Bibliomanie

Morte dell’archetipo e resistenza del senso. Un’estrema difesa del simbolico
di , numero 59, giugno 2025, Note e Riflessioni, DOI

Morte dell’archetipo e resistenza del senso. Un’estrema difesa del simbolico
Come citare questo articolo:
Sarah Tardino, Morte dell’archetipo e resistenza del senso. Un’estrema difesa del simbolico, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 15, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.13010

I
Tra le tavole della legge e la scrittura del perdono

Col dito in terra scavi l’amore rappreso,
scrivi del malinteso quanto non si può intendere,
allontani la morte dall’arreso, l’arreso dalla morte.
Lì non funziona più l’alfabeto, ma quanto della parola
sottostà al segno che indica, ma non più gli orizzonti,
le cose o le persone che sono o che non sono.
Rimandi la leggenda all’illeggibile:
è che è lì che nasce
la chiarezza suprema dell’equivoco,
il chiarore che limita le ambasce
trattenute, quasi orlo illuminato
del bicchiere posato poco fa
terminato il festino, allontanato
il brillio della stella, il morso alato
del bacio che sembrava alfine schiudere
labbra su labbra per dissigillare
la voce dell’enigma, le sue rare
occhiate troppo alte, troppo intrepide,
la trappola di pietra non ancora
fattasi rena umida di mare1.


Già il titolo di questa poesia di Piero Bigongiari (1914-1997) pone il lettore a un’altezza vertiginosa. Da quel trampolino sospeso sull’orlo dell’assoluto è possibile compiere il salto nella più intima e sconosciuta forma d’intelligenza: l’interiorità. Oppure indietreggiare nel ridicolo, nel grottesco, nella rete di contenimento del sarcasmo: rassicurante trappola dell’uomo postmoderno. L’identità dell’uomo-merce del Millennio nascente è certo connessa al grottesco della mercificazione, al ridicolo della sarcastica contrattazione.
Il grottesco, il ridicolo e il sarcastico sono, essi stessi, il tramite della mercificazione dell’uomo: una contrattazione al ribasso che ha per vittima il “senso”. La conseguenza più evidente di queste pratiche commerciali è la morte dell’allegorico, dell’ironia e del sacro. Più precisamente si assiste ad una esposizione in forma cadaveris del “senso” nella sua dimensione ontologica di “scopo”. Il campo d’azione nel quale il rito di mummificazione dell’essenza è maggiormente evidente è quello dell’arte, cioè della rappresentazione del senso. Questa processione macabra ruota attorno ad una materia postulata come immortale che si insiste, sotto l’effetto di allucinazioni, a ritenere viva senza essere più in grado di percepirne la decomposizione storica.
Il soave profumo spirituale del nardo, che emanava dalla prossimità della morte, è stato sostituito dal lezzo di un’ostentata, falsa, immortalità.
Chi ha l’ ardire di scrivere o pronunciare simili parole al cospetto di platee inebriate di futuro e virtualità sempre più realistiche, di inarrestabili progressi, attira il boato del disgusto e il sibilo dell’ascia del boia sul proprio capo. Tuttavia questi suoni tremendi non hanno, nei secoli, mai impedito alla Verità di essere pronunciata da coloro che erano chiamati a farlo. La Verità è una virtù crudele2. I profeti, nella letteratura e nelle mitologie ne sono investiti di Verità e depositari. La Verità per loro è un dovere al quale non riescono a sottrarsi, anche se sanno che la pagheranno cara: tutti – da quel profeta di sciagure dell’Iliade che predisse le “divin quadrella” sull’esercito greco, alla povera pazza Cassandra sul fronte opposto; al miserabile Geremia, che è forse il più autocosciente della disgrazia che grava su di lui, e che tuttavia, meglio di chiunque altro, spiega perché non riesce a far a meno della tremenda virtù del dire il vero.
La Verità è un virtù vicina al vizio, nelle modalità di espressione, e porta ad una veloce e cruenta fine. Una puntigliosa descrizione dei pericoli corsi dai veraci è splendidamente espressa in un saggio di Gianni Barbiero3 a proposito del profeta Geremia.
L’ultima confessione di Geremia è un lamento contro Dio, come spesso se ne incontrano nelle scritture sacre di Israele, perché a coloro a cui Dio affida un compito immane, concede, per contratto, il diritto al mugugno4. Si lamentano l’innocente Giobbe e il disertore Giona, e Geremia non è da meno: “Mi hai sedotto, Dio5, e io mi sono lasciato sedurre,/ mi hai sopraffatto e hai prevalso”. Barbiero, che è autore e traduttore del testo, si sofferma sui due termini ebraici usati da Geremia per descrivere il suo rapporto con Dio: “il verbo iniziale pātah, descrive la vocazione di Geremia come una seduzione. Qualcuno, un adulto, approfittandosi della giovane età di una ragazza, la trae in inganno fingendosi innamorato di lei, in realtà pensa soltanto ad abusarne […]. Dio attrae a sé il giovane Geremia facendogli provare la dolcezza della sua vocazione. Ma è un inganno. Il verbo che segue, hāzaq, esprime la violenza, il sottomettere qualcuno più debole obbligandolo a fare quello che lui non vorrebbe”6. E Barbiero cita Abraham Jeoshua Heschel a conforto della sua tesi, che conferma come il significato giuridico dei due verbi nella Tōrāh sia “sedurre”, sedurre una donna consensualmente, e “sopraffare” un vero e proprio uso della violenza.
La Verità, irrefrenabile pulsione autodistruttiva che anima Geremia, ha quella particolare sfumatura di dottrina della sincerità a cui Andrea Tagliapietra attribuisce una forma di eccesso: “L’esser sincero implica, infatti, quella particolare forma di eccesso che spinge l’uomo verso la verità non come ‘desiderio di sapere’, ma come ‘volontà di essere’”.
E chi, nella storia dell’uomo, ha in maniera più sublime e poetica incarnato questa inclinazione ad una volontà di esser Verità meglio di Jeshua ben Joseph, detto il Cristo? Egli di sé soleva onestamente dire “io sono la via, la Verità e la vita”.
E fra gli assunti “io dico la Verità” e “io sono la Verità” c’è il mare di una funzione predicativa del soggetto: la funzione predicativa del soggetto è, infatti, vocativamente, profetica. Il risultato etico è comunque persecuzione e morte. Quello ontologico riporta aristotelicamente alla non banale coesistenza di potenza e atto nel divino.

Questa premessa ci permette di passare all’analisi della poesia di Bigongiari.
Il contesto è chiaro: una folla inferocita di fanatici religiosi ultraortodossi, dottori della Legge, eminenze autorevoli e altri comuni popolani accorsi per l’occasione, è intenzionata a lapidare una donna che ha commesso adulterio. Hanno in mano le pietre. La poverina è ormai consapevole del suo destino, vi si è arresa, dice il poeta, rassegnata, eppure come una belva braccata continua a scappare, si ripara: sa che non c’è salvezza, razionalmente, ma fugge dai suoi persecutori. Si ripara il volto con le mani. La pioggia di sassi sarà impietosa, la colpirà condannandola ad una morte lenta, atroce e dolorosa.
Quando ecco irrompe, nella storia, e sulla scena del racconto, l’inaspettato, il perturbante. Si tratta di un giovane Rabbi di cui si dice che sia capace di compiere prodigi. È una di quelle figure, sgradite e scomode per l’autorità religiosa, che creano tumulti, disordini, aizzano il popolo, causano rappresaglie da parte dell’esercito di occupazione: sono un problema. I profeti con la loro dirompente volontà di Verità e forza di rivolta causano incidenti di complicata gestione nell’equilibrio di poteri della regione. Jeshua ben Joseph è uno particolarmente difficile da controllare: non predica una rivolta armata, è un filosofo, porta con sé reminiscenze di dottrine orientali, è un mistico messianico, un apocalittico vicino per vocazione allo spiritualismo delle sette di Qumran, si muove in una complessa galassia di asceti sovversivi. La sua peculiarità è che predica la non-violenza e il rispetto della legge e dei profeti: non è dunque facile attribuirgli un reato. Le folle lo osannano come il Messia atteso da Israele. Il testo di Bigongiari non descrive i particolari della vicenda. La riporta come un bagliore, presuppone una precomprensione da parte del lettore, del racconto originale consegna l’essenza intima, come fa la poesia ci rimanda alla conoscenza ipertestuale dell’accaduto. In questo episodio, narrato nelle cronache che i discepoli del Rabbi fanno della sua vita, Gesù è costretto a frapporsi, interrogato, non senza una certa recalcitranza, in una questione di diritto di famiglia.
Non lo fa con una mossa di rivolta: non lo fa mai. Egli non è un rivoluzionario, suo cugino Jochanan il precursore, il nazireo dalla testa tagliata lo è più di lui: Jeshua è un riformatore, la sua azione e la sua predicazione parte e si evolve entro una prospettiva ermeneutica della Tōrāh.
Bigongiari ci costringe a interrogare il testo dei Vangeli per connettere il contrappunto della sua lirica alla complessità del racconto originale:

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli si sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?” Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”7.

Jeshua era un solitario, un riflessivo, aveva bisogno di recarsi al Monte degli Ulivi, per riflettere, contemplare, pregare, e nel suo caso l’accesso alla sua interiorità era il culmine di ogni ambivalenza, come lo descriverebbe un cabalista, contemplando Se stesso, Egli contemplava, in Sé, il Padre, il creato, la totalità del Sé divino da cui ogni cosa diviene e in cui ogni cosa ritorna.
Tuttavia si recava, poi, al tempio, perché il popolo andava da Lui. Tornava per assolvere il suo compito magistrale: insegnava. E cosa insegnava? La Legge. Quella legge di cui Egli era compimento. Insegnava cripticamente a volte, voleva che essi – le persone del popolo – credessero in lui, era guardingo, si muoveva fra la necessità umana e la destinazione divina.
In tutta la sua psicologia, nell’arco del racconto della sua vita terrena, la componente umana deve gradualmente cedere il posto all’essenza divina. Egli si raccoglie, prega, supplica di non dover bere dal calice amaro della morte mentre è consapevole che il compimento della storia dipende dal sacrificio della sua natura umana. E in quest’ottica insegna, come un Rabbi, al tempio.
Il Vangelo non specifica cosa stesse insegnando in quel momento. Egli insegnava loro, a volte attraverso parabole, a volte figurativamente. Non sempre veniva compreso, spesso nel racconto avviene una precisazione per la cerchia degli adepti di ciò che, nel discorso di Jeshua alle folle, è rimasto oscuro. Era venuto a portare chiarezza, la Sua missione come quella di ogni altro figlio di Israele, la Sua missione messianica, era in primo luogo una glossa della Legge. Perché attraverso la comprensione i miscredenti potessero credere.
Gesù non pretende un’adesione cieca dai suoi contemporanei: insegna, compie prodigi, fa in modo che i loro occhi si aprano gradualmente. Mostrerà i segni della crocefissone al discepolo scettico Tommaso, ammettendo che sempre è fruttifero lo scettico nella cerchia ristretta della nostra interiorità: lo scettico pone in dubbio noi stessi ai nostri occhi interiori. Una fiducia cieca è il dono e il peso delle generazioni a venire, ma la prima generazione, i contemporanei, sono destinatari della rivelazione agente.
In quel momento Gesù è al tempio, dunque, e insegna.
Ma arrivano presso di Lui i suoi accusatori: i benpensanti, quelli che, per invidia, lo hanno già condannato e stanno cercando un pretesto per metterlo a morte.
Egli, fino a quel momento li ha schivati, perché non è ancora giunta la sua ora, li ha schivati secondo il precetto rabbinico: “se qualcuno ti schiaffeggia non porgere il fianco”. Gesù è schivo. Egli è il più perfetto fra gli uomini del deserto, i nazirei, mistici fuori dal mondo, riesce a permanere quaranta giorni nel deserto: un tempo compiuto, nella tentazione dell’animo, nella prova interiore. Questo allenamento lo ha preparato a schivare le insidie mondane ad un livello psichico oltre che dialettico. Chi ha frequentato il deserto porta dentro di sé il valore della contemplazione e lo frappone fra il sé e l’io: la contemplazione è lo spazio della formazione della coscienza – di sé e della totalità. È questo che indica la titubanza di Gesù: la coscienza del tutto.
Ma gli scribi e i farisei lo mettono alla prova, secondo la loro modalità. Gli conducono innanzi un’adultera e gli chiedono cosa debbano farne. La legge di Mosè impone di lapidarla: vogliono un pretesto per accusarlo di blasfemia. Egli recalcitra. Sembra non vederli, ma loro insistono e allora Egli li liquida con una delle Sue frasi lapidarie, quelle che compongono il florilegio dei verba ipsissima, frasi che diceva proprio Lui: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”; poi compie un gesto spiazzante: si mette a scrivere col dito per terra. Sembra non volerli ascoltare oltre, sembra non aspettarsi un contraddittorio: Rabbi Jeshua ben Joseph, diremmo, si trastulla, giocherella con la sabbia, si mette a scrivere distrattamente col dito per terra. E chissà cosa disegna o scrive? I Vangeli non lo dicono, lasciano uno spazio vuoto, lo spazio che la nostra mente riempie di indicibile, di misterioso: di sacro.
Chissà qual è il potere di quel verbo disegnato per gioco dal Verbo sulla sabbia? Per comprendere bene la natura di questo trastullo divino possiamo attingere al principio del fumus boni etymologiae sapientemente praticato da Massimo Morasso, perché la precisazione etimologica, la riscoperta nietzscheanamente genealogica dell’origine delle parole altro non è che una ricerca, ossessiva, delle Verità. Le sillabe che compongono i termini così distrattamente usati nel solco del senno comune, nascondono segni pericolosi, sono quei segni che, se indagati nell’intimità dal chirurgico-glottologo impietoso, causano sgomento e risentimento negli stolti di fronte alla Verità. Ebbene, Morasso ci dice che c’è un trastullo divino8, un diletto spirituale e autoconsolatorio, ben diverso da quello infruttuoso del dio bambino che gioca coi mondi come con biglie di vetro. Il gioco infantile del figlio di Dio è l’ esempio più calzante di quanto sia serio il gioco in questione.
Cosa accade nella storia mentre Jeshua scrive col dito per terra? La frase di Gesù è il Suo gesto di sublime, divina noncuranza. Scrivere col dito per terra ha avuto l’effetto dirompente del non agito, della minima resistenza, del silenzio, del gesto millimetrico e sacramentale nel quale le parole sono centellinate e i movimenti, precisi, assumono un valore gigante: il terribile della noncuranza divina.
Gli scribi e i farisei che volevano metterlo nel sacco e si aspettavano una risposta rissosa e veemente sono prosciugati. Gesù non accusa, non mette in discussione la Legge, non sminuisce la portata del reato. Compie un gesto, sì più radicale, ma su un piano ontologico delegittima gli accusatori.
Sposta il campo d’azione del giudizio: ribadisce l’assunto fondamentale della Legge mosaica e, ancora prima, del patto abramitico, fa prevalere l’unità abramitica sulla distinzione mosaica9, e ancora prima dell’alleanza fra Dio e Adam: l’arbitrio sulla vita umana non appartiene all’uomo. Nessun uomo ha arbitrio sulla vita dell’altro uomo. L’innocente non ha arbitrio sulla vita del colpevole. L’arbitrio sulla vita è un arbitrio esclusivamente divino, poiché dal punto di vista di Dio non c’è uomo che sia perfettamente innocente: non dopo l’esilio dal giardino di Eden. Siamo, ormai, nel campo della storia umana.
E qui si apre il tema della discesa di Dio, in carne umana, come amante e riparatore della relazione fra Se stesso e il mondo, che però è questione troppo vasta per essere ora affrontata. La storia, nei Vangeli, finisce con un conciso dialogo fra Gesù e l’adultera: rimasti soli Egli le chiede che fine hanno fatto i suoi accusatori, se nessuno l’ha condannata. Lei risponde che nessuno l’ha condannata e lo riconosce come “Signore”. Lui le dice: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
La lascia cioè con un motto preciso che non apre la strada al “nessuno mi può giudicare”, perché il giudizio sul peccato (sull’adulterio, nel caso specifico) è una precomprensione. Afferma il dovere della misericordia, poiché l’essere perdonati, l’essere giudicati con clemenza è un bisogno di chiunque non sia nella condizione di scagliare per primo la pietra del giudizio. E ci dice che ogni condanna assoluta, nel campo della determinazione umana, è in sé arbitraria e illegittima. Mette in dubbio il concetto stesso di giustizia. Ogni forma di umana giustizia è una versione regolamentata di vendetta. Il solo metro legittimo è quello della clemenza: il perdono che sopravanza le tavole della Legge.
Dio sta chiosando Se stesso dando peso all’umanità della Sua incarnazione nel Figlio più che al Suo diritto universale di Creatore.
È un’interessante prospettiva. Ma quello che a noi tocca indagare è come Bigongiari ci restituisce liricamente questa storia. E tale indagine è, in effetti, il cuore del problema: la restituzione simbolica del racconto mitico. Dall’epica alla lirica e la cristallizzazione del segno.

II

La decapitazione

Il grande assente del nostro tempo è il mediatore fra la materialità del segno e la consistenza del senso: il simbolo. Seguendo il filo di questa asserzione torniamo al testo di Bigongiari nel dettaglio:

Col dito in terra scavi l’amore rappreso,
scrivi del malinteso quanto non si può intendere,
allontani la morte dall’arreso, l’arreso dalla morte.


Gesù è reticente. Mostra la divina reticenza, il trastullo divino, la reticenza del sacro che può starsene perfettamente chiuso in Se stesso. La compostezza del sacro è una e molteplice.
L’uomo, l’uomo scettico, l’uomo della provocazione al divino, l’uomo in malafede che vuole cogliere la crepa – squarciare il velo del sacro – interroga Dio. Ogni interrogazione è una provocazione, pro-vocativa, perché cerca una risposta. Ogni espressione dia-lettica è intrinsecamente rissosa: fruga nelle maglie del Logos, in questo caso, del Logos divino.
Ebbene, Jeshua è l’incarnazione del Logos: è il Logos autocosciente. Il Logos giovanneo è verbo pensante e agente. Ed è questo un concetto indagato ed espresso precisamente in termini teoretici.
Quando Kant pone, sul crinale fra due secoli, il problema della percezione della bellezza, indaga la cognizione della rosa: è una rosa bella perché l’io la percepisce come tale, dunque la cognizione della rosa è un possesso della mente del giardiniere, oppure la rosa ha in sé una qualità che la predispone ad essere percepita come bella? Problema che, risolto da Kant, rischiara cognitivisti e neuro-scienziati. Mentre Kant al culmine della sua ricerca postulando un Dio, nel suo testo più tardo I principi della metafisica, ipotizza anche l’esistenza di altri mondi e altri esseri viventi, soggetti, tutti al medesimo perno morale della conoscenza trascendentale.
Nell’episodio dei vangeli che Bigongiari cristallizza poeticamente, avviene un salto ontologico. Il limite della domanda sulla bellezza – sulla cognizione – della rosa è stato superato, la poesia non ha l’obbligo di porre domande teoretiche, il sub-lime è la porta dell’etica e l’etica fonda sulla bellezza la sua dimensione ascetica: letteralmente in salita.
Il trastullo divino, qui, non è divina distrazione, la distrazione non è possibile a Dio, Egli è onnicomprensivo, in ogni forma del tempo, e perennemente concentrato. Col dito in terra scavi l’amore rappreso: reticenza divina.
Dio non vuole rispondere ad una domanda per Lui priva di senso.
La domanda che il mondo della legge può porre è una domanda ermeneutica: è una domanda sull’interpretazione corretta della Legge. È la domanda sulla cognizione, sulla conoscenza del diritto: una domanda sulla Tōrāh.
Ma Jeshua sposta l’obiettivo perché il Suo essere non è oggettivo o soggettivo. Egli non possiede le qualità della rosa, ne detiene l’essenza divina. Egli è ad un tempo la rosa e la cognizione della rosa. È la cognizione che la rosa ha di sé essendo autodeterminata. A questa complicanza di essere in sé ed essere generato risponde solo poeticamente il gesto della mistica medievale rosa das rosa, flor das flores: la tautologia divina. Attributo materno, femminile, per Colui che della pianta è il fiore.

E che cosa produce la tautologia divina?

scrivi del malinteso quanto non si può intendere

La tautologia divina è capace di una sovrascrittura che rimanda, comunque all’illeggibile, al mistero divino. Pure quel dito in terra è capace di scrivere con una scrittura, vivente ed essente, del malinteso quanto non si può intendere.
Di che malinteso stiamo parlando?
Qual è mai il malinteso di cui Dio può scrivere e gli uomini non possono intendere?
È un malinteso ontologico: la cognizione che la rosa ha di sé, la cognizione interna dell’essenza divina, che porta il divino ad una divina noncuranza, a rideterminare la domanda: la non curanza della rosa che, fra i poeti moderni, coglie solo Rilke.
La non curanza di Jeshua che si trastulla scrivendo col dito per terra e poi risponde con una frase paradossale ha esito, tuttavia, nel recinto dell’etica:

allontani la morte dall’arreso, l’arreso dalla morte.

Il gesto è un gesto agente. Non è un gesto di rivolta, Jeshua non è, fra i mistici messianici del suo tempo, un rivoltoso, lo abbiamo detto, è il riformatore, per eccellenza, non è venuto ad abolire la legge ma a completarla, a completarla incarnandola: a chiudere il cerchio. Chiudere il cerchio vuol dire spostare il livello dal sublime al divino e il divino è il campo aperto del Logos.
Come lo fa Jeshua? Scrive, col dito per terra:

Lì non funziona più l’alfabeto ma quanto della parola
sottostà al segno che indica, ma non più gli orizzonti ,
le cose e le persone che sono o che non sono.
Rimandi la leggenda all’illeggibile:
è che è li che nasce
la chiarezza suprema dell’equivoco […]


Quello che Jeshua scrive non riguarda più l’alfabeto ma quanto della parola sottostà al segno.
Cos’è lo strato della parola che sta sotto il segno della parola? È il senso, ma un particolare senso, il soffio divino, non indica orizzonti, cose, persone, presenti o passate, situazioni, giuridicamente descritte: c’è un rimando, quello della leggenda, del racconto della narrazione del divino: Genesi, Bereshit, In principio. La narrazione che può esser fatta del divino, del suo incedere creativo, in termini umanamente comprensibili; resta, però, rimando a quell’illeggibile che è propriamente l’essenza autocosciente della rosa: il verbo incarnato Jeshua ben Joseph, figlio di Dio detto il Cristo.
La chiarezza suprema dell’equivoco risiede in questo. La reticenza di Jeshua nel rispondere risiede nell’equivoco che c’è nel porre alla rosa una domanda sulla cognizione di se stessa. Quell’equivoco che dà il titolo alla poesia è uno stare in mezzo: fra le tavole della Legge e la scrittura del perdono.
L’azione incarnata del perdono, la cognizione della rosa: l’agire del perdono divino è l’illeggibile della creazione in divenire del mondo.
E qui cogliamo un errore di traduzione che ha creato equivoci di senso millenari. Dio non ha mai detto “sia la luce e luce fu”. Nel novero psichico di Dio il tempo ha omogeneità e infinità. Dio afferma: “sarà la luce e la luce sarà”. Dio afferma un eterno futuro circolare nel quale la luce, e la creazione, sono in lui una costante. L’uomo frantuma: storicizza, ha bisogno di una sintesi nella legge. Dio sa che l’uomo ne ha bisogno, una creatura finita non può sostenere l’infinito senza punti fermi. Ma gli assiomi umani, nella psiche divina, coincidono con la costante dell’essere.
E allora qual è il senso dell’incarnazione umana del Dio?
Il doppio binario: l’interpretazione ritmica del tempo, ovvero la morale di Dio e nel tempo-legge umana.
Jeshua è reticente, non vuole rispondere; è non curante, pronuncia una frase perturbante, si mette a scrivere col dito per terra, sa che sta alludendo al Logos, innanzi a creature incapaci di contenerlo… e dunque? Dov’è la blanda speranza di una possibilità per il Logos incarnato di essere compreso al di fuori di Sé?
La mediazione simbolica. Il simbolo è il grande, l’indispensabile, mediatore fra Dio, la sua essenza e l’uomo, fra la legge (la Tōrāh), a cui si appellano scribi e farisei e la sapienza hokmâ, sapienza creatrice. La Tōrāh è la figura storica della hokmâ, che Jeshua incarna, non la parola scritta ma la mossa cognitiva divina preesistente e creatrice che si realizza, con Jeshua, nel perdono: il perdono altro non è che una forma di ri-creazione dell’uomo.
Il rapporto fecondo in cui si pone la scrittura rispetto all’illeggibile è spiegato perfettamente da Gianantonio Borgonovo:

La sapienza può essere considerata il punto di arrivo dell’azione divina, il senso o la causalità – efficiente e finale – della sua opera, la pietra filosofale della sua alchimia nell’universo. Comunque definita da un’archetipologia simbolica, la sua valenza principale emergente è la trasformazione. Il punto di partenza è la notte caotica, quella che precede l’inizio assoluto della creazione, ma anche quella che rimane attorno all’ordine creato e intrattiene con esso il dramma dell’esistenza […]. Dio, non è quindi se non la possibilità di un dialogo con l’umanità da Lui voluto sin da principio […]; non vi è altro luogo della sapienza, se non l’incontro tra la domanda dell’uomo e la rivelazione di Dio […]; l’uomo non solo scopre dei simboli, ma si scopre un essere simbolico, partner di quel dialogo che lo lega al Dio creatore10.

La domanda che l’uomo pone a Dio, nella sua forma umana di Rabbi, è dunque non solo legittima ma è lo scopo dell’esistenza umana, quella creazione che sarà e sarà, in divenire, nell’alveo della coscienza divina. Il porre la domanda è lo scopo dell’uomo. Nel caso, cruento, dell’adultera la relazione fra coloro che domandano e Colui che risponde non funziona perché, come avrebbe sostenuto Martin Heidegger (il maggior sostenitore, forse, della necessità del domandare), si tratta di una domanda mal posta. La domanda è posta male perché coloro che la pongono sono ignari, o meglio dimentichi, della relazione simbolica fra il sé e il divino.
Questa dimenticanza fa sì che ai loro occhi il Divino, incarnato, rimanga incognito e che essi non lo riconoscano: hanno disimparato, prigionieri della prassi come sono, a leggere quanto della parola sottostà al segno. La parola quando non è insufflata del suo valore simbolico, archetipico, alludente al divino, diventa merce: burocrazia. Burocrazia è l’esercizio meccanico dell’applicazione della Legge senza l’esercizio ermeneutico continuo. L’ermeneutica del divino è l’allenamento della mente umana sul modello della mente divina, l’allenamento nel dialogo con il divino, che è lo scopo dell’esistenza umana. La mancanza di questo dialogo crea una sclerotizzazione della facoltà cognitiva spirituale.
Rende insensibile l’organo spirituale dell’uomo. Ottunde i sensi spirituali. Per cui il figlio di Dio, non riconosciuto da uomini che hanno smarrito il senso archetipico del Divino, è costretto a scrivere col dito per terra.
Questo scrivere divino è faticoso, è uno scavare, alla ricerca di quell’amore che si è rappreso: rappreso vuol dire coagulato, ridotto, annichilito, a causa del malinteso della mancata agnizione simbolica, dunque spirituale, del divino.
Per comprendere cos’è il simbolo e il valore simbolico, nella nostra percezione di uomini del nuovo millennio dobbiamo rivolgerci necessariamente ad Heidegger e Jung. I due traghettano sul versante fenomenologico, l’uno, e psicanalitico, l’altro, il concetto platonico di Nomos: esso allude, come risaputo, al divino e, attraverso Aristotele e Tommaso, questa allusione s’identifica in un Logos come allusione “determinante”: ciò che allude al divino, non a un nomen che potrebbe essere un altro, allude al Nome: al Logos.
Heidegger, come Kant, parla della manifestazione del Logos nell’opera d’arte, nella scrittura, nella parola scritta, in particolare nella parola poetica, e a noi interessa prendere in considerazione il pensiero di Heidegger sul valore simbolico dell’opera:

oltre alla pura cosa […], l’opera d’arte rende noto qualcos’altro, rivela qualcos’altro: è allegoria. Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce anche qualcos’altro. Riunire si dice in greco simbolo. L’opera d’arte è simbolo. Allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione dell’opera d’arte. Ma questo qualcosa che manifesta nell’opera qualcos’altro, che si riunisce a qualcos’altro, è proprio la cosità dell’opera d’arte. Sembra quasi che la cosità nell’opera d’arte sia una specie di basamento in cui e su cui poggia l’altro, l’autentico. Ma non è proprio questo esser-cosa dell’opera ciò che l’artista fa nel suo operare?11

Simbolo allude a un patto, a un’alleanza e a una rammemorazione dell’alleanza: la rammemorazione è un tema per Heidegger strettamente legato all’opera poetica12, che è capace di far affiorare ciò che è sepolto, il senso che è il basamento sul quale poggia l’essere-opera dell’opera.
Il verbo greco racconta di una prassi materiale in vigore prima dell’invenzione della scrittura: i “simboli” altro non erano che frammenti di tavoletta di creta o terracotta che, spaccati a metà, sancivano, una volta ricongiunti, un’alleanza fra due parti, dunque l’azione del verbo è quella di riunire. Di mettere insieme due frammenti spezzati di un unica tessera per rammemorare un patto fra due contraenti ciascuno dei quali, nel separarsi dall’altro, ha portato con sé un frammento di creta che glielo ricorda.
Il patto, allora, è l’allusione sottostante alle due tessere che verranno riunite. Non è qualcosa di materiale, ma “quanto della parola sottostà al segno”, quanto sottostà al segno, prima che le tessere di creta vengano sostituite, è un’ulteriore fine sussunzione, dalla parola scritta. Materia tattile creta, terracotta e segno grafico non differiscono nel loro valore ermeneutico: entrambe rappresentano la parte materiale dell’opera umana, la sua cosità. La cosa, l’opera, anche l’opera scritta, opera poetica che è per eccellenza opera allegorica, ha una materialità: la scrittura ha una materialità ma il segno rimanda al sema, e a quell’inconoscibile basamento che ne sostiene l’essenza. E il discorso heideggeriano è qui puntuale e affascinante e si arena solo quando non accetta di cedere il passo alla mistica, che sarebbe il suo approdo più logico.
Ma a noi basta il breve conforto della specificazione materiale del valore simbolico che lega due realtà: due contraenti, quei contraenti che sono un io e un tu, un io e un altro da me che, attraverso un’opera di ricongiungimento simbolico, si ricordano di una relazione attorno a qualcosa: l’accordo, l’alleanza, il patto che è stato preservato. Il simbolo è ciò che rimane statico mentre l’io e il tu contraenti il patto si muovono. Ciò che si muove si modifica, si trasforma, fluisce, è dinamico: il fluire è l’inconscio come lo descrivono Freud e Jung, la trasformazione è ciò che performa la coscienza, è il movimento che la struttura. E, come ormai abbiamo compreso, il valore principale di hokmâ , Sapienza, è la trasformazione.
La sapienza, la trasformazione è la messa in opera del dialogo di Dio con l’uomo, che è lo scopo ultimo della creazione. L’incarnazione di Dio è un momento di rammemorazione del patto, dunque di ri-creazione dell’uomo.

Col dito in terra scavi l’amore rappreso,
scrivi del malinteso quanto non si può intendere,
allontani la morte dall’arreso, l’arreso dalla morte.
Lì non funziona più l’alfabeto ma quanto della parola
sottostà al segno che indica , ma non più gli orizzonti,
le cose e le persone che sono o che non sono.
Rimandi la leggenda all’illeggibile:
è che è li che nasce
la chiarezza suprema dell’equivoco.


Il rimando della leggenda all’illeggibile è ciò che la scrittura rende possibile con la rammemorazione. Il promemoria riavvicina le due tessere, il concilium oppositorum che Eraclito ipotizza è simbolicamente stabilizzato; la chiarezza suprema dell’equivoco è il sottostante, il basamento su cui poggia la materialità della scrittura. L’equivoco di cui si parla è in realtà qualcosa che è estremamente chiaro, ma non è ancora stato svelato, poiché coloro che pongono la domanda la pongono in modo sbagliato: e Heidegger si adira moltissimo sulla questione del porre le domande giuste, consapevole che solo con la domanda giusta si fa appello al grande mediatore.
L’Ur Mediatore può riconnettere i pezzi della tessera spezzata e riportare a galla il senso dell’alleanza. Il mediatore sancisce l’unione che la frattura ricorda in maniera confusa, imperfetta, dimezzata. Questo mediatore è il livello simbolico di lettura: è l’archetipo. Il corollario di archetipi che possono dischiuderci quello che un cabalista chiamerebbe “il sentimento nascosto di ogni sillaba” è lo slittamento mistico di ogni precisazione etimologica. Il sentimento mistico della sillaba differisce dall’idea di genealogia nietzscheana perché non ha una determinazione temporale storicizzata. La mistica non è, infatti, speculativa.
Tuttavia la non speculatività della mistica ha una pretesa che coincide con l’attesa proiettata da Heidegger sulla capacità della parola poetica.
Per il filosofo, l’opera d’arte possiede un particolare tipo di Verità, Die Wahreit Aletheia: l’opera d’arte è “l’apertura dell’ente nel suo essere. Il farsi evento della verità”. La Verità è proprio quella virtù crudele di cui con malizia stuprante Dio ha fatto dono a Geremia e a tutti quelli della sua casta.
Ma cos’è l’essere atto della Verità? Una corrispondenza fra ciò che implicitamente è, ma non è stato ancora pronunciato poeticamente. Quello che Aristotele, nella Metafisica, chiama la causa del vero, e senza conoscere la causa non si conosce la Verità.
Il discorso heideggeriano è un discorso audace, ma parziale. Ripropone il termine Aletheianel suo significato di disvelamento (e noi tralasciamo il rapporto fra Mythos e Logos, intesi come leggenda ed illeggibile, alias realtà simbolica ed essere). La non ascosità della cosa, il suo non essere nascosto è legato all’esperienza dell’essere qui ed ora: l’esser-ci (Da-sein) e la ricerca della Verità, l’Aletheia è l’unico modo di divenire, nietzscheanamente, ciò che si è.
Ma questo crea un conflitto. La Verità appare nella sua negazione, aristotelicamente, genera un diniego, quello di Geremia, che si lamenta di essere stato stuprato, quello di Giona che si dà alla macchia, quello della paradossale punizione di Giobbe: la Verità si svela nell’accettazione tragica della sua apparente negazione, o per essere più precisi della sua negazione storica. Analogamente la Sapienza, hokmâ, dinamismo e trasformazione, attraverso cui l’Essere struttura il tutto, è l’attuazione dell’essere-verità, la Tōrāh ne è cristallizzazione storica.
Ma quella di Heidegger è una lettura parziale, è una lettura dimezzata. Il filosofo tedesco andrebbe letto insieme a Heschel, il teologo ebreo che traspone l’intero discorso metafisico sulla necessità del simbolo alle pendici del sublime e della percezione della grandiosità del creato come opera. Il mistico amplifica le allusioni che il filosofo abbandona nel taciuto, per ignavia o pudore – non ci è dato, beninteso, sapere ciò che abita nell’asserzione mistica.
Quanto al protagonista della poesia di Bigongiari, Rabbi Jeshua, che insegna al tempio, cerca di eludere una domanda e si mette a trastullarsi scrivendo ciò che non conosceremo mai (l’Aletheia), cosa possiamo dire dell’esito del suo modo di fare? Ricapitoliamo quello che dice il poeta: allontani la morte dall’arreso, l’arreso dalla morte. E non è cosa da poco.
Come lo fa? Egli non confuta la legge. Di fatto delude coloro che vogliono coglierlo in fallo, snocciola uno dei suoi motti sapienziali poetici, mai di rottura, è un ermeneuta.
Qual è il significato della sua azione? Non certo quello che passa nella vulgata dell’interpretazione dell’episodio evangelico. Il messaggio non è Gesù è di manica larga rispetto a Dio padre e perdona l’adultera. Non è il nuovo è più comprensivo del vecchio.
È un’affermazione assai più dirompente, e in quel momento, infatti non viene compresa a pieno: Jeshua dimostra che il tribunale umano che vuole una condanna secondo la Tōrāh non ha diritto di esistere rispetto alla pre-esistenza sapienziale hokmâ: essa attua il perdono che risiede in Dio. L’atto giuridico della condanna, corretto nell’interpretazione della Tōrāh, decade dinnanzi all’eminenza dell’atto liturgico del perdono, la cui istituzione è prerogativa divina.
Il perdono è l’inatteso. L’imponderabile che però accade quando Verità, potenza ed atto, simbolo e disvelamento coincidono, misticamente, nella totalità della persona divina.
Jeshua è mediatore di se stesso e questo è l’assunto poetico che lo rende paradossale e inaccettabile per la logica stringente del sinedrio. Egli è il simbolo ma è anche il sema, è ciò che sottostà alla materia ed è la perfezione della materia.
All’episodio della mancata lapidazione dell’adultera segue, infatti, nel racconto di Giovanni, una definizione che Gesù dà di Se stesso. È propriamente quello il momento del disvelamento:

Di nuovo Gesù parlò loro e disse: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”. Gli dissero allora i farisei: “tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera”. Gesù rispose loro: “ Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato dà testimonianza di me”. Gli dissero allora: “dov’è tuo padre?”. Rispose Gesù: “Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora13.

Jeshua ha costantemente un uso lirico e simbolico della parola: Io sono la luce del mondo. La luce è simbolo, ma in lui è realtà materiale. Egli è testimone di se stesso perché nella sua psiche divina il processo di trasformazione dialettica, il divenire sapienziale non implica un movimento dinamico, non ha bisogno di hokmâ per eseguire una trasformazione creatrice, Egli è una emanazione sostanziale, Egli non va incontro al processo conoscitivo di Abramo, è autocosciente della sua provenienza e della sua destinazione: non deve affidarsi all’intuizione, conosce in anticipo il percorso. Non giudica perché il giudizio del tribunale umano è un giudizio pronunciato nel solco della materia, è giudizio storico. Per incarnare la Verità del giudizio, Egli non ha bisogno del processo giudicante: il perdono avviene per sussunzione. Il perdono è l’azione che allontana la morte dall’arreso e l’arreso dalla morte: Egli è colui che ha facoltà di riscrivere la storia al di sopra della morte. Poiché è mandato dal Padre di cui è partecipe proprio per riscrivere la storia, per arrestarne la deriva. Egli è il simbolo e Verità di quell’imponderabile atto di riscrittura della storia che è il perdono.
Il perdono è preminentemente facoltà divina. E ancora più interessante è la domanda sul Padre: “Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. Il Padre è l’Essere (sempre e comunque al di sopra dell’essere, come c’insegnano da almeno tre millenni, inter alia, le mistiche d’Oriente e d’Occidente) di cui Gesù è, contemporaneamente, la manifestazione simbolica e l’essenza di ciò che sottostà al segno: deve venire alla luce per diniego, con tremendo sacrificio.
Il diniego della Verità è l’umiliazione della Croce è la morte in croce che, tuttavia, si capovolge perché era già il Risorto è nell’essenza del Crocifisso. La Verità, il percorso iniziatico della morte, non può intaccare l’essenza della resurrezione.
Lo specificherà poco più avanti: “io sono la via, la Verità e la vita”14.
Non c’è dialettica nell’unità divina ma concordanza: le virtù trinitarie di Dio coincidono nella attuazione della Sua volontà. Il dialogo è con l’uomo per l’uomo. Nel dialogo umano non c’è una sacralità della parola che diventa testo o ipertesto; la parola testuale, nel suo dispiegarsi, in immagine che la psiche si dà, istituisce un polemos fra le sue alterità. La sacralità è cosa diversa dal sacro in sé. Il sacralizzato ha assorbito il sacro. Il sacro è la parola incarnata: l’unico nome. Il Logos del principio che permea ogni atomo della materia pur rimanendo interamente spirituale. Questo atto forza la natura della carne. La pretesa di Dio è una carne spirituale. Ed essendo Dio la sua pretesa è in sé un’attuazione.
L’unico contesto in cui l’idea di parola disvelante di Heidegger può trovare approdo è al di fuori della grecità: nella mistica giudaico-cristiana nella quale il nome innominabile allude, senza ombra di dubbio, all’essere innominabile in sé dell’Univoco. Il non essere più nascosto dell’ente nel quale si trova, secondo il filosofo tedesco, la Verità della parola trova un’attuazione concreta solo nel campo teologico della coincidenza dialettica-verità-ente nell’immagine poetica di via–verità-vita.

III

Rammemorazione, inconscio, Eden

È necessario permanere nel testo di Bigongiari, ancora in quello spazio che è evidente nel titolo della poesia: fra le tavole della legge e la scrittura del perdono. Questo spazio è anche il campo d’azione del protagonista della vicenda narrata dal testo archetipico a cui Bigongiari si riferisce. Teniamo presente che quella di Bigongiari è una parafrasi lirica, quindi operiamo una lettura di almeno due livelli di stratificazione intertestuale.
Fisicamente lo spazio tra le tavole della legge e la scrittura del perdono nel Vangelo di Luca è il tempio nel quale Jeshua sta insegnando: dunque è, di per sé, uno spazio architettonicamente sacro, la vicenda si svolge entro il recinto del sacro. E non è un caso che il narratore la collochi in quel luogo, ci tiene a dirci nell’ incipit del capitolo che Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli si sedette e si mise a insegnare loro.
Lo spazio nel quale si svolge l’azione d’insegnamento che viene interrotta dall’intervento violento e chiassoso dei farisei è quello sacro del tempio, è quello sacro della concentrazione dell’insegnamento. Jeshua è, non a caso presentato in una delle sue vesti principali: quella di Maestro che è sempre, nella vicenda della sua esistenza terrena, propedeutica a quella di giudice supremo. Una particolare natura di Giudice: giudice di una legge superiore. Tecnicamente, colui che giudica secondo una dottrina sovraumana.
E le figure che incarna durante tutto il percorso della sua predicazione sono principalmente: maestro, taumaturgo, giudice. Conoscenza, vita e giustizia sono il Suo campo d’azione.
Ci troviamo dunque nel recinto sacro dell’insegnamento:

È che è lì che nasce
la chiarezza suprema dell’equivoco,
il chiarore che limita le ambasce
trattenute, quasi orlo illuminato
del bicchiere posato poco fa.


Il testo giovanneo contiene già i problemi fondamentali dell’ultima grande ricerca metafisica occidentale di Heidegger e i termini che indaga sono l’Aletheia, l’ermeneutica, l’ontologia dell’Ente. La necessità di porre il problema del disvelamento in senso negativo e, inoltre, centrale nel testo Evangelico, il problema della definizione della trinità.
Nel solco della ricerca heideggeriana su Aletheia-ermeneutica-Ente si muovono molti prima della definitiva caduta del sentimento metafisico come possibilità esistentiva dell’uomo.
Fra coloro che è possibile interrogare sulla questione un posto preminente lo ha indubbiamente Jung, che così scrive:

Nel mistero del Dio in tre persone si schiude una nuova libertà di Dio intesa nel suo senso più profondo, libertà che rende ammissibile anche l’idea della figura di un diavolo impersonato accanto e in contrapposizione a quella di Dio” (G. Köpgen, Die Gnosis des Christentums, Salzburg p.185 ss.) Il diavolo possiede quindi personalità autonoma, libertà ed eternità, ed ha queste qualità metafisiche in comune con la divinità sino al punto di poter esistere persino in contrapposto con Dio. Da questo punto di vista non si potrebbe più negare che la relazione o addirittura l’appartenenza negativa del diavolo alla trinità non sia un’idea cattolica […] poiché un Dio he si identifichi con l’uomo individuale è un’ipotesi estremamente complessa, che sfiora l’eresia, è difficile conciliare il dio interiore con il dogma. Eppure la quaternità, quale è prodotta dalla psiche moderna, tende direttamente non solo al dio interiore, bensì anche all’identità di Dio con l’uomo. In contrasto col dogma, qui non vi sono tre ma quattro aspetti. Se ne potrebbe facilmente dedurre che il quarto rappresenti il diavolo. Quantunque abbiamo il “logion”: “Io e il padre siamo uno chi vede me vede il padre”, si considererebbe bestemmia o pazzia mettere in tale rilievo il dogma dell’umanità di Cristo sì che l’uomo potesse identificarsi con Cristo e con la sua “homoousía” (identità di essenza). Eppure, tale appare la mira del simbolo naturale. Da un punto di vista ortodosso, quindi, la quaternità naturale potrebbe definirsi “diabolica fraus”, e la prova principale sarebbe l’assimilazione del quarto aspetto, il quale rappresenta la parte da riprovare. A mio parere, la chiesa deve respingere qualsiasi tentativo di prendere sul serio tali risultati. Essa deve condannare, anzi, ogni avvicinamento a queste esperienze […] ciò risveglia l’antica diffidenza contro tutto ciò che pur lontanamente ricorda l’inconscio15.

Perché Jung si preoccupa di mettere in guardia la chiesa sull’uso archetipico del sistema binario e quaternario contro il quale proprio la proposizione trinitaria del cristianesimo costituisce un antidoto?
Nel testo da cui è tratto questo passo Jung fa una lunga digressione sull’uso eretico medievale della teoria di costruzione del sistema binario come archetipo del negativo che integra l’archetipo del divino. La dicotomia bene-male. La teoria eraclitea degli opposti.
L’archetipo del serpente che produce il doppio e i suoi multipli: il quadruplo è una pericolosa ricaduta nel paganesimo, e nella postulazione di un diavolo accanto al Dio altrettanto potente. Quindi di una forza disgregante opposta a quella aggregante. Questo inficia il concetto di Bereshit come adempimento ininterrotto di hokmâ, al quale rimanda precisamente il testo giovanneo senza specificarlo.
Bigongiari spiega in un passo della sua prosa sul mito qual è il grande tranello della prospettiva binaria: il mito di Narciso, ovvero, in altre parole, l’io che incontra il suo doppio nell’abbraccio letale dell’autoerotismo.
Il terzo, dice Bigongiari, “è colui che impedisce all’io di congiungersi con il suo doppio”. Il terzo è fuori dall’immagine. Non è proiezione pornografica del sé: è incarnazione nell’assolutamente altro. È il Generato. Nella professione di fede della dottrina cattolica viene specificato fra le qualità di Jeshua il suo essere il Generato, prima di ogni intenzione creativa. Il figlio è il generato da un’eccedenza che postula, cabalisticamente se volgiamo, il doppio divino come assolutamente altro in sé: quel processo di estraniazione ha come esito la creazione, ma la causa di quell’esito è, comunque, il Generato.
Questo processo viene definito da Heidegger, misticamente, circolo ermeneutico. Un archetipo di perfezione secondo Jung, il processo della costruzione dell’anima. Come si espleta l’azione del Generato, che porta in sé, per sostanza, l’eccedenza creatrice del Padre? Per comprenderlo dobbiamo entrare nel discorso, mai del tutto chiarito da Heidegger, della negazione, che egli eredita dalla schiera degli idealisti sotto forma di una noluntas razionalizzata fenomenologicamente.
Da cosa preserva la psiche dell’uomo la gigante postulazione trinitaria dell’Ente divino che il cristianesimo struttura? A che serve? Ricorriamo ancora una volta all’istituto del fumus boni entimologi. È una domanda alla quale Jung ha già risposto: dalla disgregazione oggettivante e mortale dell’io nell’infinità dei suo doppi e quadrupli.
Ma il metodo ermeneutico usata dal Generato si può descrivere, anche, con un solo termine che riporta il problema del rovesciamento heideggeriano in una prospettiva lineare. Questo termine è abnegazione.

Abnegazione (ant. annegazione) s.f. dal latino tardo abnegatio-onis, der. di abnegare.
1. Nella morale cristiana, disposizione a praticare le virtù contrarie all’egoismo e atte a raggiungere il perfetto amore di Dio e del prossimo […] Federico Borromeo… badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà …che, sentite o non sentite nei cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra (Manzoni). 2. Spirito di sacrificio; dedizione assoluta e disinteressata al bene altrui o ai proprî doveri, spesso accompagnata da una consapevole rinuncia ai proprî interessi. 3. Con l’uno o l’altro sign., per il valore di “rinuncia” volontaria e totale che è implicito nella parola, si usa anche come compl. di specificazione: a. di sé, della propria volontà; la compassione è quasi un’annegazione che l’uomo fa di sé stesso, quasi un sacrificio che l’uomo fa del suo proprio egoismo (Leopardi)16.


Come l’etimologo Leopardi ci fa notare, il termine si iscrive immediatamente nel recinto del sacro: è una rinuncia alla rappresentazione riflessa del sé. Una virtù contraria all’egoismo binario, letale, autoerotico di Narciso.
Eppure il termine ha qualcosa in comune con “l’annegare” nelle acque palustri del proprio doppio. È il totale immergersi. Il lasciarsi sommergere. La differenza è posta dalla volontaria rinuncia al sé in favore dell’io che è possibile solo nel recinto del sacro. In quel recinto la totale immersione, la rinuncia a sé si sporge verso l’altro: fuori dall’inconscio, come auspica Jung, nell’alterità che è la compassione. E la compassione necessita di un tu per esistere.
Manzoni, certo, ci rassicura sul fatto che le parole d’annegazione, vengono culturalmente tramandate, anche dai più distratti. Sono trinitariamente salde (a meno che la chiesa, come teme Jung, non si lasci tentare dalla blasfemia del binario). Vengono tramandate anche da coloro che hanno perduto il senso primario ed etimologico dal quale sono costituite; si sono, in termini junghiani (come fa notare Manzoni), stabilizzate in forma di archetipi nell’inconscio collettivo, almeno sino a Federico Borromeo.
L’abnegazione, quindi, è una disposizione dell’animo che si fa prassi nell’esercizio di un corollario di virtù. Ha una sua forza interna e ordinatrice, è il complesso di atti etici che conduce alla compassione: è la figura del trinitario che frappone un arbitro tra l’io e il suo doppio: il terzo che impedisce all’io di morire nel suo riflesso inconscio.
Ma come è possibile uscire dalla dualità del proprio inconscio e scorgere l’Altro, dietro la nebbia della ragione, nello specchio di Narciso?
Bigongiari risponde commentando una raccolta poetica di Yves Bonnefoy:

E l’altro è dentro o fuori? Viene dal basso dell’identità o dall’alto della differenza? E l’identificazione differisce o la diversificazione appiglia in un colloquio immaginario i rapporti intelligibili dell’identico che in quanto identificato, è già l’inizio dell’Altro? […] se la mediazione riflessiva non trattiene ma solo devia, col suo spessore trasparente, il senso della profondità, anzi delle opposte profondità, infine il senso di opposizione che si ritira dal profondo stesso. L’antiteticità del significante consiste in questo suo ritirarsi per trasparenze di fronte allo specchiarsi-spezzarsi dei significati nello spessore antagonistico del senso che essi inaugurano con l’introvabile corposità del proprio linguaggio, ma in cui si ostinano a deviare dalle loro certezze preconcette: le quali per tanto lasciano solo ordini, riti e miti al poeta che se ne sente, et pour cause, responsabile, quasi da essi sacralizzato […] il ritorno dell’eguale in una identità ogni volta messa in forse dalla faccia cristallina diversa della parola, fa si che la verità, abbandonata a tutti i suoi aspetti, si arrocchi, così fragile, così imprendibile, come un misterioso nucleo di rifrangenze che costituisce appunto, nel muoversi prismatico sul misterioso asse centrale, l’inganno della soglia mai ádita ma sempre pronta al passo ultimo del linguaggio17.

La Verità non risiede nella singola parola in modo ultimo, sfugge al linguaggio: risplende nell’enigma, che domina fra vita e morte, rimane nell’enigma di quella parola scritta da Jeshua sulla polvere e immediatamente cancellata, una trappola di pietra che si trasforma subito in rena umida di mare:

terminato il festino, allontanato
il brillio della stella, il morso alato
del bacio che sembrava alfine schiudere
labbra su labbra per dissigillare
la voce dell’enigma, le sue rare
occhiate troppo alte, troppo intrepide,
la trappola di pietra non ancora
fattasi rena umida di mare.


Il bacio che schiude labbra su labbra non è quello di Narciso che abbraccia il suo riflesso nella palude. Ci sono altre acque, sponde sacre, onde che cancellano le orma lasciate dalla parola: perché lo sguardo dell’enigma è un’occhiata alta, rara intrepida. In questo sguardo che è uno sguardo da un luogo: alto; nel tempo: raro; nell’atto: intrepido, si riassume l’attimo della manifestazione divina. L’attimo manifesto, però, non può essere intrappolato. Non è la parola scritta sulla pietra della legge mosaica quella che Gesù scrive nella polvere, con il dito, per terra, con il gesto primordiale del Generato, è una parola che rimarrà in eterno segreta: è la parola del perdono divino che ridetermina la storia umana attraverso l’imponderabile. Non appena sorge il desiderio umano, troppo umano, di sapere, leggere, conoscere quella parola essa diventa rena umida di mare: viene annegata dalle acque della creazione.
Qual è allora lo spazio nel quale si può esprimere il senso, il senso intero dell’umana vicenda?
Il non ancora quello che con una geniale intuizione Heidegger chiama il tempo dell’abbandono: un’attesa nell’aperto.
Cosa accade in questa attesa all’adultera? L’abbiamo dimenticata rifugiata dietro al Maestro divino che si trastulla con la scrittura. Bigongiari non dice di lei in questa poesia ma in un altro testo della raccolta, disseminata di segni e simboli.
Quando Jeshua cancella la parola che ha scritto nella cancellazione, ferma le pietre che stanno per essere scagliate sull’adultera:

Forse una traccia è rimasta di quel Dio che ha scritto
in terra dinnanzi all’adultera da non lapidare,
forse la pietra da non raccattare porta quella scritta
che nessuno ha letto, ma nessuno anche
ha raccolto quel sasso, l’ha scagliato18.


La parola scritta col dito per terra, nella polvere di cui è fatto l’uomo dal Dio fatto uomo, uomo di carne che rende sacra la carne e che allontana la morte, scrivendo, è più forte della parola scritta con il fuoco da Dio sulla pietra: in mezzo c’è il dolore a venire di Dio: dolore incommensurabile, umiliazione suprema di una morte infame, unico viatico possibile alla vita eterna e sacra.
Resta un problema è quello del significante, come lo postula Bigongiari: “L’antiteticità del significante consiste in questo suo ritirarsi per trasparenze di fronte allo specchiarsi-spezzarsi dei significati nello spessore antagonistico del senso che essi inaugurano con l’introvabile corposità del proprio linguaggio, ma in cui si ostinano a deviare dalle loro certezze preconcette”. Il significante lotta, si esprime per antitesi, si sottrae, si mostra per trasparenze, perché i significati hanno il gravare di un corpo linguistico, un corpo smarrito, però, riadattato alla certezza preconcetta. Ma cos’è il preconcetto? Bigongiari ci avverte: non è l’eterno ritorno dell’eguale. Non è una ciclicità asfittica, greca: olimpo e Ade, mitologia e figura.
La ciclicità che Bigongiari descrive è un turbinio attorno a un asse centrale, in questo movimento, concentrico, il poeta viene esso stesso sacralizzato (assorbe il sacro come abbiamo precisato). Attorno a questo asse “il ritorno dell’eguale” diviene una identità ogni volta messa in forse dalla faccia cristallina. La ciclicità del cerchio incontra una freccia: una forza estrema che punta altrove, punta verso l’alto: una soglia mai ádita che però è un inganno. Lo sa bene il profeta Geremia:

Sono le dita nere dei profeti
che tingono le mura che cadranno
e faranno più muta nella notte
la perduta città, ma sono esse
che passeranno da una a un’altra pietra
il frammento illeggibile. Lì occorre
che i superstiti frughino, nel fiero
nuovo vento che ne agita le vesti.


Apocalittici e messianici noi siamo, tutti, consapevoli o meno. Perché ci orientiamo sulle mappe del nostro inconscio collettivo. Mappe fino ad un certo punto stabili, che permettono all’umanità scoperte parallele, assunti di senso capaci di ruotare attorno ad un asse di esperienze di senso già sedimentate. Per questo l’esperienza di senso, spiega Manzoni, viene tramandata nella sua costruzione simbolica anche da chi non la coglie.
Ne è consapevole l’apostolo Paolo quando pone il tema della sua predicazione alle genti non come una mera mozione fideistica per un club di neofiti, ma come l’occasione per il pensiero greco di aprirsi alla trascendenza e divenire motore di civiltà universale nell’abbraccio con l’unica dottrina, l’ebraismo, che aveva sancito, come abbiamo appurato, il divieto per l’uomo di avere arbitrio sulla vita dei suoi simili.
La dottrina del perdono è il lascito polito di Jeshua il nazireo, lo descrive perfettamente Hannah Arendt:

A scoprire il ruolo del perdono nel dominio degli affari umani fu Gesù di Nazareth. Il fatto che abbia compiuto questa scoperta in un contesto religioso e l’abbia articolata in un linguaggio religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio in senso strettamente profano. La nostra tradizione di pensiero politico ( per ragioni che qui non possiamo indagare) è stata per sua natura altamente selettiva ed ha escluso dalle sue articolazioni concettuali una grande varietà di esperienze politiche autentiche, tra le quali non dovremmo sorprenderci di trovarne alcune fondamentali. Certi aspetti dell’ insegnamento di Gesù di Nazareth, che non sono direttamente connessi al messaggio religioso cristiano, ma scaturiscono da esperienze della piccola e compatta comunità dei suoi seguaci, incline a sfidare le autorità pubbliche di Israele, sono certamente esperienze di questo tipo, anche se sono state trascurate per la loro pretesa natura esclusivamente religiosa. Segni solo rudimentali di consapevolezza del perdono come necessario correttivo ai danni inevitabili derivanti dall’azione si possono riconoscere nel principio romano di risparmiare i vinti […]. È decisivo, nel nostro contesto, che Gesù sostenga in primo luogo contro “scribi” e “farisei”, che non solo Dio ha il potere di perdonare e, in secondo luogo, che questo potere non deriva da Dio – come se Dio soltanto perdonasse, attraverso la mediazione degli esseri umani – ma al contrario va praticato dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere perdonati da Dio […]. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata19.

L’imitatio Christi20 non è, non può essere intesa dall’uomo contemporaneo, come un mero atto di fede religiosa, ma come una precisa indicazione di politica attiva, radicale e radicata nel reale.

IV Conclusione

Cosa accade nel nostro tempo? Cosa si è inceppato, nella nostra capacità cognitiva, fino a rendere incomprensibili le mappe dell’inconscio collettivo?
Il neopaganesimo legato al commercio, allo scambio commerciale, al semplice guadagno: il sistema binario è il sistema del commercio: il commercio esige merce, esige la trasformazione di ogni cosa in merce. Questa trasformazione non è hokmâ, modifica spirituale e generativa.
È una degradazione di senso. È l’interruzione meccanica dell’accesso al livello del senso che sottostà, secondo la parola di Heidegger, alla scrittura cosciente del mondo: la capacità di descrizione del mondo esteriore ed interiore dell’uomo dipende dal grande mediatore decapitato dai mercanti dell’anima: il simbolo.
Il livello simbolico della percezione della realtà è stato volutamente frantumato.
Con questa frantumazione degli apparati simbolici, con l’interruzione del dialogo fra l’io del singolo e l’inconscio collettivo si è consumato il macabro e compiaciuto funerale della psicanalisi junghiana. Si è sancito il divieto del simbolismo in poesia. Si è inverato il tramonto della metafisica, intesa oggi come archeologia del pensiero. E ultimo, ma non per importanza, è perito il vero bersaglio di questa strage: il sacro. Ciò che è sacro non è merce, ciò che è sacralizzato è sottratto alla lapidazione e alla morte. La parola dissacrata è mero oggetto. Non schiude alcun istante numinoso per l’uomo: quello che accade è il processo inverso a ciò che Jung chiama “farsi anima”. La realtà senza accesso allo strato superiore ed interiore nel quale i simboli agiscono come gradienti collettivi di senso e significati, è una realtà piatta: bidimensionale: è la realtà duale, diabolica, informatica, di cui parla Jung.
La dualità dell’immagine di Narciso altro non è che la virtualità dell’immagine: demoniaco è il sistema binario motore della virtualità, virtualità che è il regno terreno dell’immagine. L’immagine virtuale non è altro da sé. Non ha visione, è puro scorrere, accadimento che la coscienza non registra. All’accadimento vuoto può opporsi solo l’enigma che la parola custodisce nei suoi anfratti di senso.
Questo, disgraziatamente, è il tempo di Narciso. Nel tempo di Narciso tutto è merce. La psicanalisi, dopo aver decapitato Jung annega nel dibattito, narcissico anch’esso, fra i tiranni della realtà e gli ammaliatori delle evanescenti polisemie percettive. La Chiesa cattolica è sull’orlo dello scisma più grave degli ultimi cinque secoli. Il sistema estetico, etico e politico, non ha più la mappa concettuale dell’inconscio collettivo in uso fino a metà Novecento: è stato postulato come vincitore accanto a un Dio quel diavolo della dualità che Jung identifica come forza di regresso.
L’atto maggiormente evidente del declino riguarda il Cristianesimo: è stato, infatti, il più grande serbatoio simbolico della civiltà occidentale, nonché la metafisica rilettura della grecità in senso trinitario, dinamico ed evolutivo. La filosofia e la morale cristiano–giudaiche sono state rese inaccessibili alle masse con atti di banalizzazione, nel quadro di un genocidio culturale complessivo.
Le intelligenze artificiali sono mero scambio binario d’informazioni e provabilità. E le guerre sono l’esito di una Mìmesis che non è frutto di assimilazione di sensi, ma gioco d’azzardo con l’inganno come scopo e il nulla come esito.

Gli archetipi furono e sono forze vitali psichiche che pretendono di venir prese sul serio e anzi nella maniera più singolare provvedono anche a farsi valere. Essi furono sempre garanti di protezione e salvezza e l’offesa recata ad essi porta la conseguenza ben nota alla psicologia dei primitivi, del pericolo dell’anima. Essi sono infatti moventi infallibili dei disturbi nevrotici e anche psicotici dato che essi si comportano esattamente come gli organi del corpo o i sistemi funzionali organici trascurati o lesi21 .

Gli archetipi si comportano come organi. Organi trascendentali nella definizione kantiana: modi di approdo e specificazione della conoscenza o veri e propri sensori della trascendenza, come nella dottrina dei sensi spirituali di Cristina Campo. Ma sicuramente rimangono un imprescindibile schema nell’orientamento dell’uomo.
Il più grande manuale per un orientamento archetipico dell’uomo occidentale – dell’umanità intera – mai utilizzato su vasta scala è stato per secoli il Cristianesimo, e nella sua estensione storica, il monoteismo di matrice giudaica, che fa dell’archetipo divino un vero e proprio compendio giuridico ad uso umano.
Venuto meno l’apporto etimologicamente radicale dell’archetipo cristiano, nelle società contemporanee, a chi o cosa viene affidata la cernita dei sensi (polisemici)? Senza la mediazione dell’archetipo cristallizzato in legge, senza la descrizione di quella parola sacralizzata fino ad essere incarnata in un Dio in condizione umana chi o cosa può orientare l’uomo? Nulla.
L’uomo orientato dal nulla si dirige al nulla dell’autodistruzione, come commenta perfettamente Michail Bulgakov, parafrasando la sorte eterna dell’ateo che mette in crisi di identità, negandone l’esistenza, il demonio stesso in visita a Mosca.
Le sorti della psicanalisi, che affronta una grave crisi (crisi già toccata alla metafisica), sono la cartina al tornasole della frattura fra senso e segno, data dalla scomparsa dell’archetipo come grande traduttore di segni in sensi. Rimane, da un lato, un iperrealismo autoritario, che attribuisce alla realtà univocità interpretativa; dall’altro, l’evanescente gioco del relativismo morale, che svaluta, di fatto, massificandola, ogni forma d’interpretazione del reale.
Quello che Heidegger chiamava circolo ermeneutico: segno, senso, enigma, come lo dice Bigongiari, è stato interrotto. La scienza dell’interpretazione è confusa con la superstizione. L’umanesimo, cioè il livello in cui estetica ed etica si fecondano per riverberare nella prassi della polis e della scienza che la regge, è percepito come inutile, e l’inutile è descritto come dannoso anziché essenziale.
E in ultima analisi l’epiteto di inutilità è l’unico che compete all’umanesimo, il cui tramonto già dolorosamente Heidegger intuiva.
Economia e tecnica non sostenute dall’umanesimo portano l’uomo alla distruzione del senso. Forse più che mai l’uomo può appellarsi alla parola estrema di Heschel: L’uomo non è solo22. Ma per questo appello occorre la temerarietà di Geremia, la dura frequentazione della Verità come virtù amara e guida suprema dell’etica. Occorre perseverare nella persecuzione. Null’altro è dato all’umanista contemporaneo, depositario del senso perduto in un’età buia.
Come può vivere l’uomo in un mondo deprivato del senso in favore dello scambio commerciale? Risponde uno dei primi interpreti della dottrina cristiana del senso, Paolo in una lettera ad una giovane comunità di adepti:

Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea. Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l’assemblea ne riceva edificazione […]. Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza. Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l’altro non viene edificato. Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue23.

La carità è la massima aspirazione del credente nel senso ed è l’intervento determinante nella risignificazione della storia singolare e collettiva. Quella risignificazione il Generato fa irrompere davanti all’assemblea, che non ha più motivazioni valide per lapidare l’adultera secondo la legge: la scrittura del perdono si esprime nella carità che destituisce il tribunale della tradizione e fa spazio a quell’imponderabile che pure accade.
E nella lettera di Paolo ricompaiono ricapitolati in una sintesi archetipica tutti i termini della riflessione di Heidegger, Jung, Heschel, Bigongiari: il dono delle lingue è prezioso, ma la profezia è preferibile perché il linguaggio si compie nella sua Aletheia interna, che è il senso disvelato un momento appena prima di tornare ad inabissarsi nell’enigma. Il profeta è infatti più grande del linguista, a meno che il linguista non abbia il dono dell’ermeneutica che permette una diffusione universale del senso trattenuto dal Sacro. Questa interpretazione donante del Senso “edifica” la collettività attorno al senso e al Sacro che da esso promana per una sussunzione simbolica, di volta in volta, disvelata nella pratica esegetica.
L’atto sacro del disvelamento è dissigillato nel corollario archetipico della liturgia: la preghiera. Si chiede Paolo: è allora più fruttuoso l’appello all’intelligenza o allo spirito nell’esercizio ermeneutico che fa scorgere ed edifica il senso per la collettività? Come nella relazione fra linguaggio e profezia, intelligenza e spirito si contemplano reciprocamente in un fruttuoso riverbero solo se il terzo, la carità, la cognizione dell’Altro da sé come valore intrinseco del sé s’impone come apice.
Al di fuori di questo c’è il nulla, una concatenazione di fatti senza interpretazione: la dualità perfetta: l’apoteosi del demoniaco come lo descrive Bulgakov:

E un fatto è la cosa più ostinata del mondo. Ma adesso ci interessa quel che accadrà dopo, e non un fatto che è già compiuto. Lei è sempre stato ardente fautore della teoria che, una volta tagliata la testa, non c’è più vita nell’uomo, e lui si trasforma in cenere e finisce nel non essere. Sono lieto di annunciarle, in presenza dei miei ospiti, che pure sono prova della teoria opposta, che la sua di teoria è seria e intelligente. Del resto una teoria vale l’altra. Ce n’è una secondo la quale a ciascuno verrà dato secondo la sua fede. E che questo si avveri! Lei se ne andrà nel non essere, e io avrò il piacere di brindare alla salute dell’essere nella coppa che lei diventerà!24

Note

  1. P. Bigongiari, Poesie, a cura di G. Quiriconi, Jaca Book, Milano, 1994.
  2. Cfr. A Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Torino, Einaudi, 2003.
  3. Cfr. G. Barbiero La risposta di Israele al tema dell’esilio in Dio lo vuole, a cura di E. Bordello e D. Moretto, Camaldoli-Arezzo, Edizioni Camaldoli, 2021.
  4. Secondo il Treccani: “Voce genovese di origine onomatopeica, entrata nell’uso attraverso il linguaggio marinaresco – Brontolio, espressione di scontento e di protesta, prolungata e fastidiosa”. L’origine del contrasto di marineria, con il mugugno o senza il mugugno, risale ai primi anni del Trecento: appare a più riprese, in effetti, nei codici giuridici di regolamentazione delle navigazioni genovesi. Più precisamente, l’ingaggio dei marinai con il mugugno prevedeva una riduzione della paga a fronte del diritto di lamentarsi, durante la navigazione, per le condizioni di lavoro.
  5. Nella traduzione di Barbiero è qui riportato il Tetragramma che io non scrivo e non pronuncio, per ortodossia.
  6. Ibidem.
  7. Vangelo secondo Giovanni 8, 1-11, La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 2000.
  8. “… il trastullo è ‘prima di tutto’ un passatempo. Il poi di questo prima concerne due sensi ulteriori del termine: quello figurato, per il quale vale come capriccio del caso (l’essere, ahinoi, trastullo della sfortuna), e quello arcaico che lo apparenta al diletto spirituale e alla consolazione” (M. Morasso, Il trastullo senza calcoli ci fa tornare bambini, in “Il Secolo XIX”, 1 ottobre 2024).
  9. Cfr. Jan Assmann, La distinzione mosaica, Milano, Adelphi 2011, passim.
  10. G. Borgonovo, Incarnazione del “Logos”. Il “Logos” giovanneo alla luce della tradizione giudaica, Milano, Book Time, 2021, pp. 11-13.
  11. M. Hedegger, Sentieri interrotti, a cura di. P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 6.
  12. Cfr. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1988, passim.
  13. Vangelo secondo Giovanni, 8, 12-21, La Bibbia di Gerusalemme, cit.
  14. Ivi, 14, 6.
  15. C.G. Jung, Psicologia e religione, Roma, Edizioni di Comunità, 1962, pp. 84 ss.
  16. Voce “abnegazione” nel Treccani.
  17. P. Bigongiari, “Nell’inganno della soglia” ovvero l’altro nello specchio di Narciso, in “Approdo letterario”, 3, 1975.
  18. P. Bigongiari, “Col dito in terra”, in Id., Nel delta del Poema, Milano, Mondadori, 1989, pp. 23-24.
  19. H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2017, pp. 176-178.
  20. Come risaputo, l’Imitatio Christi è un testo pressoché imprescindibile nella spiritualità antica e moderna; celebre fin dal basso Medioevo, è solitamente attribuito a Tommaso da Kempis (1380-1471) – altre attribuzioni (Gersone di Vercelli, Jean Gerson et alii), peraltro, appaiono tuttora non meno plausibili. L’opera, svolta in forma di dialogo tra Dio e l’anima del credente, trae il titolo dal 1° cap. del 1° libro (De imitatione Christi et contemptu omnium vanitatum mundi) ed è composta da quattro libri: Admonitiones ad spiritualem vitam utiles; Admonitiones ad interna trahentes; De interna consolatione; De sacramento altaris (in forma dialogica tra «il diletto» e «il discepolo»). Il testo, di origine monastica forse benedettina, contiene precetti per una intensa vita interiore (libri 1°-2°), che si chiarisce come vita di grazia (libro 3°), alimentata dalla consuetudine eucaristica (libro 4°). L’esperienza religiosa si edifica nella mortificazione e si completa nella pratica quotidiana delle virtù cristiane, culminando nell’unione con Cristo in uno slancio d’amore.
  21. C.G. Jung, Opere, vol. 9, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 326.
  22. Cfr. A. J. Heschel, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, Milano, Rusconi, 1987, passim.
  23. Lettere di Paolo, Prima lettera ai Corinzi,14, 1-6, 16-19; La Bibbia di Gerusalemme, cit.
  24. M. Bulgakov, Il maestro e Margherita, a cura di S. Tardino, Milano, Rusconi, 2018, p. 207.

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