Bibliomanie

L’Italia di metà Ottocento fra animose utopie e distopie patenti – notabilati, massoneria, i Mille e altro
di , numero 59, giugno 2025, Note e Riflessioni, DOI

L’Italia di metà Ottocento fra animose utopie e distopie patenti – notabilati, massoneria, i Mille e altro
Come citare questo articolo:
Luca Petroni, L’Italia di metà Ottocento fra animose utopie e distopie patenti – notabilati, massoneria, i Mille e altro, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 16, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.13012

Parte prima1

Premessa

Il Congresso di Vienna, come si sa, aveva assicurato la re-intronizzazione ai sovrani spodestati dall’armata napoleonica; inoltre, gli accordi sottoscritti nella capitale imperiale avevano prospettato, in Italia, la ridefinizione dei confini tra i Ducati di Lucca, di Parma, di Modena e del Granducato di Toscana. Tutto ciò, ovviamente, in perfetta logica Ancien Régime: senza cioè voler considerare l’esplicita contrarietà di alcune popolazioni alla loro sottomissione al repressivo Duca di Modena. In tale drammatica congiuntura, non erano certo mancati moti insurrezionali perlopiù aspri e cruenti, che erano stati repressi solo tramite il duro intervento delle truppe estensi, naturaliter affiancate da quelle austriache.
Il Ducato di Modena era quello che più aveva beneficiato di questi accordi: sia nei confronti del Ducato di Parma e Piacenza, sia nei confronti del Granducato di Toscana il quale non comprendeva l’alta Valle del Serchio (Garfagnana) né una parte della Valle del Magra e dell’Aulella (Lunigiana) – dove la cittadina di Fivizzano, da secoli collegata per cultura e commerci a Firenze, aveva manifestato tramite perentori moti, poi repressi dall’Austria, tutta la propria insofferenza verso il reazionario Francesco V e l’antiliberale corte di Modena –, né l’ex Stato di Massa e di Carrara, territori assegnati al Ducato di Modena dal dettagliato Trattato di Firenze (1844), meramente attuativo, peraltro, degli accordi viennesi.
Suddetto Congresso aveva certificato altresì l’esistenza delle cinque effettive superpotenze europee, sulla base delle rispettive dimensioni territoriali, demografiche, militari ed economico-finanziarie: l’Austria, la Francia e la Gran Bretagna, la Prussia e la Russia. Mentre la Spagna e la Turchia, ormai in crisi e indebolite, consentivano a Londra e Parigi di guardare al Mediterraneo come a una “regione” sudeuropea e/o nordafricana ove espandersi o limitarsi reciprocamente.
Rispetto a questi Stati, gli Italiani – e, a fortiori, l’Italia – risultavano intesi dagli ambienti politici, finanziari e diplomatici soltanto come abitanti della penisola; siffatta denominazione era percepita, sino a metà Ottocento – ovvero, più o meno, ai tempi della guerra di Crimea –, come un’espressione geografica per indicare il pur glorioso territorio ubicato al centro del Mediterraneo, non già come una diffusa e radicata identità nazionale e politica.
Tuttavia, Francia e Inghilterra avevano cominciato a ipotizzare la penisola italiana anche quale entità potenzialmente idonea a divenire sempre più rilevante per i loro interessi. Al riguardo, si prospettava un futuro mercato di 24\25 milioni di abitanti, nel 1853 non ancora censiti con precisione: di questi circa 9 milioni nei territori borbonici, 4,5 in quelli sabaudi, 5,2 nel Lombardo-Veneto, oltre 3,2 nei domini ecclesiastici, 1,8 nel Granducato di Toscana e circa 1 milione complessivamente nei Ducati di Parma e di Modena.
In effetti, il commercio internazionale di prodotti agricoli o manifatturieri della Penisola era in aumento e ancor più la sua ormai evidente rilevanza strategica e militare nel Mediterraneo. In merito, basti qui ricordare la progettazione, la costruzione e il controllo del Canale di Suez, inaugurato il 17 marzo 1869, dopo oltre trenta anni di progettazioni italo-francesi, iniziali interventi realizzativi poi sospesi, dieci anni ininterrotti di lavori esecutivi e di sistematica concorrenza politica, finanziaria, diplomatica e militare tra Francia e Gran Bretagna. Il primo progetto risaliva a Nerone; poi, durante il Cinquecento, il secondo, ideato dalla Repubblica di Venezia, non fu realizzato poiché troppo impegnativo finanziariamente e tecnologicamente. Infine, quello ottocentesco dell’ingegnere francese Talabot, quello inglese di Stephenson, espressione dei contrapposti interessi commerciali verso l’India dell’Impero britannico, e infine quello del progettista italo-austriaco Luigi Negrelli, perno pluridecennale per la realizzazione del Canale, oltreché del costruttore francese Ferdinand de Lesseps e del governo egiziano.

Cenni sul contesto italiano ed europeo

Le conoscenze sulle condizioni socio-economiche rilevabili a metà del 1800, in quasi tutti i territori degli stati italiani preunitari, erano assai scarse; infatti, spesso e prevalentemente, risultavano reperibili nelle annotazioni dei viaggi effettuati da ambasciatori, da aristocratici, da militari o da funzionari e dirigenti pubblici, da imprenditori o dai notabili italiani e stranieri: si allude ai cosiddetti possidenti immobiliari, terrieri o edili o meri ereditieri, nonché ai beneficiari di posizioni di vantaggio, in quanto concessionari di beni o servizi statali. Vanno altresì aggiunti coloro che potevano affrontare, senza troppi assilli finanziari, uno spostamento per motivi politici, amministrativi, culturali o per altre finalità d’indagine o di svago nelle diversificate città e regioni italiane, che erano tanto apprezzate da tutti (o quasi) poiché non risultavano mai monotone, ripetitive, noiose per architettura, arte, cibo e paesaggio: esse sembravano “quasi un’Arcadia” – come affermava con lucido trasporto il poliedrico, nobilissimo romantico, nonché politico moderato, Alphonse de Lamartine.
La penisola italiana, inoltre, stava cominciando a migliorare i propri prodotti agricoli, la produzione tessile nonché quella meccanica; questo progresso risultava ormai incrementale nel triangolo composto da Torino, Milano, Genova, nonché in fase di sviluppo in larga parte del centro-nord per quantità e qualità. La situazione risultava assai diversa, invece, a sud delle Marche, della Toscana e dell’Umbria: difatti, i territori centro-meridionali dello Stato della Chiesa e quelli del Regno delle Due Sicilie apparivano diffusamente molto più arretrati.
In merito, il riservato ma esplicito barone Bettino Ricasoli – poi divenuto primo ministro per la Toscana e in seguito per il Regno di Sardegna – durante un suo viaggio privato, intrapreso nel 1853 in Campania e a Napoli, aveva evidenziato la bellezza e la ricchezza dei luoghi; ma, altresì, la dissennata amministrazione di quel Regno da molti valutata incapace di attrarre investimenti, malgrado la ricchezza di prodotti e di potenzialità.
Lo stesso toscano – fisiocratico e mercantilista, massone e liberale moderato, appassionato di chimica e giornalista – annotava amaramente: “una milizia tremendamente cupa e furibonda; una armata costosa per abbigliamento ed equipaggiamento; una struttura amministrative inefficiente, corrotta e molesta assorbono o paralizzano” le energie “di un sistema economico arretrato e protezionistico”. Ricasoli avrebbe assunto la carica di primo ministro del Regno d’Italia, dal giugno 1862 al marzo 1863 e nuovamente dal 20 giugno 1866 al 10 aprile 1867 . Nei medesimi anni, il grande Gladstone – in viaggio nei territori napoletani – scriveva a G. Gordon, Primo Ministro inglese, in termini simili e favorendo l’ampia diffusione di tali sue missive (e A. Dumas, analogamente), benché esse non sempre fossero adeguatamente documentate.
L’immagine complessiva percepita sull’assetto del Regno delle Due Sicilie risultava negativa ed era imputata alla ignavia della popolazione, all’apatia dei nobili e dei benestanti, alla ottusità della corte, alla attività statale rinunciataria e opprimente del regime borbonico; giudizio, questo, assai diffuso tanto fra gli oppositori meridionali quanto dal ceto benestante del centro-nord, prevalentemente unionista ma soprattutto liberal-conservatore.
In effetti, il sillogismo “governo borbonico incapace e comportante la corruzione, destra liberale nazionale onesta e promotrice dell’elevazione civile ed economica della popolazione, quindi sicuro e generale miglioramento delle condizioni di tutti” era radicato anche nella mentalità di quel quasi ascetico massone toscano. Suddetta convinzione politico-economica era altrettanto riscontrabile fra bancari, imprenditori, possidenti, nobili progressisti, commercianti, docenti, funzionari e artigiani sempre più numerosi nel centro-nord italiano e determinati a liberarsi da ogni vecchio governo. Fra questi, molti manifestavano o esaltavano la proprietà privata, la imprenditoria individuale, ogni attività lavorativa (non sottomessa) come valori antitetici ai privilegi “Ancien Régime”, oltreché quali valori-cardine di ogni progresso economico; questo, inoltre, ottimisticamente presunto dai medesimi in costante espansione e del quale tutti avrebbero automaticamente beneficiato. Convinzione consolidata e proveniente dalla Francia e dalla Gran Bretagna, i due Stati dai quali i cittadini più vivaci, appartenenti al ceto medio o altolocato, erano quasi tutti culturalmente o commercialmente coinvolti.
Si segnala l’informale auspicio inglese, peraltro ampiamente diramato – perciò percepibile quale larvata minaccia – in occasione dei plebisciti organizzati sull’annessione in Emilia e Romagna al Regno di Sardegna (voti favorevoli 426.006, contrari 756, nulli 750), nonché ai notabili del Granducato, sollecitati a votare e far votare per l’unione allo Stato Sabaudo, anziché per il regno separato; altrimenti, l’olio, il vino o l’artigianato e i tessuti toscani avrebbero potuto non essere più acquistati per il mercato britannico. I toscani maschi votanti al plebiscito erano risultati essere circa 1\4 dei cittadini residenti (allora 1.806.940); infine i voti, espressi tramite schede ma palesemente, sull’aggregazione al Regno di Sardegna sarebbero risultati: favorevoli 366.871, contrari 14965, dichiarati nulli 4949.
Una simile, ottimistica convinzione si rivelerà ben presto infondata; anzi, la necessità di una analisi più complessa e approfondita sul contesto sociale, culturale, economico e infrastrutturale avrebbe cominciato a emergere prima del 1860 e, in maggior misura, nei decenni successivi; tuttavia, malgrado la parziale ma rilevante unificazione italiana già realizzata, l’intenzione di accelerare lo sviluppo produttivo – comparato ancora con gli Stati europei più avanzati – aveva preso il sopravvento negli ambienti istituzionali, imprenditoriali, militari e finanziari rispetto al soddisfacimento delle primarie necessità della numerosa popolazione meno abbiente o addirittura misera.
Accenniamo, dunque, al panorama interno e internazionale, cominciando dal secondo aspetto, poiché estremamente rilevante, nonché incisivo, riguardo alle potenziali vicende italiane. Quantunque giuridicamente barcollante, per più versi fragilissima e, talora, strapaesana tout court, la monarchia aveva assunto, difatti, una posizione e una rilevanza strategiche: per Napoleone III che ambiva a creare tre regni italici affidando rispettivamente ai suoi prossimi o ai Borbone il Meridione con o senza la Sicilia, al Pontefice il Centro e ai Savoia il Nord; ovviamente, tutti satelliti della Francia; per l’Impero britannico che era propenso piuttosto a una Italia unita, affidabile e rilevante nello scacchiere europeo come in quello afro-mediterraneo, avente un ruolo di piccola potenza locale con lo scopo di limitare l’espansionismo francese verso sud; per l’Impero russo, invece interessato ad una conferenza internazionale dedicata alla “questione italiana” da risolvere pacificamente anche nell’interesse dei sovrani reintegrati nonché, al contempo, a indebolire l’Impero turco-ottomano; per gli Imperi centrali, e in particolare per quello austro-ungarico, interessato a tener sotto controllo gli staterelli e i loro sovrani ‘restaurati’ in Italia, oltreché a proteggere e potenziare le radicate, ramificate, influenti autorità vaticane, magari anche evidenziando loro il rischio dell’incremento del protestantesimo o prospettando uno scisma della chiesa cattolica nei territori imperiali.
Accenniamo dunque alla “Questione Romana”, cioè al recupero di Roma, ritenuta quale capitale naturale della improcrastinabile unità italiana; si trattava, come noto, di un convincimento condiviso dalla maggioranza delle variegate componenti borghesi, da alcune aristocratiche, da qualche minoranza cattolica e da tutte le logge e correnti massoniche di allora, riemerse e assai diffuse in molti territori italiani. Queste ultime – composte da ex carbonari, da liberali, da perseguitati dei regimi polizieschi preunitari, da socialisti, da repubblicani, da radicali, da monarchici, da unionisti oppure da federalisti – si contrapponevano, in blocco, all’influenza clericale nonché all’esistenza del potere temporale pontificio. Il territorio gestito dal potere ecclesiastico era descritto in condizioni all’epoca accettabili da Bologna a Rimini, ad Ancona, a Perugia, mentre risultava in condizioni socio-economiche sottosviluppate e gestionalmente semi-barbare nella parte centro-meridionale (dal Piceno, a Orte sino a Gaeta): territorio montano oppure paludoso e malsano, infestato dalla malaria e dai banditi, con la pastorizia quale fonte economica primaria per la sopravvivenza2.
In effetti, il conflitto sostanziale fra la Libera Muratorìa e la Chiesa cattolica era ormai emerso diffusamente in Italia; inoltre, esso era ormai valutato quale strumento politicamente sfruttabile agli occhi di tutte le diplomazie europee. Nello specifico, a quelli del governo britannico: da secoli protestante, pertanto non timoroso dell’eventuale reazione di una parte della popolazione cattolica, peraltro minoritaria ma fedele alla corona britannica; anzi, la fratellanza massonica era ampiamente diffusa addirittura nella cattolicissima Scozia, le cui logge avrebbero sostanziosamente contribuito al finanziamento della spedizione dei Mille.
La Curia romana sospettava, ovviamente e motivatamente, l’intento sabaudo e britannico di sopprimere lo Stato della Chiesa e il potere temporale dei Papi; ancor più, quasi certamente, temeva la concorrenza al suo consolidato primato culturale e spirituale esercitato, da secoli, sulle coscienze e sulla mentalità collettiva nella Penisola, ma altresì in molte corti, regioni e nazioni europee. Il Papato era tuttavia protetto, fra il 1850 e il 1870, anche da Napoleone III, il quale, benché legato alla laicissima e patriottica Massoneria del G.O. di Francia, era tuttavia condizionato dal potente partito cattolico francese, allarmato dalle mire sabaude su Roma. Questa era poi stata assalita e occupata i 20 settembre 1870 dall’esercito sabaudo-italiano, quasi immediatamente dopo la catastrofica sconfitta subita da Napoleone III contro l’esercito prussiano, affiancato dalla Confederazione tedesca del 1867 e dal Regno di Baviera.
L’Armata prussiana, infatti, aveva annientato quella francese il 2 settembre 1870 a Sedan; conseguentemente Napoleone III aveva dovuto chiedere, invece, l’armistizio ed era stato fatto prigioniero, mentre a Parigi il suo governo era stato travolto da un’incruenta quanto rapida rivoluzione; come che sia, il 4 settembre Napoleone III era già stato deposto da un nuovo governo che aveva proclamato la Repubblica. Mentre, dopo la vittoria dell’esercito di Guglielmo I, l’unificazione tedesca si sarebbe concretizzata nell’Impero tedesco proclamato sotto la guida della Prussia, il 18 gennaio 1871.
Il Papa aveva reagito, in assenza di un supporto austro-ungarico, tramite le proprie limitate risorse militari (un quarto di quelle piemontesi) e poi minacciando una scomunica, prospettata verso chiunque avrebbe dato l’ordine di cannoneggiare le truppe papaline o le mura di Roma. Non a caso, Cavour e Vittorio Emanuele II, forse temendo i prevedibili scrupoli degli ufficiali cattolici rispetto alla scomunica di Papa Pio IX, avevano posto al comando di ogni divisione del regio esercito italiano un generale strettamente legato alla corona sabauda oppure, come Nino Bixio, notoriamente massone e radicalmente anticlericale. Questo ordine era stato comunicato, infine, dal generale Raffaele Cadorna liberale ma cattolico, però affidandolo al valido ufficiale Giacomo Segre – liberale ma ebreo – che lo aveva trasmesso agli artiglieri della sua batteria, posta davanti alle mura aureliane presso Porta Pia, i cui cannoni avrebbero aperto la breccia attraversata poi da bersaglieri e da fanti dell’esercito sabaudo.

Cavour e la Massoneria

Ulteriore aspetto problematico per il sovrano piemontese, nei rapporti oltremodo conflittuali con la Chiesa cattolica, era costituito dai legami permanenti fra il Papato e i vari sovrani spodestati (peraltro senza alcuna preventiva dichiarazione di guerra da parte di Vittorio Emanuele II), i quali traevano origine o si erano consolidati, da secoli, tramite i vari Papi. Infatti, questi sovrani avevano ricevuto la bolla di investitura come Duca o Granduca da chi sedeva, all’epoca, quale regnante sulla cattedra petrina; pertanto – contro la politica cavouriana – essi avevano protestato insieme all’Austria e, difatti, “protestò quasi tutta l’Europa, ma nessuno si mosse e un Regno dell’Alta Italia, di 11 milioni, fu fatto”3 in pochi mesi.
Contro questi sovrani, Vittorio Emanuele II e il Conte di Cavour avevano utilizzato l’esercito, la diplomazia oppure quei sodalizi professionali più collaborativi politicamente, oltreché più diffusi o dominanti culturalmente; in particolare, le logge massoniche: più spesso filo-britanniche che filo-francesi, non di rado filo-sabaude; tuttavia disposte a considerare la laicità e la unità dell’Italia come obiettivi prioritari, anche quando i propri affiliati si erano dichiarati inizialmente mazziniani o radicali. Perciò, in Stati assolutistici, antiliberali e repressivi – come il Ducato di Modena, lo Stato delle Chiesa e il Regno delle Due Sicilie – chi risultava essere affiliato a una loggia massonica o semplicemente sospettato di essere stato un “carbonaro” sarebbe rientrato fra i perseguitati della polizia. Per questo motivo, l’istituzione massonica e ogni suo affiliato apparivano quali potenziali rivoluzionari; pertanto, avevano l’esigenza di limitare o evitare qualsiasi correlata manifestazione in luoghi pubblici, o con persone non pienamente conosciute come affidabili.
La Libera Muratorìa era inoltre valutata in modo contrapposto dagli esponenti reazionari rispetto a quelli liberali: vista con sospetto dai primi, a causa della loro mentalità, che tradizionalmente affiancava trono e altare; apprezzata viceversa dai secondi, a causa dell’affinità culturale sul liberalismo, sul multiculturalismo, nonché sulla insofferenza verso le autorità cattoliche.
Basta, infatti, comparare i dati sulla insussistente istruzione generale riscontrabile nelle popolazioni italiane (talvolta la seconda elementare o, più spesso, l’analfabetismo) rispetto a quelli rilevabili all’interno di questa “fratellanza iniziatica” (tutti i “fratelli” risultavano capaci almeno di leggere, scrivere e computare; inoltre, erano debitori della cultura promanante dai legami con francesi e con inglesi, spesso protestanti) – zeppa di diplomati e addirittura di laureati – per capire uno dei motivi che avevano indotto Cavour e i suoi Ministri a puntare su tale istituzione; infine, essa era più presente in quasi tutte le regioni storiche italiane (Campania, Emilia, Puglia, Romagna, Sicilia e Toscana) e prevalentemente favorevole all’unificazione sotto le monarchia sabauda oltreché, di solito, radicalmente contrapposta al clero cattolico dogmatico e ai sovrani assolutistici. La fratellanza dei “liberi muratori” risultava ovunque in fase di espansione per la progressiva presenza nei territori italiani o per il numero degli affiliati.
Ogni loggia era tendenzialmente pluriclasse poiché asserente il principio di eguaglianza formale e perciò aperta ai diversi ceti sociali, almeno all’interno delle logge, indipendentemente da titoli nobiliari, culturali, censitari; unico doppio criterio richiesto agli aspiranti era quello di risultare uomini liberi (anche finanziariamente) e di buoni costumi. Infatti, poiché in ogni loggia i massoni si riunivano allo scopo di costruire un tempio architettonico interiore e poi conseguentemente sociale – “giusto e perfetto”, almeno negli intenti… – la Massoneria tendeva ad accogliere e a perfezionare chiunque fosse interessato a un cammino iniziatico finalizzato a un miglioramento personale, all’armonia costruttiva materiale e relazionale, nonché alla fratellanza universale.
Inoltre, essa risultava ovunque pluriconfessionale, poiché credente nell’esistenza di un unico Grande Architetto dell’Universo o, in altri termini, di un Ente supremo potenzialmente recepibile da ogni religione monoteista. Ancora, le discussioni sulla politica e sulla religione non avrebbero dovuto svolgersi nelle logge, giacché ciascuno avrebbe dovuto ammettere qualsiasi convinzione ideologica o teologica di ogni altro “fratello”; infine, ogni affiliato avrebbe dovuto rispettare le autorità e conformarsi alla legge dello Stato in cui si trovava.
Certamente, tutte le logge proclamavano e applicavano i comuni principi massonici (libertà e pluralismo di pensiero, uguaglianza almeno formale al loro interno, rispetto delle parole altrui, assenza di discriminazioni dovute a differenze di classe e, talvolta, sostegno reciproco e disinteressato); esse detenevano segni, parole e rituali propri correlati alla simbologia attribuita agli strumenti lavorativi dalla muratorìa tardo medioevale, ovvero alla tradizione orale oppure ricavate da testi criptici non sempre adeguatamente cogniti né correttamente tradotti dall’inglese o dal francese. L’incertezza dominava altresì sugli iscritti alle varie logge, sulla correttezza gestuale, sugli strumenti simbolici al contempo architettonici e spirituali, sullo abbigliamento, sui riti e sui movimenti nei templi. Al riguardo, una ricerca di Aldo A. Mola ha ricostruito – concentrandosi, “prove provate” alla mano, sulla Massoneria di metà Ottocento – diecine di massonerie, di ordini, di accademie massoniche (di cui alcune ammettevano le donne!) e oltre 1400 gradi rituali, definiti dall’insigne studioso strabilianti per forza immaginifica ed estrosità4.
L’aspetto esoterico non risultava dunque esclusivo né sempre prevalente all’interno dei templi massonici. Al riguardo, si deve considerare che alcune logge erano legate al nucleo toscano di Lucca e Firenze connesso alla Loggia madre di Londra sin dal secolo precedente, mentre alcune altre, liguri o piemontesi, erano legate alla Francia, a seguito dei secolari rapporti con Torino. Inoltre, le logge presenti in Italia erano ancora prive di un Grande Oriente nazionale, pertanto non facevano ancora capo a un’organizzazione gerarchizzata idonea ad accorparle e coordinarle. Tale condizione, dunque, le rendeva più facilmente gestibili dalla crescente influenza del Governo piemontese; così, il Conte di Cavour aveva mirato a ricollegare le logge più aggreganti, affidabili culturalmente e operative in senso esoterico-speculativo, anche e soprattutto a fini economici, finanziari e politici.
Anche a causa di questa situazione favorevole, Cavour aveva affidato a Livio Zambeccari e Felice Govean il compito di rintracciare e riunificare le varie e disperse logge. Il primo – militare di carriera, repubblicano, compromesso nei moti carbonari del 1821, poi massone – è uno dei fondatore della loggia Ausonia, l’8 ottobre 1859, a Torino, che era dichiaratamente operativa per sostenere l’unità italiana sotto i Savoia. Zambeccari risultava altresì utile a Cavour per costituire un Grande Oriente in Italia, cioè un’istituzione autonoma da quella francese, anche per sottrarre la rinascente Massoneria italiana all’influenza di Giuseppe Garibaldi, un’icona indiscutibile del Risorgimento, ma difficilmente controllabile finanche dalla stessa Fratellanza (lui, a esempio, mentre era Gran Maestro, aveva già aperto le logge alle donne). Il secondo era il direttore della Gazzetta del Popolo di Torino; popolo da intendere in un’accezione socialmente restrittiva: i cittadini aventi diritto ad esprimere il proprio voto, in occasione delle elezioni politiche del 1861, erano stati conteggiati in 418.690, pari ad appena l’1,89% della popolazione residente presunta.
In effetti, causa l’assenza di una documentazione sistematica e attendibile, la ricerca avveniva tramite passa-parola o contatti anche epistolari fra massoni di luoghi diversi, o reperendo segnalazioni personali di “fratelli” oramai confidenti nelle autorità piemontesi o francesi, oppure nelle logge esistenti e resesi note, comprese quelle isolate o “in sonno” o ignorate poiché operanti – in diffidente e accurata segretezza – specie nei territori modenesi, papalini e napoletani preunitari. Tuttavia, o proprio a causa di quella condizione, la disincantata intelligenza di Cavour – vero fulcro politico dell’espansionismo sabaudo nella Penisola, il quale valutava il rischio diplomatico, economico e militare, misurava da uomo di stato la probabilità e vi conformava l’azione politica – aveva ritenuto necessario rendere il Regno di Sardegna autonomo rispetto alle superpotenze di allora, e a tal fine impostare e far attivare una rete ramificata di contatti per raggiungere e coinvolgere nel proprio disegno politico i maggiorenti della costituenda Italia.
A tale scopo, per i motivi sopra accennati, lui aveva ritenuto conveniente rivolgersi all’ambiente massonico all’interno del quale i “notabili”, ma pure alcuni esponenti del ceto medio, sarebbero stati più facilmente reperibili tramite le logge, presenti e ormai rintracciabili in tutt’Italia. Le prime loro riscoperte erano rapidamente avvenute in Liguria e in Lombardia, tramite gli abituali contatti con il Piemonte; poi in Romagna, in Toscana, a Napoli, a Bari e a Palermo grazie pure a informazioni che giungevano da preesistenti contatti massonici, anche diplomatici, con le potenze europee; in particolare, con gli alleati governi inglese o francese .
In particolare, i vertici politici sabaudi puntavano su Napoleone III – più di tutti, va da sé, Camillo Benso di Cavour. Sempre nell’interesse del Regno di Sardegna e a favore dell’indipendenza italiana, questi era fiducioso tanto nel fascino che la cugina Virginia Oldoini Verasis, contessa di Castiglione – da lui appositamente inviata a Parigi dal gennaio 1856 – avrebbe saputo esercitare sull’imperatore francese, quanto nelle consolidate capacità relazionali di Costantino Nigra, torinese, nobile, giurista, filologo, volontario nella prima guerra d’indipendenza, nonché stimato diplomatico, politico e anche lui massone.
A seguito di tutte queste variegate connessioni, le riunioni in alcune logge potevano avere ad oggetto la ricerca architettonica, simbolica ed esoterica, ma altresì, beninteso, quella scientifica, economica, storiografica e filosofica. Contestualmente, però, gli affiliati prospettavano e organizzavano accordi diplomatici ovvero commerciali, cospiravano a favore dei territori italiani non ancora appartenenti al Regno di Sardegna, oppure intraprendevano iniziative aventi contenuto tecnico e finanziario, allo scopo di realizzare opere infrastrutturali come strade o ferrovie, riconosciute oramai quale indispensabile presupposto per l’industrializzazione, i commerci e le campagne militari.
A tal fine, anche i rapporti profani gravitavano sovente intorno alla Massoneria: dagli smobilizzi conseguenti alle espropriazioni contro la manomorta clericale, alla fornitura di armamenti come alla realizzazione d’infrastrutture reputate strategiche. Inoltre, la Francia configurava un mercato reciprocamente utile per il nascente triangolo commerciale e industriale fra Genova, Milano e Torino; infatti, essa interveniva anche con contributi tecnologici per promuovere moderne strutture: dalle ferrovie all’industria chimica, a quella metallurgica ed energetica, prospettando e poi concretizzando un favor verso la collaborazione economico-finanziaria pure con la crescente potenza industriale dei neo-costituiti Stati Uniti d’America.
Questo convincimento liberistico era assai diffuso nella Fratellanza italiana la quale, con i suoi 42 delegati alla costituente di Firenze – datata 24 maggio1864 – aveva fatto ritenere ormai compiuta la riunificazione della Massoneria peninsulare tanto agli esponenti politici Massimo D’Azeglio e Bettino Ricasoli quanto a Ludovico Frapolli, generale, ingegnere minerario, massone e fiduciario del Regno di Sardegna. Essi l’avevano affidata al nuovo Gran Maestro, il potente Filippo Cordova: siciliano, liberale, geologo e giurista, in stretti rapporti con Cavour sin dai moti antiborbonici del 1848, aveva prospettato una riforma agraria contro i latifondi in favore della piccola proprietà terriera, tramite l’introduzione di carta moneta e di prestiti statali garantiti dalle argenterie o dagli immobili ecclesiastici. Di conseguenza, le sue riforme erano state lungamente osteggiate dai grandi proprietari terrieri, dai nobili e dal clero, proprio nel decennio in cui l’unità italiana sarebbe stata ampiamente ottenuta.
Inoltre, l’impulso culturale promanante dalle logge massoniche verteva ancora sulla diffusione di polemiche e convincimenti anticlericali, in particolare avverso la dottrina delle autorità cattoliche, al punto che Pio IX aveva convocato il primo Concilio Vaticano, aperto il 7 dicembre nel 1869, durante il quale la costituzione dogmatica Pastor Aeternus aveva formulato due dogmi: il primato del Papa e l’infallibilità ex cathedra dello stesso.
A questo primo Concilio Vaticano si era contrapposto un convegno di studi massonici, denominato “Anticoncilio” e organizzato volutamente per l’8 e il 9 dicembre a Napoli. Tale ardita iniziativa venne sciolta dalla questura partenopea appena le posizioni repubblicane, socialiste e antipapaline avevano iniziato a manifestarsi esplicitamente e convintamente. Frattanto, Cavour mirava a consolidare un affidabile, ma insieme non soffocante, rapporto con la Gran Bretagna e con la Francia; aveva dunque virato marcatamente verso Parigi. Per quali motivi? Di sicuro per la contiguità territoriale (a onor del vero, in alcuni anni instabile) con la Francia. Certamente anche per i vincoli finanziari franco-piemontesi, semi-occulti però estremamente consistenti. In merito, un indice risulta assai significativo: il debito estero sabaudo era gestito per tre miliardi, rispetto ai nove miliardi del P.I.L., dalla Francia, ove i Rothschild – non per caso fucina del trentatreesimo grado, cioè del massimo grado massonico – controllavano l’83% dei pagamenti piemontesi in titoli di stato all’estero.
Tutto ciò accadde forse per la minore determinatezza caratteriale e politica – oramai evidente – di Napoleone III, il quale d’altronde pareva mirare a un’Italia ripartita in tre possibili regni a lui subalterni, o forse per i radicati scambi commerciali e culturali dei Savoia e del notabilato piemontese con la Massoneria francese, guidata da un cugino dello stesso imperatore dei Francesi, nonché con gli agricoltori e la già consolidata imprenditoria transalpina. La disfatta dell’”Imperatore dei Francesi” nella battaglia di Sedan del 2 settembre 1870, ad opera della coalizione guidata dalla Prussia, aveva comportato a Parigi, in meno di 48 ore, la proclamazione della Terza Repubblica, una versione politico-istituzionale certo poco incline a tutelare gli interessi e la figura del Papa-Re. Di conseguenza, il successivo, quasi immediato ingresso dell’Esercito italiano – datato 20 settembre 1870 – dalla breccia di Porta Pia nella Roma pontificia avrebbe consentito di ritenere raggiunto il duplice obiettivo proprio di due generazioni di patrioti italiani: riunire l’urbe alla nuova Nazione e dichiararla sua capitale.

La spedizione dei Mille, la Sicilia, il Meridione borbonico e Roma capitale

Indubbiamente, pure il supporto della Gran Bretagna risultava indispensabile per l’ipotizzata unificazione italiana, né era ammissibile una situazione conflittuale con Napoleone III. Non meravigli quindi la nomina di Costantino Nigra ad ambasciatore del Regno d’Italia a Parigi – dal 1860 al 1876 – e la contestuale sua nomina a “garante di amicizia” con il Grande Oriente di Francia. Decisione, questa, disapprovata stizzosamente dalla “Loggia madre” di Londra, la quale aveva appoggiato l’unificazione politica del territorio italiano sotto il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, ma aveva altresì optato per l’acquisto dei suoi prodotti (olio, vino, seta, dal Centro-Nord; agrumi, grano e zolfo dal Sud), e quindi instaurato da decenni vari scambi commerciali con i porti del Tirreno.
In un contesto così incerto e ben noto al Governo piemontese, l’iniziativa garibaldina era stata ufficialmente ignorata: Cavour, in quei giorni, si era allontanato da Torino per seguire il Re a Bologna. Nel contempo, nessun intervento della polizia aveva peraltro ostacolato – a Genova e dintorni – l’organizzazione per la spedizione dei Mille. In realtà, per Cavour la necessità di un viaggio preventivo, volto a meglio conoscere la situazione complessiva dell’isola, era stata stimata indispensabile; tale missione era stata puntualmente affidata a Rosolino Pilo, che per più ragioni anche evidenti ben conosceva quel milieu. L’intrapresa, peraltro, era stata già da mesi sollecitata da personaggi quali Mazzini, Crispi e Garibaldi, ormai convinti che il sostegno del sovrano sabaudo, nonché di Cavour, sarebbe stato indispensabile per coronare quell’unità italiana da loro lungamente bramata.
Pertanto Rosolino Pilo, insieme con il fidato amico Giovanni Corrao, era riuscito a sbarcare alla mezzanotte del 9 aprile 1860, da una paranza viareggina, in località La Grotta presso Messina; ciò allo scopo di annunciare – ricontattando celermente parecchi siciliani aristocratici, borghesi, ex carbonari, massoni, oltreché stranieri attivi nei principali porti siciliani – il prossimo arrivo di Garibaldi sull’isola.
Rosolino Pilo, fidandosi ormai di quell’equipaggio versiliese a cui erano stati affidati da fraterni amici genovesi, aveva chiesto loro di recarsi a Malta (territorio inglese), ove avrebbero trovato italiani già organizzati per consegnare alcune migliaia di fucili da depositare vicino a Marsala.
Pilo (Palermo 1820 – ivi 1860), “pecora nera” di una famiglia nobile e quanto mai tradizionalista, era massone, mazziniano e, più che tutto, aveva già animato moti patriottici in Sicilia, Liguria e Romagna; legato a Mazzini, fu poi esule a La Valletta, a Londra, infine in Toscana. Come accennato, era partito da Genova il 21 marzo 1860, di contrabbando e con l’amico Giovanni Corrao, su una vetusta paranza del signor Palmerini di Viareggio – versandogli appena 1.500 lire per compensare il rischio, insito in quella iniziativa, di essere scoperti dalle Marine o dalle Polizie di Roma o di Napoli – onde dirigersi verso la Sicilia.
Quella barca aveva fortunosamente attraccato in località La Grotta presso Messina; lì, Pilo ne era sceso per divulgare la notizia del prossimo arrivo di Garibaldi, dirigendosi armato verso Messina e poi verso il capoluogo siciliano, ove avrebbe partecipato con i Mille alla battaglia di Monreale, morendo al termine di uno degli assalti finali contro le truppe borboniche per la conquista di Palermo.
Dunque, il porto ritenuto più idoneo per un accesso dal mare dei Garibaldini era già stato individuato, almeno in linea di massima, poiché militarmente poco protetto e di più facile accesso grazie a limitate correnti e secche antistanti il medesimo. Purtroppo l’armatore della barca non era in possesso di documenti regolari e pertanto era stato costretto a risalire il Tirreno sino a Livorno. Da questo porto, Raffaello Motto si era imbarcato su una nave francese, recandosi a Genova per consegnare a Garibaldi la lettera che Rosolino Pilo aveva appositamente scritto e, quindi, affidato a lui prima di lasciare Messina, con l’incarico di contattare, appena giunto nel capoluogo ligure, Agostino Bertani. Questi era un medico milanese e, nel contempo, un patriota militante. Laureatosi e specializzatosi brillantemente a Pavia, era mazziniano e massone: aveva partecipato fra l’altro, in qualità di ufficiale medico, alle guerre d’indipendenza. Sarà poi eletto alla Camera dei Deputati del Regno, in rappresentanza della sinistra radicale e repubblicana.
Bertani aveva subito condotto Raffaello Motto a “Villa Spinola”, ove risiedeva allora il generale Garibaldi per consegnargli la succitata lettera di Rosolino Pilo, il quale aveva sollecitato Motto a fornire al Nizzardo ogni informazione che avrebbe potuto dare, purché “si decidesse a correre in soccorso dei siciliani”. Garibaldi, come noto, era indeciso se intervenire a sostegno della permanenza di Nizza nel Regno d’Italia (in occasione del plebiscito che stava per esservi organizzato), oppure se intervenire immediatamente a sostegno dell’insurrezione siciliana.
Davanti alla tacita incertezza dell’”Eroe dei due mondi”, patrioti come Bertani, Casaccia, Quadro e altri erano rimasti in ansiosa attesa, finché Raffaello Motto, latore della missiva di Pilo, aveva affermato quasi perentorio: “Generale, ci vuole il vostro nome e il vostro braccio, altrimenti i siciliani saranno tutti sacrificati”; essi, infatti, si erano attivati quali insurrezionalisti, intenzionati più che mai a liberarsi dal giogo borbonico.
Allora – Motto così riferisce – Garibaldi chiese se loro lo avrebbero seguito, nonché su quanti uomini avrebbe potuto contare. I presenti avevano subito assicurato la disponibilità di radunare celermente almeno 4 o 5000 uomini. Riguardo a tali numeri, il Nizzardo aveva precisato che un migliaio, purché validi, sarebbero stati sufficienti; in merito alla spedizione, invece, aveva sottolineato che, semmai, occorreva procurarsi altre armi, al momento non ancora reperite.
“Sentite amici, che si sappia che si va, poco mi importa, ma quanti saremo e quando si partirà non vorrei che si sapesse”, aveva infine concluso, suscitando il definitivo sollievo dei presenti. Era d’altronde già noto che l’intento di facilitare il successo della spedizione, finalizzata a staccare almeno la Sicilia dal Regno di Napoli, era già condiviso dal Governo di Torino, nonché almeno da quello di Londra.
L’intrapresa era salpata dal porticciolo di Quarto il 5 maggio 1860, però senza armi: la fornitura era stata maldestramente affidata alla dubbia e inefficiente collaborazione di contrabbandieri. I garibaldini, di fatto, avevano reperito in Italia soltanto due bastimenti, il “Piemonte” in buone condizioni e comandato da Garibaldi, e il “Lombardo”, meno efficiente, comandato da Nino Bixio, entrambi destinati probabilmente a esser perduti dopo lo sbarco: erano stati forniti dall’amatore genovese Rubattino, pure lui iniziato alla Massoneria, ma colonialista. Ancora, un limitato sostegno finanziario veniva dalle interessate imprenditorie lombarde e piemontesi, così come la fornitura di alcune vetuste armi ex-granducali (fucili ricevuti a Talamone, oltre a una colubrina e a un vecchio cannone asportati da Orbetello). Al contrario, la spedizione dei Mille era stata fortemente cofinanziata dai “fratelli” francesi e scozzesi (si parla di 4000 sterline5) e appoggiata, forse con meno entusiasmo, dal Governo inglese.
Riguardo a quella spedizione, Cavour non intendeva ostacolarla anzi, contestualmente e tramite essa, auspicava altri risultati. Primo: coinvolgere Garibaldi in quella impresa, comunque temeraria e a lui imputabile in caso di fallimento, allo scopo di acquisire la Sicilia al Regno sabaudo; secondo: distoglierlo dalla sua intenzione di ostacolare la contestuale annessione della sua amata Nizza alla Francia, come già concordato fra Vittorio Emanuele II e Napoleone III, il quale non si sarebbe poi opposto alla unione della Toscana al sovrano piemontese; terzo: l’eventuale occupazione militare anche dell’Italia meridionale, comportando in tal modo il tracollo e l’annessione del Regno borbonico a quello di Sardegna.
I Mille avevano in effetti fatto scalo in Toscana, territorio ormai sicuro per le navi piemontesi, dove avevano imbarcato un po’ di armi nonché alcune diecine di patrioti, per poi proseguire verso sud, costeggiando il territorio del Granducato fino all’Argentario e oltre: ciò allo scopo di evitare la scadente Marina militare del Papato (e dunque di escludere palesemente, agli occhi di Napoleone III, l’intento di attaccare Roma ovvero il Papa), oltreché quella ben più temibile, però (apparentemente) quasi disinteressata o disinformata, del Regno di Napoli. Al riguardo, in prossimità della Sicilia, la scorta a tutela della spedizione garibaldina non era stata effettuata dalla Marina militare sabauda, bensì da quella britannica: si può dunque presumere una preliminare concertazione politico-diplomatica, confermata in tutta la sua rilevanza dall’attracco quasi indisturbato dei piroscafi “Piemonte” e “Lombardo”, avvenuto l’11 maggio 1860 nel porto semi-disarmato di Marsala.
Qui, difatti, stazionavano da alcuni giorni due navi inglesi, ufficialmente a tutela della comunità britannica; inoltre, all’apparire di due navi militari borboniche, gli inglesi avevano segnalato la richiesta di non cannoneggiare il porto, perché erano in corso le operazioni di imbarco del loro personale. Conseguentemente, i Garibaldini – quasi tutti abbigliati in borghese, però armati – erano sbarcati senza subire attacchi, e avevano avuto modo, per di più, d’impossessarsi dell’ufficio telegrafico, ove un loro tecnico aveva tempestivamente imposto al telegrafista borbonico d’inviare comunicazioni fasulle alla sede di Trapani.
Sicuramente, diversi inglesi e non pochi siciliani – da tempo in contatto fra loro e con le autorità piemontesi – avevano preparato comme il faut un terreno sociale bendisposto verso i Garibaldini. Basti por mente alla partecipazione all’impresa dei Mille di Francesco Crispi (accompagnato dalla moglie), quale capo dei profughi e dei massoni siciliani aderenti a quella spedizione, o comunque favorevoli a un’ulteriore insurrezione contro il governo borbonico, “tanto che l’isola si sarebbe messa sotto l’Inghilterra, la Russia, la Francia, sotto chi l’avesse voluta, pur di essere levata da dipender da Napoli”6.
Gli Inglesi, inoltre, avevano fornito allo stato maggiore di Garibaldi le mappe dei siti militari di Palermo, oltreché “avvicinato” – probabilmente – almeno alcuni vertici militari borbonici, più legati alla loro Sicilia che non alla corte partenopea. La Marina militare, infatti, non era intervenuta anticipando lo sbarco a Marsala, né, immediatamente dopo, l’artiglieria si era attivata in occasione dei primi scontri sull’isola. A ogni buon conto, l’esercito delle Due Sicilie non aveva opposto una contrapposizione militare rapportata all’effettiva entità numerica delle truppe, né agli armamenti imputabili alla marina e all’esercito del Regno meridionale.
Inoltre, quel migliaio di garibaldini aveva successivamente beneficiato del supporto di almeno cinquecento Siciliani, i quali avrebbero spiegato poi di aver dovuto verificare se quelle persone appena sbarcate, cioè le stesse truppe garibaldine, avrebbero davvero appoggiato chi aveva già lottato per l’indipendenza dell’isola, nonché se desideravano opporsi al regime napoletano; oppure, se si trattava invece di una nuova operazione della polizia borbonica, finalizzata a far scendere in piazza eventuali liberali o separatisti per poi provvedere ad arrestarli.
La popolazione locale, una volta rassicuratasi in merito, aveva proceduto a fornire informazioni, cibo, armi, cure, mobili e altri oggetti – magari per costituire varie barricate. Questi aiuti sarebbero giunti addirittura tanto dal basso clero quanto dai frati. Anzi, un monaco in abito bianco – come racconta sempre Cesare Abba – aveva rivolto a un garibaldino una domanda per questo inattesa: la richiesta di combattere non soltanto contro i Borboni, ma contro ogni oppressore, clericale, laico o mafioso che fosse.
L’esercito garibaldino, intanto, aveva attaccato e conquistato la città di Palermo dopo due giorni di contrapposizione con le truppe borboniche di stanza. Né l’esercito né la marina napoletana, difatti, avevano cannoneggiato la città, in quanto la componente moderata del governo, guidata da Filangieri, aveva evidenziato, da una parte, l’opportunità di non apparire così violento nei confronti della popolazione anche agli occhi di molte corti europee, già oltremodo perplesse riguardo a quella partenopea, nonché, dall’altra, la possibilità di attaccare altrove quelle truppe in camicia rossa.
Garibaldi, dopo un armistizio su Palermo con l’incerto governo di Re Francesco II – sovrano indotto, si sa, a esser poco fiducioso verso il proprio esercito –, aveva proseguito e superato anche l’opposizione borbonica alla roccaforte di Messina. Qui, parte dell’esercito delle Due Sicilie aveva però opposto una strenua e prolungata resistenza contro le sopravvenute truppe sabaude, che avevano integrato quelle garibaldino-siciliane – specie presso la roccaforte di Messina, porto evidentemente strategico, tantopiù in quella inedita congiuntura.
L’ultima, prolungata resistenza dell’esercito di Francesco II (soprannominato, notoriamente, Franceschiello) si era dimostrata, invece, dignitosa quanto, purtroppo, sanguinosa durante l’arroccamento presso il porto militare di Messina. Le truppe napoletane avrebbero resistito in realtà sino allo stremo, malgrado l’ordine di ritirarsi sul “continente”, peraltro senza fornirne motivo ai generali posti a difesa della estrema roccaforte siciliana.
D’altronde, il cattolicissimo re di Napoli, dopo avere rifiutato accordi con Vittorio Emanuele II sulla parziale spartizione dello Stato Pontificio, continuava ad essere impegnato in cene di gala, festeggiamenti religiosi patronali o mariani, nonché in serate teatrali. Tutto ciò pur avendo ricevuto tempestive notizie sulla partenza della spedizione garibaldina verso la Sicilia, e quindi sulla avanzata nell’isola dello stesso, sostenuto dai Siciliani, da gran tempo profondamente avversi al dominio della corte napoletana.
Garibaldi era infine sbarcato, con il loro sempre più marcato sostegno, sulla costa calabrese il 19 agosto. Le sue truppe avevano anche beneficiato nuovamente del supporto della marina britannica, durante l’attraversamento dello stretto.
I Mille – divenuti molte migliaia a seguito della adesione di volontari locali, poi strutturati nell’esercito meridionale – avevano poi proseguito verso la capitale del Regno delle due Sicilie, senza scontrarsi con l’opposizione dell’esercito borbonico, specie per l’incertezza e insipienza politica del re Francesco II. Pertanto, le truppe garibaldine erano giunte a Napoli il 7 settembre 1860, malgrado la mancanza di strade postali adeguate, che nondimeno, a dirla giusta, risultavano già costruite a regola d’arte negli atti della regia amministrazione di Reggio Calabria…
Frattanto, una parte dell’esercito napoletano aveva comunque continuato – per alcuni mesi ma senza ricevere istruzioni o risorse adeguate – a opporre resistenza sul territorio continentale per proteggere il proprio sovrano.
Invero, alcuni reparti militari lo avevano seguito fino al porto fortificato di Gaeta, ove il sovrano borbonico si era asserragliato sino al 17 febbraio 1861, la data dell’armistizio da lui firmato, nonché della debellatio del Regno delle Due Sicilie. Francesco II aveva quindi dovuto riparare nello Stato pontificio, utilizzando una nave francese. L’ultima battaglia fra l’esercito sardo e quello borbonico si era svolta, in Sicilia, il 12 marzo a Messina; il tutto si concluse nella Penisola presso Ascoli, a Civitella del Tronto, il 20 marzo, ovverosia tre giorni dopo la già avvenuta proclamazione del Regno di Italia.
Per contro, Giuseppe Garibaldi era giunto in città dopo avere percorso trionfalmente l’ultimo tratto da Vietri sul Mare, vicino a Salerno, utilizzando uno dei pochi tratti ferroviari in esercizio. Sicuramente il treno costituiva, in quei tempi, un mezzo rivoluzionario, che corrispondeva a uno dei due primati del contraddittorio Regno delle Due Sicilie anche nel settore trasporti: ci riferiamo, naturalmente, al primo battello a motore endotermico e al primo treno sulla ferrovia Napoli-Portici, entrambi semoventi grazie a due motori a vapore.
La Napoli-Portici, ancor oggi tanto famosa quanto famigerata, fu inaugurata il 3 ottobre 1839. A ogni modo, il Regno delle Due Sicilie aveva ideato e realizzato la globalità dei suoi progetti ferroviari senza calcolo, né – peggio che peggio – alcuna prospettiva di sviluppo commerciale. Viceversa, nella “piccola” Toscana, le ferrovie granducali superavano i 250 km, i 900 km in Piemonte, i 110 km nello Stato della Chiesa – realizzati sotto Pio IX, il quale non considerava più la vaporiera un frutto dell’Illuminismo, né un prodotto dei liberali, né, men che meno, uno “strumento del Diavolo” (come invece la reputava Gregorio XVI), i 2000 km in Lombardia e in Triveneto. Questi erano peraltro disgiunti dai binari piemontesi, collegati soltanto tramite diligenza. perché le tratte austro-imperiali erano esplicitamente separate da quelle sabaude per motivi di difesa militare o di concorrenza commerciale.
Tecnologia nata in Gran Bretagna, in forte espansione in Europa e infine nel centro-nord italiano, ma che, nel centro-sud, rappresentava un mero orpello verso tale curiosa innovazione, indispensabile per la facile mobilità delle persone e dei prodotti, ma che quasi strideva in quei territori rispetto alle arcaiche, abituali, penose condizioni infrastrutturali.
Si cominciava allora a capire, anche da parte dei vertici politici e amministrativi sabaudi, l’importanza di acquisire tanto una cognizione meno approssimativa delle potenzialità illustrate, quanto una consapevolezza progettuale delle carenze più evidenti testé delineate: si sottolineano sia le caratteristiche territoriali sia le condizioni sociali di una Penisola appena unificata. Il tutto, incredibile dictu, era allora pressoché sconosciuto persino dalla maggior parte degli hommes de lettres del neonato Paese.
La diversità infrastrutturale, economica e culturale fra le varie regioni italiane e i rapporti tra le varie popolazioni erano invece chiari alle potenze straniere, in particolare alla Gran Bretagna: come l’avversione dei Siciliani verso i Napoletani, dei Milanesi verso i Torinesi, come la scettica autonomia dei Toscani maldisposti ad accogliere a Firenze la capitale del Regno o la marcata insofferenza dei Romagnoli verso il Papato; cosi come i pregi e i prevalenti difetti delle Corti e delle gestioni amministrative nei rispettivi Stati pre-unitari.

Cenni sulla situazione amministrativa italiana: anagrafe, trasporti, sanità, istruzione e stampa, giustizia e agricoltura

Innanzitutto, si deve riscontrare un’amministrazione statale lato sensu embrionale anche in ambiti che oggi siamo abituati a considerare cogniti e ben gestiti.
A metà del 1850, i residenti erano stimati in oltre 24 milioni, di cui quasi la metà presunti abili al lavoro. Di questi, circa 9 milioni abitavano nel Regno delle Due Sicilie, circa 4 e mezzo nel Regno di Sardegna, oltre 5 nel Lombardo-Veneto, oltre 3 nello Stato della Chiesa, oltre 1,8 in Toscana, circa mezzo milione in ciascuno dei Ducati di Modena e Parma. D’altro canto, non dobbiamo meravigliarci per questa carente rilevazione sull’intera Italia, in quanto l’occupazione effettuata manu militari dall’esercito sabaudo degli Stati della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie aveva annesso territori fra i più arretrati: neppure la superficie esatta di questi era nota, poi quantificata soltanto nel 1865 dall’ IGM, allora con sede a Torino.
La popolazione del neo-proclamato Regno d’Italia non risultava numericamente certa: l’inesistenza dei servizi demografici, in particolare dell’anagrafe civile, aveva caratterizzato le amministrazioni pubbliche sino al 1808 (riforma napoleonica, che li aveva sottratti all’esclusivo controllo dei parroci), poi la loro abolizione a causa della Restaurazione post-napoleonica, seguita da un quasi immediato ripristino, in modo parziale e differenziato da Stato a Stato (ciascuno, beninteso, caratterizzato da leggi o da organizzazioni degli uffici comunali diverse).
Si tratta, ictu oculi, di differenze rimaste in vigore anche all’interno del medesimo: tra Napoli e Sicilia, fra Torino e Sardegna, tra Firenze e Lucca etc. La registrazione anagrafica era addirittura facoltativa, ove esistente: per la precisione, essa era divenuta obbligatoria ex lege in tutta Italia solo dal 1864, beneficiando ancora delle parrocchie, in merito competenti da secoli.
La popolazione, ammontante a circa 25 milioni di residenti nel 1864, era stata poi quantificata in quasi 28 milioni in occasione del censimento (comprensivo del Veneto) datato 1870-1871: l’iscrizione dei cittadini agli uffici della anagrafe, divenuta oramai obbligatoria, aveva consentito la raccolta di dati finalmente più attendibili7. Dieci anni dopo, la popolazione italiana aveva sfiorato i 30 milioni di abitanti.
Intanto, dopo la metà del secolo, l’industrializzazione e il commercio avevano imposto, in Europa, maggiori spostamenti e la necessità per merci e persone di migliori e più rapide infrastrutture. Le ferrovie francesi sfioravano i 10.000 km, laddove quelle britanniche avevano già raggiunto il 17.000. La realizzazione delle ferrovie in Italia, allora affidate a imprese e ingegneri prevalentemente francesi o inglesi, cominciava ad assicurare una mobilità più numerosa e veloce; però esse risultavano concentrate in Lombardia, Piemonte, Toscana (il Triveneto comprendente Mantova apparteneva interamente all’Impero asburgico). Lo Stato Pontificio, invece, iniziò la costruzione delle strade ferrate grazie a Pio IX. Esse complessivamente, prima del 1860, misuravano meno di 3000 km. Per di più, esse risultavano non ancora interconnesse a causa dei confini tra i sei stati centro-settentrionali, degli interessi commerciali o militari e dell’orografia accidentata e, perciò, estremamente impegnativa.
Conviene d’altronde rammentare che le ferrovie erano risultate strategiche durante la seconda guerra di indipendenza, essendo già state utilizzate per il trasporto delle truppe; lo stesso Governo austro-ungarico aveva impostato un accordo con quelli ducali, granducale e pontificio per realizzare una linea ferroviaria in grado di raggiungere il porto di Livorno. Lo scopo? Evidentemente, utilizzarla sia militarmente, sia commercialmente, specie al fine di contrapporsi all’espansionismo franco-piemontese.
Sia come sia, il treno era ormai divenuto il mezzo del futuro, aveva entusiasmato i visionari della mobilità e del turismo, le diplomazie più lungimiranti, nonché diversi Capi di Stato e di Governo di spicco; come ben si sa, per esempio, la galleria del Frejus era stata realizzata e inaugurata il 17 settembre 1871, sulla base di un accordo tra Francia e Regno sabaudo, volto a disporre di un’alternativa al percorso già costruito in territori dell’Impero germanico o austro-ungarico per collegare Londra e Parigi all’Europa Orientale8.
Il tracciato progettato, da Milano verso Roma, era stato iniziato nel 1859; soltanto nel 1861, però, i treni avevano potuto raggiungere Bologna. I cantieri ferroviari avevano proseguito i lavori, faticosamente, verso Vergato, Porretta, Pracchia e infine Pistoia, nel 1864, ove i binari si erano innestati sulle ferrovie ex granducali – già costruite nel 1851 – per proseguire verso Firenze, Empoli, Siena (in esercizio dal 1849), Asciano (1859), Monte Antico (1872), Grosseto, Roma; si ragiona – va forse rimarcato – di un percorso utilizzato per i treni Milano-Roma dal 1872 alla fine del 1875.
Paradigmatico, a ogni modo, appare il caso di Pracchia, la cui stazione era stata edificata a 616 m. s.l.m. La ferrovia vi giungeva da Pistoia dopo aver superato, in 26 km., ben 550 metri di dislivello. Qui almeno una trentina di addetti erano stati assegnati e lavoravano giornalmente: di essi 2 macchinisti e 2 fuochisti erano a disposizione per essere impiegati nella trazione dei treni da Pistoia mediante una doppia motrice (1 in testa per il traino oltreché 1 in coda per la spinta), al fine di superare la pendenza dei binari, che aveva raggiunto il 2,4% in alcuni tratti. Il loro mestiere, dunque, doveva esser svolto in doppia coppia, perché talvolta qualcuno di loro non avrebbe potuto lavorare a causa d’intossicazione o irritazione oculare, imputabili al fumo che li circondava nelle gallerie durante la guida delle vaporiere. Inoltre, questa tratta deteneva un primato ferroviario: la prima galleria elicoidale in Europa, perciò a raggio corto e velocità ammessa inferiore ai 60 km\h; infine, questa linea sarebbe stata elettrificata nel 1927.
Alcuni ulteriori indici rivelano, a cavallo del 1860, l’arretratezza delle condizioni amministrative e sociali della Penisola. Giova probabilmente fornire, a questo punto, qualche accenno su taluni aspetti medico-sanitari. L’igiene pubblica e privata era assai trascurata, le fognature e le reti idriche risultavano spesso inesistenti o approssimative, le vaccinazioni erano guardate con diffidenza o ritrosia, gli studi universitari allora permanevano poco approfonditi, l’anestesia risultava primitiva o di fatto assente.
Da una prima indagine sanitaria, si evidenziava il tasso di mortalità alla nascita: esso superava in alcune zone il 50% post-parto per le ragazze oppure per i neonati – dunque, in buona sostanza, dalla Romagna alla Lucania, un decesso ogni due parti – a causa dell’inadeguatezza dei principi igienici, spesso ignorati anche dai sanitari o valutati sulla mera esperienza.
Anzitutto per gli uomini, la situazione non era rassicurante: la visita sanitaria per il servizio militare, divenuto perlopiù per loro obbligatorio dal 1861, aveva rilevato in alcune zone –dal Po al Simeto – che molti ragazzi risultavano inabili (sino all’85%), a causa di una alimentazione assai misera o delle condizioni di lavoro svolto in zone acquitrinose, in cave o in miniere.
A ogni modo, l’aspettativa di vita, per loro, si fermava intorno ai 30 anni; in generale, l’aspettativa media non raggiungeva i 50, mentre, per esempio, già ai tempi degli etruschi superava abbondantemente i 40 anni.
Molto arretrato, oltreché limitato ad alcune materie, il livello dell’istruzione pubblica. Al riguardo, in alcuni stati preunitari, l’analfabetismo colpiva circa l’80 % della popolazione eccetto la classe nobiliare, l’alta borghesia e, ovviamente, il clero; laddove il Lombardo-Veneto, il Ducato di Parma, il Granducato di Toscana manifestavano una situazione migliore, in primis con una alfabetizzazione più diffusa, grazie alle illuminate politiche sociali ispirate e attuate dalla Casa Imperiale asburgica e dai sovrani ad essa legati, alle diversificate attività artigianali, che stavano trasformandosi in industrie, alla gestione dei terreni in cui le innovazioni scientifiche e strumentali si stavano lentamente diffondendo, nonché al contratto di mezzadria assai diffuso in Toscana e Umbria. Queste obbligavano infatti, tanto un artigiano quanto un contadino ad assumere iniziative autonome, para-imprenditoriali, e pertanto a saper leggere, scrivere nonché “far di conto”; solitamente, anche le donne erano impiegate in aziende commerciali o paraindustriali: ne erano capaci, talvolta anche per norma giuridica, dovendo sostituire i familiari in caso di necessità.
Tuttavia, da una prima rilevazione del 1865-1866, i cittadini italiani capaci di esprimersi utilizzando un italiano corretto ammontavano al 2,5 per cento, e quelli capaci di scrivere un italiano decoroso a circa il 5 per mille.
Le scuole elementari laiche finalizzate all’istruzione pubblica erano state istituite dai sovrani italiani a partire dalla seconda metà del Settecento. In precedenza, come noto, l’alfabetizzazione risultava privata, e perciò di fatto praticata quasi esclusivamente nelle famiglie di rango elevato, ove era affidata a un precettore.
Spesso, iniziative formative erano organizzate da singoli parroci, o svolte in istituti superiori o universitari gestiti da Gesuiti (che erano giunti a imporre il divieto di lezioni in italiano), oppure da altri Ordini cattolici (i Barnabiti, poi i Salesiani), talvolta anche femminili (le Dorotee). Le scuole superiori erano rare e ubicate nelle città più popolose; l’accesso alle Università, poi, era riservato a famiglie facoltose, configurando talora un lusso culturale, concepito soltanto per i ragazzi, sino al 1875.
In Europa, la prima scuola femminile era stata fondata nel 1767 per volontà della Zarina Caterina di Russia. Nel Granducato di Toscana, intorno al 1860, gli iscritti alle varie facoltà erano circa un migliaio, complessivamente. Le scuole elementari erano pubbliche o religiose per entrambi i sessi; le superiori femminili erano state istituite da Pietro Leopoldo e affidate prevalentemente alla Dorotee. Nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie, come pure nel Regno sabaudo, l’istruzione universitaria era stata affidata ai Gesuiti, che viceversa erano stati cacciati dal Granducato di Toscana…
Contro questa clamorosa lacuna, le logge massoniche più impegnate per la diffusione del libero pensiero, avevano addirittura prospettato l’istituzione di scuole superiori e università popolari. La Libera Muratorìa – esplosa, come notorio, sotto il dominio napoleonico nel Nord Italia, in particolare a Milano, nella Napoli murattiana e nel Sud Italia – nella seconda metà dell’Ottocento si stava trasformando.
I circoli intellettuali ed elitari erano via via divenuti un luogo aperto all’accoglienza di massa per la nuova borghesia e, più in generale, per un più elevato livello d’istruzione, volto anzitutto a consentire una scolarizzazione imperniata sui principi dell’Illuminismo, divulgati in modo più o meno radicale – il tutto, beninteso, si contrapponeva alle posizioni più sterili e retrive della Chiesa cattolica.
Per conseguenza, durante il Concilio Vaticano del 1869, Pio IX aveva provveduto a rafforzare la scomunica rivolta da Clemente VII del 1731 alle associazioni segrete, nonché a rivitalizzare la lettera apostolica, datata 13 settembre 1821, con cui Pio VII aveva condannato la società “detta dei Carbonari” e, infine, aveva collocato l’autonomia simbolica, rituale ed etica della Massoneria, sempre più diffusa e interclassista, fra gli errori dell’Ottocento (il tutto era espresso claris verbis nel Sillabo, tanto esaustivo quanto famigerato).
Ciò nondimeno, sotto questo Papato, l’istruzione era stata considerata un dovere e uno strumento di formazione e di carità cristiana: a partire dal 1854, Pio IX aveva voluto rivolgerla anche ad ambiti sociali da sempre trascurati: i minori delinquenti, donne e ragazze tradizionalmente tenute lontane dalle scuole, nonché, con cura singolare, anche verso persone sordomute.
Pure la stampa e la circolazione dei giornali variavano per quantità e contenuti da uno Stato all’altro: con le notizie incentrate sulla cronaca di vari eventi oltreché pretese senza alcuna evidenziazione politica dalle corti romana e partenopea; ovviamente le correlate idee libertarie a commento quanto la diffusione dei libri erano limitatamente ammesse e sottoposte a censura; ovviamente, quasi mai ispirata alla cultura liberale.
E anche quando tale cultura appariva accettata, come in Piemonte, la censura l’ammetteva, purché contrapposta al Papato o all’Austria; era repressa, invece, quando inneggiante alla Repubblica, o quando soltanto critica o dubitativa verso i sovrani. Lo stesso D’Azeglio pubblicava a Milano, benché posta sotto le autorità austriache; l’alternativa era la Firenze granducale, ove i Lorena, legati alla Famiglia imperiale asburgica, governavano con tolleranza: non casualmente, la loro censura era assai più permissiva e indulgente di quella piemontese, pontificia e borbonica.
A Milano e in Lombardia circolavano almeno una ventina di giornali, editi regolarmente, che contenevano notizie e commenti tendenzialmente liberi; per contro, tanto a Roma quanto a Napoli ne esisteva soltanto uno: erano colmi di ragguagli su ordini o decisioni già pubblicati in atti dell’amministrazione governativa, o sui costi dei biglietti per il teatro o, ancora, sulle tariffe per i servizi di trasporto terrestre o marittimo.
Diversamente in Toscana. Allorché il granduca Leopoldo II Asburgo-Lorena era stato invitato da un suo funzionario di polizia a una minore tolleranza e a una maggiore diffidenza – soprattutto verso le riunioni tenute nei “salotti bene”, nei circoli culturali o nelle associazioni artigianali e professionali – a quello lui aveva risposto che la censura deve servire al Granduca soprattutto per verificare se il popolo è soddisfatto o scontento.
Al contrario – soprattutto nel Regno delle due Sicilie, a Modena e Stato Pontificio, ma pure in Piemonte e in Lombardo-Veneto – polizia e magistratura operavano tramite sistemi inquisitori. Sul tema oltremodo scabroso, Massimo D’Azeglio conclude amaramente: “Processi occulti, composti nell’interesse dell’accusa, impiegata la tortura morale e si potrebbe dire anco materiale, indefinita e arbitraria la definizione delle colpe, per la qual cosa l’opinione e il pensiero vengono spesso puniti come delitti di Lesa Maestà”9. Per la precisione, le attività dei poliziotti risultavano rivolte tanto verso i criminali quanto verso i liberali, mentre i magistrati erano contemporaneamente accusatori, indagatori e giudici.
Inoltre, le norme prevedevano anche tribunali riservati esclusivamente al clero e ai nobili, oppure la possibilità, per questi, di evitare la pena riscattandosi dai reati tramite un pagamento in scudi. Nello Stato della Chiesa e nel Regno di Napoli, la polizia era peraltro libera di violare il domicilio e di arrestare ogni individuo; qua capitava pure di trovare registri non aggiornati sui detenuti, ovvero di riscontrare condotte talmente violente verso i sospettati d’insurrezione politica, da indurre la polizia zarista a sollecitare il re di Napoli a ridurre la repressione contro i proscritti. In effetti, i tribunali potevano attenersi alla mera dichiarazione o alla verbalizzazione della polizia per procedere – una volta riscontrata l’identità dell’imputato e recepita la sua colpevolezza, benché meramente presunta – a ritenere i delitti come provati, nonché a far provvedere direttamente alla “esecuzione anche della pena di morte”, potendo essere addirittura “inappellabile la sentenza, immediato l’effetto”. Non per caso, l’interrogatorio era svolto a porte chiuse, senza un difensore, senza un qualche confronto testimoniale, senza specifici oneri a carico dell’accusa10 – dunque senza tutele di alcun tipo per l’imputato.
Non molto dissimile, d’altro canto, risultava il regime giudiziario nel Regno di Sardegna o nel Ducato di Modena, guidati da due corti fra le più retrive di Europa. Soltanto in ambito amministrativo, nell’asburgico Lombardo-Veneto, nel Ducato di Parma, nel Granducato di Toscana: qui, come risaputo, l’illuminato Granduca aveva abrogato la tortura e la pena di morte il 30 novembre 1786; il processo, ancora, tendeva verso una procedura garantista per gli imputati, e ai detenuti era pure riconosciuta la possibilità di lavarsi e cambiarsi ogni settimana!
Di fatto, da decenni, il Granduca Gian Gastone de’ Medici aveva disapplicato questi strumenti inquisitori e sanzionatori, aveva escluso lo spionaggio ecclesiastico e abolito de facto la pena capitale. Tale decisione era stata formalizzata dal Granduca Pietro Leopoldo, anche perché informato dell’affaire Tommaso Crudeli, giurista, letterato, massone, nonché ultimo cittadino granducale a subire un processo dell’Inquisizione cattolica (1739-1741).
Ecco i capi d’imputazione: la lettura di libri proibiti, la scrittura di testi licenziosi, l’utilizzo di un linguaggio irriverente su argomenti sacri e, ovviamente, l’adesione alla Libera Muratorìa, sulla quale, il 28 aprile 1738, era caduta la scomunica del papa Clemente XII. La liberazione era stata ottenuta soltanto dopo due anni di carcere, facilitata anche dall’appartenenza alla medesima istituzione del lorenese principe De Craon, presidente del Consiglio di Reggenza, del nuovo granduca Francesco Stefano di Lorena, del suo Capo di governo, conte di Richecourt, nonché dalla morte di quel Papa, al quale era succeduto il più razionale e bonario Cardinale Lambertini con il nome di Benedetto XIV11.
Pure la situazione economica non era caratterizzata da innovazioni. Circa le capacità produttive, in vaste zone d’Italia, anche i metodi applicati in agricoltura erano rimasti quelli tradizionali, risalenti e invariati (più o meno) dal Medioevo. In particolare nel Meridione peninsulare, e anzitutto in Sicilia, specie a causa dell’accidia, dell’ignavia, della diffidenza, della presunzione e dell’ignoranza radicate tanto fra i “notabili benestanti” quanto fra la plebe. Così, sia l’introduzione di nuovi aratri sia un nuovo utilizzo del concime avevano urtato contro un muro di disinteresse e di rigetto verso qualsivoglia desiderio di cambiamento strutturale: a ogni modo, la produttività era rimasta ferma, ora più ora meno, ad alcuni secoli prima12.
Oggettivamente, i metodi di coltivazione risultavano ancora concepiti per l’autoconsumo. Gli economisti, storici, artisti, diplomatici europei o altri professionisti avevano acquisito il convincimento negativo sull’intraprendenza dei siciliani, e lo avrebbero condiviso sino alla metà del Novecento, arrivando persino ad affermare che “la agricoltura siciliana sarebbe stata presto superata da quella nord-africana”13. In merito, l’osservazione più ampia e comparabile sull’indice della produttività nel Regno di Sardegna appariva senza dubbio eloquente: fissato 100 il reddito in Italia, risultava 210 in Francia e 260 in Gran Bretagna, malgrado il ben più favorevole clima mediterraneo della Penisola.
Soltanto il successivo impatto con la richiesta di prodotti e la concorrenza agricola di Inghilterra e Francia – le due superpotenze economiche di allora – aveva diffuso alcune innovazioni determinanti: la rotazione delle culture, la bonifica delle zone paludose, il dissodamento dei terreni incolti benché produttivi, l’introduzione di nuovi strumenti meccanici per l’agricoltura. La cognizione su innovazioni scientifiche e operative (dalle nuove risorse per concimare i terreni agricoli, ai nuovi metodi di potatura) giungeva da soggetti “di buona cultura”, spesso di formazione fisiocratica e, dunque, propensi ad applicare le più recenti tecnologie, perlopiù apprese da libri (enciclopedie, trattati, saggi mongrafici etc.) diffusi in ambito progressista, tanto liberale quanto clericale, impegnato a diffondere lo sviluppo sociale e scientifico.
Pertanto, si trattava di un milieu culturale stimolante, che si contrapponeva peraltro alla cultura della nobiltà, dei “galantuomini”, dell’alto clero, ancora dediti allo sfruttamento abituale della loro sostanze immobiliari o finanziarie, spesso d’altronde statiche e poco produttive, o di altre forme di facile guadagno.
Per di più, in genere, la meccanizzazione della produzione artigianale ed agricola, l’esistenza di fonti energetiche alternative, le normative incentivanti (o almeno non ostative), le infrastrutture funzionali agli scambi commerciali difettavano diffusamente; ancora, la localizzazione e delimitazione dei mercati, la ridotta e speculativa gestione del credito e dei capitali, la limitata circolazione e applicazione delle cognizioni scientifiche e tecnologiche, nonché la correlabile tutela giuridica configuravano una serie di gravi carenze dell’obsoleto sistema produttivo italiano. Qui basti rammentare il motore a scoppio realizzato da Barsanti e Matteucci, depositato a Firenze presso l’Accademia dei Georgofili: un’azione documentale però insufficiente per ricavarne un brevetto giuridicamente protettivo nelle grandi Nazioni europee o negli USA; analoga negativa esperienza, si sa, fu quella del telefono di Meucci.
Neppure un’adeguata e omogenea organizzazione dell’amministrazione pubblica, ovviamente, poteva dirsi davvero esistente. Il Piemonte aveva assorbito l’impostazione napoleonica, la Lombardia l’aveva subita e rimpiangeva quella intelligentemente riformatrice ispirata da Maria Teresa d’Austria; idem per la correlata Toscana lorenese, la quale si stava rivitalizzando tanto grazie alle opere pubbliche idrauliche, stradali e ferroviarie, quanto in virtù delle riforme liberali iniziate da Pietro Leopoldo e proseguite da Leopoldo II.
Ben differente, in senso negativo, la situazione nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. La loro economia era basata da secoli su una società post feudale nonché piramidale: la produzione derivava da attività agricole, silvo-pastorali, perciò statiche e fondate su modalità correlate (il latifondo, il subaffitto spesso breve, il bracciantato).

Note

  1. La seconda parte del saggio, ove si affronteranno tematiche ora più ora meno convergenti con questo testo, uscirà nel prossimo numero della rivista. A ogni modo, in quella sede si fornirà, tra il resto, una bibliografia complessiva, debitamente aggiornata al 2025.
  2. R. De Cesare, Roma e lo Stato del Papa, Milano, Longanesi, 1970, p. 298.
  3. G. C. Abba, Storia dei Mille, Bemporad, Firenze, 1923, p. 4. Circa l’effettiva posizione cavouriana, cfr. G. Pescosolido, Cavour in controluce, in “Nuova Antologia”, n. 2313, gennaio-marzo 2025.
  4. A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1992, passim.
  5. La conversione di una sterlina britannica del 1860 comportava un valore stimato in quasi 2.250 euro.
  6. G. C. Abba, op. cit., p. 18.
  7. R.D. 31 dicembre 1864, n. 2105.
  8. S. Dubois-Collet, La storia prende il treno, ADD, Torino, 2021, passim.
  9. M. D’Azeglio, I miei ricordi. Scritti politici e lettere (1867, postumo), Milano, Hoepli, 1921, p. 323.
  10. P. Colletta, Storia del Regno di Napoli, Libro VIII, Firenze, Le Monnier, 1848, p. 17.
  11. Cfr., ex multis, la monumentale quanto egregia M.A. Morelli Timpanaro: Tommaso Crudeli. Contributo per uno studio sull’Inquisizione a Firenze nella prima metà del diciottesimo secolo, Firenze, Olschki, 2003, 2 voll.
  12. G. Welz, Saggio su i mezzi da moltiplicare prontamente le ricchezze della Sicilia (1822), a cura di F. Renda, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1964, passim.
  13. D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna (1968), Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 536.

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