Giuseppe Mazzini e la musica europea: “Sola favella comune a tutte le nazioni”

Giovanni Greco, Giuseppe Mazzini e la musica europea: “Sola favella comune a tutte le nazioni”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 26, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12874
Jane Carlyle, a suo tempo, ammirandone a Londra l’altezza intellettuale, la strenua, indefessa operosità per l’Italia e per la libertà dei popoli, scrisse che non aveva mai conosciuto un uomo che, più di Mazzini, si fosse fatto volontariamente “carne tritata per l’universo”.
Marco Veglia, Miss Uragano e la biografia di Mazzini [2009]
L’Italia: metà terra degli dei e metà munnezza
Noi oggi viviamo in un mondo che – per usare un’espressione di Mazzini (1805-1872) – “non è uno spettacolo, ma un campo di battaglia”!
Oggi viviamo in un Paese ove si svolge una politica senza dignità, senza intelligenza, senza radici culturali, ridotta a mera, squallida tecnica del potere. Un Paese che a volte sembra in grado di digerire tutto: la corruzione, la mediocrità, la mollezza degli apparati, la pieghevolezza dei politici con un’etica… spesso patetica! Sopravviviamo, in sostanza, a una classe politica che de facto disprezza il popolo italiano; parallelamente, il popolo italiano disprezza la propria classe politica, tant’è che alcuni politici andrebbero cambiati spesso, come i pannolini, e per la stessa ragione.
Quando nel 1796, dieci anni prima della nascita di Mazzini, Goethe visitò non senza amore fondo l’Italia, la definì metà terra degli dei e metà munnezza: e se potesse visitarla oggi che mai direbbe? E cosa direbbe Giuseppe Mazzini che a Londra nel 1837 dovette impegnare il mantello, l’anello della madre, l’orologio, alcuni suoi libri e talune carte geografiche per sbarcare il lunario, che direbbe Mazzini che quando scriveva una lettera vergava a lato “Lettera aperta e non sigillata per risparmiare alle Poste la fatica di aprirla”, che direbbe Mazzini che aveva tanto sofferto le ingiuste pene dei tribunali?
Le condanne subite da questo “filosofo dell’avvenire” in diversi tribunali della penisola portarono Mazzini alla latitanza, in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, braccato a Pisa dalle guardie sabaude come un criminale, ma anche al carcere a Gaeta per esempio o alla fortezza del Priamar a Savona. Quando nel 1870 lo condussero prima nella fortezza di Gaeta, nel padiglione Santa Maria, e poi da lì al locale castello, il colonnello Perotti che cercava di soddisfare i suoi desideri, in certi limiti, ogni tanto gli portava fiori inviati da sua moglie Fulvia, che nutriva simpatia e stima non comuni per il prigioniero; addirittura una volta, tramite il marito, gli chiese un autografo. E Mazzini le rispose: “Perché donna gentile mi chiedete un autografo? Per temperare con un cortese pensiero le noie della mia solitudine? Eccovelo ad ogni modo. Noi non ci conosciamo di persona, ma santo è qualunque contatto delle anime. Io ricorderò, pensando alla gentile richiesta che, come tra le nevi delle Alpi, il viaggiatore incontra la rosa, anche nella prigionia di Gaeta ho potuto cogliere il fiore dell’anima”. E dopo l’amnistia volle andare a conoscerla per ringraziarla.
Quando, nel 1830, lo portarono nella fortezza del Priamar a Savona, durante un trasferimento il padre era riuscito a saperlo ed “io sentii la voce inaspettata di mio padre che mi confortava ad avere coraggio. Ricordo ancora con un fremito i modi brutali dei carabinieri che volevano allontanarlo, e nel sospingermi dalla portantina alla vettura, riuscii appena a sfiorargli la mano e ricordo il loro avventarsi furente”.
Giunto alla fortezza, il governatore di Genova De Mari andò a riceverlo blaterando della “tranquillità salutare” e Mazzini allora gli chiese una birra e un sigaro ma De Mari gli disse che avrebbe dovuto scrivere ai superiori “per vedere se poteva concedersi”. Questa risposta, racconta Mazzini, “mi fece piangere, quand’ei fu partito, le prime lacrime dell’imprigionamento, erano lacrime d’ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio d’uomini che disprezzavo”.
Ma non fu tutto così perché il sergente delle guardie tal Antonietti “m’era custode benevolo” e ogni sera immancabilmente “mi diceva mettendosi sugli attenti se avessi dei comandi, ed io sistematicamente rispondevo, un legno per Genova”, e il comandante Fontana che, nottetempo, lo portava nella sua casa, nella foresteria del carcere a mangiare e a prendere un caffè – con la di lui moglie signora Caterina “piccola e gentile” (“povero figliolo siete così smagrito”) e che gli faceva anche l’adorato minestrone alla genovese e gli spaghetti alla carbonara (sic!), e Mazzini: “finché campo mai la dimenticherò”.
Come compagni ebbe le grida dei pescatori e un lucherino, un uccelletto capace d’affetto. Perciò anche nella cella n. 54 Mazzini ha vissuto frammenti di umana convivenza e l’umanità che noi cerchiamo sempre forse è racchiusa anche in piccoli grandi gesti come questi, che rappresentano una formidabile speranza per il futuro.
La musica è profumo dell’universo
Giuseppe Mazzini, a parlar schietto, è stato anche – e a pieno titolo – un musicologo “di razza”: non tanto, sia ben chiaro, per le ingiustizie e le vessazioni subite e sopportate con dignità, non tanto perché è uno dei padri della nostra “povera patria”, non tanto perché è stato un uomo integerrimo, incorruttibile, non tanto per i suoi alti principi morali, non tanto per la strenua difesa dei diritti umani in generale e di quelli delle donne in particolare, non tanto perché appartenente alla Massoneria internazionale ed italiana in ispecie, ma perché è stato un eccellente studioso dell’arte musicale, culminata nella sua Filosofia della musica, un appassionato delle armonie melodiche, accorato suonatore di chitarra, nonché autore di numerosi pezzi in prosa e in versi poi deliziosamente musicati.
Infatti per Mazzini la musica ha sempre rappresentato il linguaggio in grado di trascendere le divisioni tra popoli e culture diverse. Sostiene assai opportunamente Maria Chiara Mazzi a cui di primo acchito, in relazione a un protagonista così grande del risorgimento italiano, risulta difficile immaginare il valore che Mazzini ha sempre conferito alla musica. Finanche durante l’esilio e la prigionia chiedeva alla madre di inviargli “qualcosa di concertato, qualche duetto per flauto e chitarra d’autori buoni, eccettuato Carulli che scrive troppo facile; poi qualche cosa per violino, flauto e chitarra, per esempio certe sinfonie della Gazza ladra, del Barbiere o qualche quartetto di Paganini”.
Senza dimenticare il piacere che provava suonando da autodidatta le sue bramate chitarre, conservate ora una alla Domus mazziniana di Pisa, un’altra all’Istituto Mazziniano di Genova (entrambe marcate “Gennaro Fabricatore”, Napoli strada San Giacomo 42) – Fabbricatore detto “il Fabricatoriello”. La terza chitarra è di proprietà del Maestro Marco Battaglia, acquisita nel 2005, appartenuta alla madre e sulla quale Mazzini aveva cominciato a imparare i primi rudimenti musicali e che “mi faceva tanta compagnia”. A Pisa e a Genova sono peraltro conservati gli spartiti musicali patriottici raccolti dallo stesso Mazzini negli anni sessanta.
Quindi l’amore per la musica è frutto dell’eredità culturale della madre, Maria Drago, suonatrice dilettante di chitarra, aggiornatissima sulle novità musicali e convinta assertrice dei valori trasmessi dalla musica e che aveva saputo inculcare al suo figliolo.
Non casualmente Aurelio Saffi ricorda: “Mazzini amava, sapendosi solo e non ascoltato, talora fra il giorno, più spesso a tarda notte, cantare sottovoce accompagnandosi con la chitarra. Aveva tal voce che, modulata dal canto, scendeva al cuore. Mi rammento l’impressione che faceva l’udirlo cantare in tal guisa a Roma, in qualche momento di ristoro dagli affari nella sua camera privata al Palazzo della Consulta”.
In effetti, per Mazzini suonare la chitarra significava il rispetto per le pregevoli tradizioni musicali genovesi, la pace domestica, ritornare con la memoria al tempo della fanciullezza, a quell’epoca serena e spensierata in cui persino un parente, colonnello di artiglieria, consigliava di avviare il giovane filosofo in pectore verso l’arte dei suoni. Intorno al camino, la famiglia tutta insieme è raccolta intorno a un altro non meno caldo focolare domestico, la cara compagna di un discreto benessere, la sua amata chitarra. Mazzini utilizzò la chitarra, il violino e il pianoforte per organizzare piccoli concerti di beneficenza per i figli poveri degli emigranti italiani a Londra che cercava di togliere dalla strada mettendo in piedi un trio musicale con le due sorelle Ashurst.
A quell’epoca vi erano a Londra centinaia di bambini italiani provenienti dalla Ciociaria, dalle montagne nei pressi della Valle di Comino nel Lazio, da Picinasco, da Villa Latina nei pressi di Frosinone e dalle Mainarde molisane. Questi bambini affamati e malfamati, sporchi e laceri vivevano in tuguri ripugnanti soprattutto nel quartiere di Clerkenwell, la “Little Italy” londinese, ricca di italiani emigrati e di rifugiati politici. Questi ragazzini erano costretti a vendere santini o statuette di gesso, a tenere il banchetto dei fiammiferi, a lavorare per pochi soldi in alcuni negozi e fabbrichette, a fare gli sguatteri, i facchini, i lavapiatti, i mendicanti, gli spazzacamini, i suonatori di organetto.
Mazzini non fu certo indifferente a questo sconcio, ben conoscendo le violenze, le privazioni, lo sfruttamento che veniva subìto da quei ragazzi e, dunque, non lesinò aiuti pratici e sostegni di ogni sorta, anche a costo di personali ulteriori rinunce. Ancora, il 10 novembre 1841 fondò ad Hatton Garden vicino a una neonata chiesa italiana, quella di Saint Peter, una scuola con l’importante sostegno della vedova di George Byron, dell’eclettico e, talora, illuminante Thomas Carlyle, che definì la scuola “un nido di giovani rivoluzionari”, dei poeti Rob Browning e Algernon Swinburne, oltre al notevole patrocinio di Charles Dickens.
Creò dunque una scuola ovviamente gratuita per questi ragazzi, puntando sulla cultura e sulla istruzione, una scuola aperta tutti i giorni e, mentre durante la settimana si alternavano studiosi, maestri, intellettuali, la domenica era lo stesso Mazzini a fare lezioni di cultura italiana con i bimbi che lo chiamavano familiarmente “Pippo” (M. Santulli). La scuola ebbe eccellenti riscontri tant’è che durò circa trent’anni (cfr. M. Finelli, Il prezioso elemento. Giuseppe Mazzini e gli emigranti italiani nella esperienza della scuola italiana a Londra, Rimini,1999).
Quante splendide somiglianze con l’esperienza di Barbiana di don Lorenzo Milani, profondamente convinti entrambi che la cultura è formazione, è educazione, che la cultura serve per non essere servi, una scuola aperta per ridare giustizia ed eguaglianza ai giovani poveri, e che, come amava dire don Milani, “una parola che non sapete oggi, è un calcio nel sedere che prenderete domani”.
Dunque lezioni ai bimbi, chitarra, musica, un clan di donne spasimanti, amante appassionato, tanti caffè, sigari toscani, birra Swan Brewery, i biscotti del Lagaccio, la focaccia con la salvia, i corzetti al pesto, i fichi di cui era golosissimo, il plum-pudding (dolce natalizio inglese a forma di zuccotto: “da vero barbaro ho mangiato più del pudding che del resto”), la torta pasqualina, il cioccolato (“il cioccolato ha mille pregi: consola dai fallimenti, dai tradimenti, dalle ingiurie della vita, dalla malinconia per le passioni perdute e per quelle mai avute”), romanzi d’avventura da “Cime tempestose” ai “Tre moschettieri”, un linguaggio colloquiale fresco, brillante, sentimentale, arguzia e ironia da vendere: un uomo capace di fare salti di gioia “quando arrivava il pacco da giù”, altro che triste musone, burbero e austero o “l’uomo che non rise mai”!
Accanto allo studio per affinare una tecnica tutt’altro che rudimentale nel suonare la chitarra, Mazzini cominciò a occuparsi di musica anche dal punto di vista tecnico, come studioso competente e rigoroso.
In particolare, scrisse la Filosofia della musica: pubblicata nel 1836, ne è ancora conservato il manoscritto originale con lo spartito musicale autografo, nonché col “Canto delle mandriane” bernesi, che riecheggia un canto popolare svizzero ascoltato durante il periodo in cui era esiliato a Grenchen, oltre ad alcuni spartiti musicali patrocinati da Mazzini negli anni sessanta. Infatti nel suo esilio svizzero Mazzini trascrisse numerose melodie e canti popolari tipici del territorio anche grazie alla rinomata tipografia elvetica di Capolago. In una lettera alla madre, scritta sotto mentite spoglie, raccontò dei canti dei mandriani che tanto lo avevano affascinato: “Sono curiosi questi canti, consistono in un continuo saliscendi dal basso all’acuto che ha qualcosa di doloroso. Dovrei dire di dolcemente doloroso. Appena riavrò la chitarra con me voglio scrivere qualcosa, voglio provarci. Io potrei vivere tutta la vita in una camera. Ma così senza libri, senza chitarra, senza cielo sarebbe troppo. Giuseppina”. Quando nel 1852 morì la madre, modulò “una mesta canzone”, tenera ed appassionata.
Di certo la più compiuta riflessione mazziniana sulla musica è contenuta in questa sua opera, che era comparsa a puntate su “L’italiano”, rivista promossa a Parigi dal Mazzini e da altri esuli di orientamento democratico. Il testo rifletteva sul senso del melodramma in epoca risorgimentale, influenzato fortemente dall’ambiente culturale francese, anche in base ai lavori di Friedrich Liszt, poneva la musica come strumento fondamentale per arrivare alla natura autentica di un popolo, incitando peraltro i giovani a studiare e ad impegnarsi per la creazione dei ”canti nazionali delle storie patrie”.
In Filosofia della musica Mazzini invocava un intreccio sempre più stretto fra la musica e il recitativo, nel melodramma auspicava lo sviluppo di un coro che rappresentasse sempre di più l’anima di un popolo e la sua identità collettiva, e si augurava che la poesia non fosse più “serva della musica, ma sorella che con essa armonizza”.
In buona sostanza, la musica doveva avere il profumo dell’universo, musica come purificazione, come bellezza dell’etica e per dirla con le stesse parole di Mazzini: “L’arte musicale non è la fantasia, il capriccio d’un individuo: è la grande voce del mondo e di Dio, raccolta da un’anima eletta e versata agli uomini in armonia. L’arte non è un fenomeno isolato, sconnesso, inesplicabile, essa vive della vita dell’universo”.
Per comprendere meglio quest’opera, va esaminato il lavoro di Stefano Ragno, che al saggio mazziniano ha dedicato un’edizione critica di gran pregio nel 1996, nel mentre molte parole della Filosofia della musica “sono state pienamente tradotte in cori come quello del Nabucco (il celeberrimo Va pensiero), de I lombardi alla prima crociata (Oh Signore, dal tetto natio) e dell’Ernani (Si ridesti il leon di Castiglia)” (S. Ricci).
Liszt insieme a Paganini, a Rossini, al Roberto il diavolo di Meyerbeer – “è il più grande artista di questo periodo di transizione” –, al Don Giovanni di Mozart e a tanto, tantissimo altro: tale vario e vasto patrimonio rappresentava, per Mazzini, un nucleo essenziale a cui ispirarsi, così come fu di gran rilievo per lui l’incontro e l’amicizia con Giuseppe Verdi.
Nel 1848 Mazzini inviò a Verdi un Inno scritto da Goffredo Mameli, antesignano del Canto degli italiani “così l’autore del futuro inno nazionale, il profeta dell’unità d’Italia e il più grande musicista italiano del risorgimento si trovarono accomunati in un unico testo”. Certo è che L’inno delle nazioni del 1862 scritto da Verdi, rappresentava esattamente ciò che Mazzini intendeva in fatto di convivenza europea in una grande, consapevole armonia legata dunque al sogno di un’Europa libera e unita.
Di particolare rilievo per lui anche l’opera di Donizetti in quanto progenitore del rinnovamento, convinto com’era, per esempio, che nel Marin Faliero le frasi drammaticamente spezzate e asciutte risultassero perfette per marcare talune idee politiche. In realtà, per Mazzini bisognava “trarre la musica dal fango” per ricollocarla accanto al legislatore e alla religione, dato che musica e rivoluzione rappresentavano per Mazzini “un’unica corda dell’anima”.
Humanitas: restiamo umani
I marchi distintivi di Giuseppe Mazzini sono stati il ritegno, la dignità, la curiosità, l’accoglienza, la sua grande capacità di superare il dolore, il dolore fisico, il dolore morale, il dolore delle bugie, dei tradimenti e degli inganni, un dolore che seppe tramutare in coraggio: chi non è andato a scuola dal dolore, non è andato a scuola!
Giuseppe Mazzini, espressione tipica di un mondo che soffre, è stato un grande seminatore di pensieri. Ci ha insegnato soprattutto che contano davvero alcune cose: la cultura innanzitutto, che è formazione, che è dirittura morale, che è conquista giornaliera, che è come donare dell’acqua, nonché la gentilezza autentica: quale saggezza puoi trovare che sia più grande della gentilezza? Mazzini, fra il resto, in una lettera a un amico scrisse: “Da giovane ammiravo le persone intelligenti, ora ammiro le persone autenticamente gentili come la cara signora Caterina”: la gentilezza è anche educazione ed è il pane dell’anima.
Anche per quanto riguarda gli aspetti europeistici, l’Europa dei popoli, non può sorprenderci che la parola d’ordine voluta da Mazzini per il riconoscimento degli affiliati per la “Giovane Europa” fosse appunto humanitas. Mazzini è stato davvero il profeta dello spirito dell’umanità. Attualmente, ahinoi, vi è però più richiesta che offerta di umanità.
Umanità, affetto, partecipazione, complicità che Mazzini aveva sempre ricevuto dalla sorella Antonietta: “ricordo la tua visita nella caserma dei carabinieri, dove sino un carabiniere, giovine alto, che non ho mai più dimenticato, fu commosso dalle tue lacrime” e, soprattutto, da sua madre Maria Drago. Quest’ultima, profondamente incardinata nelle idee e nell’animo del figlio, lo aveva aiutato, sostenuto, foraggiato in tutto, eludendo sia gli apparati statali sia i voleri del marito, al punto da far sostenere a Giovanni Gentile che “il nucleo vivo dell’anima Giuseppe Mazzini l’ebbe dalla madre” e che quasi certamente “la personalità della madre era ancora più forte di quella del figliolo”. In senso lato si può sostenere che Maria Drago, attraverso l’operato del figlio e suo, sia stata la madre simbolica degli italiani e quindi una delle fondatrici del risorgimento italiano. Persino quando Maria Drago morì nel 1852 sostanzialmente rese l’ultimo servigio al figlio, data l’enorme partecipazione popolare di cittadini, di barcaioli, di pescatori, di lavoratori, di portuali, di associazioni operaie e di mutuo soccorso, in un tripudio di bandiere rosse e tricolori, al punto da far sostenere a Pisacane: “l’accompagnamento del suo cadavere è stata una imponente manifestazione politica”. Lungo il tragitto ogni casa accese un lume e nella rada di Genova le navi inglesi, danesi, svedesi, olandesi e americane ammainarono le bandiere. E l’orgoglio di aver generato quel figlio la madre volle mostrarlo anche alla fine, quando diede disposizioni che, sulla sua tomba, venisse apposta solamente una frase: “Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini”.
La Massoneria come terapia sociale
Nel 1901 il padre gesuita Hermann Gruber, membro della redazione di “Civiltà cattolica”, pubblicò Mazzini, massoneria e rivoluzione confermando piuttosto autorevolmente che “Mazzini era massone” e che sin da giovane avesse familiarità con la massoneria anche perché suo padre Giacomo, medico e professore universitario, faceva parte della loggia genovese “Gli indipendenti”.
Anche Indro Montanelli su “Il corriere della sera” e Massimo della Campa in una “Nota su Mazzini” ne hanno confermato l’appartenenza.
Nel carcere savonese Francesco Passano, vecchio carbonaro e massone, lo avrebbe “iniziato”, anche se in modo piuttosto anomalo e, come dire, artigianale. L. Fazzari e F. Borsari ricordano l’episodio nella dispensa Luce e concordia del 1886.
André Combes, autorevole storico appartenente al Grande Oriente di Francia e direttore dell’Istituto di studi e ricerche massoniche, ha sanzionato la partecipazione di Mazzini alla loggia londinese i “Philadelphes”, un’officina costituita prevalentemente da esuli francesi e italiani, ove si riunivano esponenti di rilievo dell’internazionale socialista e dell’universo democratico, propensi a vivere l’esperienza latomistica su posizioni antipapiste.
Nel 1869 la loggia “Stella d’Italia” all’Oriente di Genova elesse Mazzini come membro onorario alla stregua della loggia “Lincoln” di Lodi, e Mazzini così ritenne di rispondere: “Al M.V. G. B. Filippacci: La vostra loggia è composta da operai e ne vedo Venerabile un uomo a cui strinsi con affetto la mano quando anni or sono io m’adopravo, celato in Genova, a un’impresa generosa di Pisacane che fallì, ma preparò l’avvenire. Vostro ora e per sempre ”.
In occasione dell’arresto del Mazzini a Palermo nel 1870, poi relegato nel forte di Gaeta, la loggia “Progresso sociale” di Firenze prese la seguente deliberazione: “I liberi muratori della loggia “Progresso sociale” di Firenze, avendo appreso dai giornali che il loro illustre maestro e fratello Giuseppe Mazzini è stato tradotto nella fortezza di Gaeta e sottoposto ad accusa, deliberano di mandare un fraterno saluto al grande cittadino, e di mettersi in tutto a sua disposizione, onde contribuire a rendergli più lievi le amarezze del carcere. Il M.V. G. Gherardi”.
Quando Mazzini morì, il GOI pubblicò la seguente dichiarazione: “Giuseppe Mazzini ha cessato di vivere. L’Italia nostra piange sul feretro del più grande, del più amoroso dei suoi cittadini. L’Ordine massonico è immerso nel cordoglio per la perdita del più ardente suo apostolo, del più prode e del più santo dei suoi figlioli. […] Noi figli della vedova, più di tutti, proviamo l’amaro vuoto che questa morte ha lasciato fra noi. La mestizia che occupa i nostri cuori deve con segno esterno manifestarsi, laonde tutte le Officine della Comunione, prenderanno il lutto per sette sedute consecutive. Il G.M. Giuseppe Mazzoni”.
La Rivista Massonica, il 16 marzo 1882, affisse nelle pubbliche vie questo manifesto: “Il GOI invita tutti i liberi muratori, a qualunque nazione appartengano, a raccogliersi domenica mattina alle 9 nella piazza del Popolo verso il Pincio, per prendere parte alla cerimonia funebre in onore del defunto fratello Giuseppe Mazzini. Il G.M. Giuseppe Mazzoni”. Ai funerali parteciparono 153 logge con i loro rispettivi làbari.
Giordano Gamberini certificò l’appartenenza di Mazzini alla massoneria nel testo Mille volti di massoni, Roma 1976. Al riguardo è certamente definitivo il contributo di L.P. Gaja, C. Muscato, M. Neri intitolato Il bussante, con prefazione di Stefano Bisi, Sesto San Giovanni, 2015. L’ultimo atto di deferenza nei confronti di Mazzini da parte del GOI è stato proprio l’ultimo 10 marzo che, oltre a essere la data della sua dipartita, è anche il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti.
Dei doveri dell’uomo
Mazzini combattè per tutta la vita contro la corruzione a tutti i livelli, convinto che solo con ideali autentici la si poteva contrastare. Combatté per i Doveri dell’uomo, il cui incipit suona così: “Io voglio parlarvi dei vostri doveri. Voglio parlarvi, come il core mi detta, delle cose più sante che conosciamo, di Dio, dell’umanità, della famiglia, della patria”. E lui non combatté solo per la nostra patria (“la patria è la casa dell’uomo non dello schiavo”), bensì per ogni paese oppresso, combatté per le problematiche del mondo femminile, per la donna, per le donne lavoratrici (“la donna è la carezza della vita, essa è l’iniziatrice dell’avvenire”) e, al riguardo, ha avuto aperture mentali che, a distanza di un secolo e mezzo, non appaiono ancora, purtroppo, del tutto realizzate. E se alcune donne non riescono ad ottenere i risultati di certi uomini è perché – presumibilmente – non hanno le mogli che le aiutano. Mazzini fu sorretto fortemente nel suo operato dall’amatissima patriota milanese Giuditta Bellerio Sidoli, arrestata a Modena, e a cui Mazzini vorrà bene per sempre: “Sorridimi. è il solo sorriso che mi venga dalla vita”.
A certi uomini del suo tempo disse: “Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità, non ne avete alcuna”. Quando su ispirazione mazziniana a Parma Giovanna Bertola fondò “La voce delle donne”, il vescovo della città invitò a non comprare questo giornale perché “irreligioso e spudorato”.
Forse però il ritratto più bello che Mazzini abbia mai ricevuto viene non da un italiano ma da un connazionale di Mozart, da Klemens von Metternich, Cancelliere di stato dell’impero austriaco: “Nessuno mi dette fastidi maggiori di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha un nome: Giuseppe Mazzini”. Del resto, anche Giosue Carducci, all’esule mite e severo, all’”ultimo dei grandi italiani antichi e al primo dei moderni”, aveva dedicato versi affettuosi: “Tu sol – pensando – o ideal, sei vero”.
In fondo, la fine di un uomo non è in terra, ma nel cuore degli uomini, e noi siamo fortunati perché, ancora una volta, ci stringiamo intorno al massone Giuseppe Mazzini, “un mistico” per Gaetano Salvemini, un uomo che considerava la Massoneria come terapia sociale e la musica europea “come la sola favella comune a tutte le nazioni”.
Dopo l’impresa dei Mille, Garibaldi a Londra, al termine di una cena, brindò in onore del grande genovese con queste parole: “Oggi voglio pagare un debito che avrei dovuto pagare molto tempo fa. Tra noi c’è un uomo che ha reso i più notevoli servizi al mio paese e alla causa della libertà. Un uomo che da solo ha sempre vegliato quando tutti gli altri attorno a lui erano addormentati. Un uomo il cui fuoco sacro dell’amor di patria e della libertà non si è mai affievolito. Quest’uomo è Giuseppe Mazzini, levo un brindisi a lui, all’amico, al maestro”.
Il 10 marzo 1872 Mazzini muore a Pisa, ove finisce la sua lezione morale, e così anche la sua musica termina lì. O forse per tanti continuano entrambe a riecheggiare nell’aria.
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