’evocazione delle potenze misteriose e illusorie del bene e del male. Pur essendo fedele serva del suo padrone, cieca interprete dei suoi voleri, Adelina attraversa il giorno e la notte di un mondo in dissoluzione come uno scriba egizio dedito al suo lavoro nel silenzio di una immensa desolazione, e, nonostante tutt’attorno sia rovina, odio omicida, prevaricazione, funeste apparizioni, saprà condurci ad una sorta di catarsi, ad una sorta di redenzione, di albore, preludio di una nuova creazione, di una renovatio interiore.
Il romanzo di Licia Giaquinto è una specie di sogno d’estate delicato e misterioso, traboccante di immagini preziose e desuete, di parole che nessuno di noi ormai pronuncia più, intrappolati come siamo nella fanghiglia dei vocabolari distratti o fumosi del presente. Un tuffo in un mondo sommerso, forse scomparso, dove tutto soggiace a una sorta di incantamento, a una malìa narrativa, seducente, demiurgica come lo è l’arte del raccontare della Giaquinto, che inscena demoni, angeli, credenze, amore e morte da bere come una tazza di latte caldo in una notte immaginosa.
Come in una fiaba de Lu cunto de li cunti c’è il Palazzo, fatiscente e lussuoso, e tante figure, come la povera contadina, il conte, la contessa…, ritagli di un sistema sociale ormai scomparso come le relazioni di potere di un Italia arcaica ma non per questo meno affascinante.
Si tratta di un mondo magico fatto di apparizioni, di trasformazioni, di stati della coscienza fragili e leggeri intrecciati nel tessuto di arazzo della narrazione. Una porta si apre su un’altra porta, da ogni punto si aprono una infinità di spazi e la narrazione come nelle Mille e una notte pare un intreccio interminabile, calmo e sicuro di sé, un dipinto con immagini dai contorni sfumati.
Bellissima la descrizione del Castello, della natura viva dell’Italia del Sud.
Licia Giaquinto possiede la dote principale dei grandi romanzieri, cioè la capacità di aderire empaticamente alla psicologia dei suoi personaggi, assumendone il carattere, aderendo alle pieghe della coscienza, i labirinti immaginativi, alle finalità recondite, dove abitano gli amori incestuosi, i sentimenti stremati, stressati, avvampati, torturati, portati al parossismo come le corde di un violoncello sotto una mano inesperta e malinconiosa.
In ultimo, non bisogna mancare di ricordare che questo testo, come ogni grande testo Adelphi, si avvale di un pregio particolare: è frutto di grande cura editoriale, linguistica, tipografica, la cui confezione cartacea aggiunge alla lettura un piacere ulteriore, sempre più raro, al giorno d’oggi, per gli appassionati della lettura.

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