Un dittico pucciniano – parte seconda. Le donne di puccini: “Recondita armonia di bellezze diverse…”

Rita Belenghi, Un dittico pucciniano – parte seconda. Le donne di puccini: “Recondita armonia di bellezze diverse…”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 25, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12870
Un dittico pucciniano. Parte prima. Un’introduzione storico-critica a Puccini
1. In teatro e fuori…
Nonostante i primi esperimenti ancora incerti dei personaggi di Anna e Fidelia, le eroine positive delle Villi e di Edgar, diametralmente opposti a quelli della “sirena di Magonza” e di Tigrana, le “cattive” delle medesime opere, non c’è dubbio che i personaggi femminili delle opere pucciniane successive siano creature interessanti, complesse e problematiche, che offrono prospettive di lettura ed interpretazione non schematiche sul femminile.
Nella drammaturgia pucciniana, l’elemento femminile è dominante e non è funzionale soltanto all’opera in se stessa, come momento di rappresentazione e di spettacolo, ma è un elemento nel quale la sensibilità stessa dell’artista, la sua anima in fondo più autentica, trova il veicolo espressivo più congeniale ed efficace. La poetica pucciniana della femminilità s’incentra sull’assunzione a protagonista di quel particolare nodo drammatico che consiste nel conflitto tra il desiderio di felicità e le condizioni della realtà che ne impediscono la realizzazione piena, tra piacere e realtà, tra amore e colpa e, infine, tra amore e morte.
Il dramma di fine Ottocento, concentrato nella riflessione sull’azione della donna come elemento catalizzatore della crisi, provocata peraltro dalla donna stessa, offrì a Puccini un vasto repertorio di osservazioni, di spunti sulla femminilità in perenne e lacerante conflitto con i valori dominanti, espressione della mentalità maschile e borghese dell’epoca, quelli cioè della purezza virginale, della famiglia, dell’amore e della maternità: se, all’inizio, esistono confini netti tra la vergine, virtuosa e fedele, e la mortifera maliarda, in seguito i confini diventano più fluidi, si stemperano e si ricompongono in modi più morbidi e dolenti nel caleidoscopio delle eroine del dramma borghese di Illica e Giacosa per riassumersi, infine, nell’irreale colore di ghiaccio di un’eroina da fiaba, prigioniera di una ragnatela di crudeltà, la principessa “lunare” Turandot.
L’opera pucciniana seppe articolare le convenzioni giungendo a risultati tra i più rilevanti del nostro primo Novecento: assorbita la capacità psicologica di Giacosa in Manon Lescaut, Bohème, Tosca e Madama Butterfly, utilizzati tutti gli ingredienti fondamentali, cioè matrimoni, convivenze, gelosie, adulteri, maternità e generali amarezze, con La fanciulla del West Puccini costruì una situazione in cui la morte della protagonista è solo sfiorata. Minnie riproduce il modello di una donna attiva, libera, virginale, che abbandona la propria comunità per creare, per sé e Johnson, un ambiente nuovo, libero da pressioni e convenzioni etiche e sociali in cui sperimentare con fortuna un amore felice. Manon e Des Grieux avevano cercato quella condizione in Louisiana, ma non erano stati altrettanto fortunati; Magda, fuggita da Parigi verso il sole del Mediterraneo per proteggere un amore felice viene riportata indietro, sconfitta dai ferrei codici sociali dell’etica familiare; Mimì, libera, attiva e fondamentalmente onesta è, però, priva dei fondamentali requisiti matrimoniali e muore non potendo eludere la propria condizione.
Alla luce di queste considerazioni trova una spiegazione anche la mancata collaborazione con d’Annunzio: egli era impegnato nella lotta al teatro borghese, nella conversione della prosa in versi, del presente in mito ancestrale; non solo, ma la sua donna era molto lontana dalle donne pucciniane, spezzate da un destino sentimentale al quale soccombono, inadeguate al mondo e alle sue regole. L’incompiuta Turandot cerca la sintesi del percorso in Liù e Turandot, modelli supremi di un’estetica del femminile che ha radici mitiche e, insieme, contemporanee. L’abnegazione di Liù, il suo sacrificio per amore sono la condizione necessaria per il completamento di Turandot, il coronamento del percorso iniziato con Le Villi.
Creatore geniale di personaggi femminili che raccontano dal palcoscenico la modernità dei sentimenti, quasi a riprova della difficoltà di stabilire quanto l’opera dell’artista possa essere messa in relazione con il suo carattere, la sua personalità, il suo comportamento quotidiano, nella vita fuori dal teatro Puccini, nei confronti delle donne, era un uomo simile a tanti altri suoi contemporanei, mosso da forti istinti sessuali che lo portarono fin troppo spesso a guardarsi intorno; egli aveva bisogno di donne, almeno quanto ne ebbe Wagner e se, a differenza del maestro tedesco, egli non fu troppo esigente con le proprie amanti, era però un amante volubile, egoista, avaro nei sentimenti, probabilmente incapace di pensare sé e la propria compagna sullo stesso piano quanto alle necessità dei sentimenti, affettava dolcezza e fedeltà, pronto, però, a risentirsi quando questa veniva messa in dubbio. Il suo atteggiamento trovava la propria giustificazione nella mentalità imperante, costruita su idee e su un’etica maschile ben precisa quanto al ruolo della donna, sul quale c’erano ben pochi dubbi ed al quale non si concedevano troppi spazi, e nella morale dell’epoca, che permetteva molto all’uomo in fatto di condotta sessuale mentre nulla concedeva alla donna, pena l’ostracismo sociale.
Nella vita privata di Puccini, oltre alla moglie, Elvira, e alle tante sconosciute, ci furono almeno altre quattro donne importanti: la “piemontesina” Corinna, Sybil Seligman, l’amica di tutta una vita, Doria Manfredi, la vittima incolpevole di una gelosia esasperata e furibonda, Josephine von Stängel, l’ultima grande passione 1. Raccontare queste donne e i rapporti che, nel bene e nel male, fecero intrecciare le loro vite a quella del musicista non è operazione che scivola nell’indiscrezione o, peggio, nel pettegolezzo ma che può, al contrario, ampliare il punto di vista sull’uomo e sull’artista Giacomo Puccini.
2. Elvira, l’“anima tragica”
Più o meno all’epoca della composizione delle Villi risale l’inizio della relazione con Elvira Bonturi, moglie di Narciso Gemignani, un commerciante lucchese amico d’infanzia di Puccini. Pare che Gemignani, baritono dilettante, avesse insistito affinché la moglie, che aveva una bella voce di contralto, prendesse lezioni di pianoforte e canto dal giovane maestro.
Elvira, all’epoca giovane poco più che ventenne, già madre di due bambini, perse la testa per Giacomo, che ricambiava la sua passione. Fu un violento colpo di fulmine che indusse la giovane ad abbandonare il marito e il figlio più piccolo, un bambino di appena pochi mesi, per raggiungere Puccini a Milano, portando con sé la figlia maggiore, Fosca.
La cosa provocò uno scandalo senza precedenti in quel di Lucca: in breve tutta la città fu contro i due amanti, e anche i parenti di Puccini si schierarono contro, dalla sorella suora, che si consumava in ardenti preghiere e in novene per l’anima del fratello, al prozio Cerù che, indignato, chiese al nipote la restituzione del denaro versato per mantenerlo agli studi, sostenendo che se poteva permettersi di mantenere un’amante, era evidentemente uscito dalle ristrettezze economiche ed era, quindi, in grado di saldare i propri debiti.
Il 22 dicembre 1886 nacque l’unico figlio di Elvira e Giacomo; il bambino fu battezzato Antonio Ferdinando Maria 2. Elvira aveva ottenuto la separazione dal marito, che le concesse la custodia definitiva della figlia Fosca, che allora aveva sei anni, trattenendo però presso di sé, in maniera altrettanto definitiva l’altro figlio, Renato. Tuttavia Elvira non poté sposare Puccini se non dopo la morte del marito, che scomparve improvvisamente nel febbraio del 1903, ma solo nel gennaio del 1904, trascorsi i dieci mesi di vedovanza previsti dalla legge3, la situazione poté essere regolarizzata.
Quella tra Puccini ed Elvira Bonturi non fu un’unione serena. Fin dal principio tutto il peso morale della relazione era ricaduto su Elvira che dovette patire un ostracismo molto più pesante di quello che colpì Puccini: in una società fortemente sbilanciata a vantaggio degli uomini, le loro avventure extraconiugali erano considerate peccati veniali mentre a ogni donna si insegnava, fin da bambina, che il matrimonio era da considerarsi come la meta della vita e a lei sarebbe spettato tutto l’onere di salvaguardarlo e custodirlo, con fedeltà e sottomissione, nella consapevolezza che l’onore del marito e della famiglia dipendevano dalla percezione sociale del suo stesso onore e dalla sua capacità di chiudere un occhio, quando non entrambi, se questo significava proteggere l’unità familiare e la rispettabilità sociale.
Per un uomo, al contrario, l’idea di matrimonio e quella di trappola dalla quale guardarsi finché fosse stato possibile andavano spesso insieme e, a tal proposito, appare significativa le lettera che “un vecchio amico” inviò a Puccini il 10 giugno 1884: “[…] Guardati dalle donne che, salvo eccezioni ben rare, sono la peste della società, trattale come un trastullo che, quando si è avuto, si getta in un canto; servitene come una necessità del corpo e nulla più […] Un ultimo consiglio e il più importante: fuggi l’amore se ti è possibile perché quello ti condurrebbe alla tomba del matrimonio che novantanove volte su cento incaglia, tronca, rovina la carriera d’un giovane, specialmente la tua che ha bisogno di assoluta libertà e indipendenza. Ma se per caso ci arrivassi a cadere nella rete, per carità sposa una donna che tu ami, che sia bella, simpatica, istruita e buona perché se no guai a te. […]4”.
Per capire meglio la situazione in cui Elvira si era venuta a trovare e dare, forse, un contesto più comprensibile al suo atteggiamento nei confronti di Puccini, è indispensabile fare un’incursione nel quadro normativo dell’epoca.
Nel nuovo Regno d’Italia i codici, civile e penale, si erano unificati, tra il 1861 ed il 1865, nel Codice Pisanelli, che cercava di dare uniformità a una costellazione di tradizioni giuridiche, interessi e riferimenti di difficile composizione in una società che si andava trasformando sia sotto l’aspetto politico istituzionale sia sotto quello economico e sociale. Il nuovo codice mirava anche a stabilire il controllo dello Stato su ambiti sociali e comportamenti lasciati, fino a quel momento, in modo più o meno totale, alla Chiesa, alla tradizione o all’iniziativa privata. All’interno di questo complesso intreccio d’interessi, la posizione delle donne all’interno della società e della famiglia costituiva un nodo cruciale, che venne risolto stabilendo con molta forza la disuguaglianza dei coniugi su molti punti, dai doveri personali di protezione nei confronti della moglie all’obbligo di obbedienza assoluta al marito, dall’amministrazione della dote della moglie alla possibilità per il marito di chiedere la separazione dalla moglie non solo per il suo adulterio, ma anche per un comportamento che egli avesse ritenuto “leggero”. Al contrario, la moglie non poteva separarsi se non nel caso in cui il marito mantenesse una concubina sotto il tetto coniugale 5.
Con la fuga da casa per raggiungere Puccini, Elvira si era messa in una situazione molto pericolosa, che le si sarebbe potuta ritorcere contro, e anche gravemente, se solo il marito lo avesse voluto: Elvira Bonturi non godeva più della protezione del marito che aveva abbandonato, ma non poteva disporre autonomamente di eventuali beni, essendo ancora legalmente sposata; aveva portato con sé la figlia ma aveva dovuto abbandonare un figlio, e il marito avrebbe potuto toglierle la bambina in qualunque momento.
Insomma ce n’era abbastanza per mettere in ansia qualunque donna. Pur consapevole di non potersi sposare subito con Puccini, tuttavia Elvira partiva dal presupposto che, avendo messo a repentaglio tutto per amore di lui, avendogli dato un figlio, prova tangibile, innegabile e, per certi versi, compromissoria dell’esistenza di una relazione, si aspettava come minimo che egli la dovesse ricompensare con un amore devoto ed assoluto, garantirla nell’immediato come donna e come madre e, in prospettiva futura, come moglie con la protezione, l’onorabilità, il rispetto e la considerazione sociale.
Come per molte donne sue contemporanee, anche Elvira era stata probabilmente educata a pensare al matrimonio come fine verso il quale far tendere la propria esistenza, come investimento nel quale lei, come donna, portava la propria fulgida gioventù: da giovane Elvira era stata sicuramente bella e altrettanto sicuramente aveva dato prova di un coraggio impulsivo, passionale, pronto a rischiare. Era anche abbastanza istruita ma, simpatica, certamente, no6. Elvira non era capace di condividere la passione di Puccini per i luoghi silenziosi e isolati, detestava i suoi amici, che avevano in comune con lui la passione per la caccia e per le carte7, era una donna borghese conscia di aver compiuto, sia pure in modo inusuale e travagliato, un salto di qualità e desiderava una certa ostentazione di lusso e di status, insomma desiderava “comparire”, socialmente, nel suo ruolo di compagna di un artista che si andava sempre più affermando, ma era, però, incapace di comprendere il mondo creativo del proprio compagno, tanto che Puccini, lamentandosi con lei, l’accusò di mettere “…dello scherno quando si pronunzia la parola arte”. Un’altra accusa che le rivolgeva Puccini era di non possedere alcuna delle qualità di comprensione, partecipazione, discrezione, necessarie per essere la moglie di un compositore8. Non ci è dato sapere se, potendo contare su maggior comprensione, partecipazione e silenziosa complicità da parte della moglie Puccini sarebbe stato un marito migliore, ma di certo la gelosia di Elvira, i suoi continui sospetti, non sempre così infondati, innescarono una spirale perversa che, da un lato, alimentava le sue paure e, dall’altro, autorizzava Puccini a sentirsi una specie di martire, pienamente giustificato se cercava rifugio in tante distrazioni amorose.
A proposito dell’incapacità di Elvira di partecipare empaticamente al lavoro di Puccini che, comunque, la teneva volontariamente lontana dal suo universo compositivo, non ci sono dubbi sul fatto che la relazione, ancora all’inizio, abbia intralciato la composizione dell’Edgar, rispetto alla quale Elvira rimproverava a Puccini di essere troppo lento, ricordandogli, velenosamente ma anche pragmaticamente, che in tre anni, dal 1851 al 1853, Verdi aveva composto Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata.
In maggio del 1886, quando Elvira era già incinta, Puccini fu costretto a chiedere a Ricordi il prolungamento dello stipendio mensile che, da contratto, si sarebbe interrotto a giugno, adducendo come scusa l’estrema difficoltà dell’opera e la necessità di aiutare il fratello Michele che si era appena iscritto al Conservatorio di Milano. Nessun accenno, comunque, a Elvira e alla sua gravidanza. Ricordi, al corrente della situazione del suo pupillo, acconsentì.
Nessuno, però, fu più prodigo di aiuti per la giovane coppia di Ferdinando Fontana9che, fra il resto, si trovava in una situazione simile in quanto legato alla moglie di un altro. Fu lui, nonostante l’opposizione della sua compagna, a organizzare la partenza di Elvira da Lucca, quando non fu più possibile nascondere la gravidanza, e a trovarle a Monza un alloggio discreto e tranquillo, ove le fu possibile dare alla luce Antonio al riparo da chiacchiere e curiosità.
Il rapporto tra Giacomo ed Elvira divenne, nel tempo, sempre più conflittuale e lei col passare degli anni appariva sempre più incupita, sempre più distante, sempre più gelosa e insicura anche perché il passare del tempo aveva donato a Puccini una bella presenza, una certa raffinatezza nel vestire e nel portamento, mentre la bellezza di Elvira era sfiorita: non più giovane, non più bella, non poteva più contare sulle qualità che avevano attirato Puccini dapprima verso di lei e che continuarono, in seguito, ad attirarlo verso altre donne, più giovani e belle.
Entrambi, Elvira e Puccini, avevano bisogno di essere gratificati e confermati, ma mentre Giacomo cercava le proprie conferme, come un adolescente, nella moltiplicazione delle proprie conquiste femminili, Elvira le pretendeva nel matrimonio, che per lei aveva anche la valenza del possesso del corpo e dei sentimenti dell’altro come un dato di fatto indiscutibile: tale pretesa, va da sé, rischiava di diventare un’ossessione patologica, un debito continuo, mai estinto e mai estinguibile. Gli anni, che le avevano trasformato il corpo e l’aspetto, non le risparmiarono l’anima, e allora la sua gelosia si manifestò in modi a dir poco stravaganti come mettere del bromuro nelle tasche del marito o seguirlo travestita: atteggiamenti ridicoli e grotteschi, se non avessero prodotto come esito la tragedia della morte della giovanissima Doria Manfredi.
Eppure, nonostante le querimonie di Puccini, le sue lamentele con gli amici più cari e con le sorelle, le dichiarazioni sulla propria volontà di separarsi da quell’incubo di moglie, egli non riuscì mai a prendere la decisione di abbandonarla, nemmeno sotto l’incalzare delle circostanze più tragiche o della passione più bruciante. Fu dunque Elvira l’elemento forte di quella coppia, in apparenza quanto mai male assortita e asimmetrica, ma composta, in realtà, di due individualità per paradosso tanto simili; fu lei che cercò sempre, sia pure esasperando e distorcendo, torturando e torturandosi allo spasimo, di attenersi a ciò che le era stato inculcato sul proprio ruolo di donna, sul matrimonio, sulla propria dignità di moglie creditrice di quell’obbligo alla fedeltà preso così alla lettera nel suo rapporto con Puccini che, evidentemente, in fondo aveva bisogno anche di quella tragica e morbosa dedizione.
3. Corinna, la misteriosa
Mentre a Torino erano in corso le prove di Tosca, nella vita di Puccini entrò una giovane donna e lo fece in modo tale da procurargli grattacapi per i tre anni successivi10. L’identità di questa giovane donna è sconosciuta: Puccini, nelle sue lettere, la chiamava la “Piemontese” e l’ipotesi più accreditata è che il suo nome, vero o fittizio, fosse Corinna e studiasse al Magistero. I primi incontri di Puccini con Corinna furono furtivi, poiché sia Elvira sia Fosca avevano accompagnato Puccini a Torino, ma i viaggi successivi furono occasione di appuntamenti.
La relazione non doveva, però, rimanere segreta a lungo: un giorno un conoscente vide casualmente i due amanti al buffet della stazione di Pisa e ne informò Nitteti, che scrisse al fratello rimproverandolo per non essere andato a farle visita. La lettera fu intercettata da Elvira, con conseguenze facili da immaginare. Puccini protestò invano la propria innocenza, poi reagì chiedendo a Elvira di smetterla con i controlli, tanto non sarebbe stata in grado di impedirgli le sue evasioni. L’atmosfera tra Puccini ed Elvira si fece sempre più tesa, aggravata anche dalla partenza di Fosca che si era sposata ed era andata ad abitare a Milano11.
Il 25 febbraio 1903, di ritorno da una cena con Elvira e il figlio Antonio, l’auto di Puccini uscì di strada in una curva stretta, piombò contro un parapetto e si capovolse. Fortunatamente, un medico, che viveva nelle vicinanze, sentì il rumore dell’incidente, accorse e fece trasportare i feriti a casa sua. I feriti più gravi furono Puccini e il suo autista, mentre Elvira e Antonio rimasero miracolosamente illesi.
Il giorno dopo, ricoverato l’autista in ospedale, Puccini e la sua famiglia furono portati a Torre del Lago, dove il compositore dovette restare a letto per quattro mesi assistito, o meglio sorvegliato, da Elvira, dalla sorella di lei e da sua sorella Nitteti. Non tutti videro nell’incidente un male: la sorella suora di Puccini, suor Giulia Enrichetta, lo lesse come un segno del cielo, per mezzo del quale il Signore ammoniva Giacomo a cambiare vita perché, oltre la relazione illegittima con Elvira, da due anni si perdeva anche nella relazione con Corinna12, e tutti quelli che stavano più vicini a Giacomo – le sorelle, Giulio Ricordi e Luigi Illica – ritenevano che la ragazza fosse un pericolo per la sua salute non solo fisica, ma anche morale e intellettuale13.
Perdendo le staffe in una lettera chilometrica, la più lunga che avesse mai scritto al suo pupillo, Giulio Ricordi si espresse ingenerosamente, insinuando, tra l’altro, che la lenta ripresa di Puccini non fosse causata, come verrà diagnosticato in seguito, da una leggera forma di diabete che accompagnerà il musicista per tutta la vita 14, ma avesse in Corinna una causa ben più sordida: “Ma è mai possibile che un uomo come Puccini, che un artista il quale fece palpitare e piangere milioni di persone colla potenza e col fascino delle proprie creazioni sia divenuto un trastullo imbelle e ridicolo fra le mani meretricie di femmina volgare ed indegna? […] E questa individualità così bella, una femmina corrotta la caccia sotto di sé, e come vampiro immondo fuori ne succhia il pensiero, il sangue, la vita? […]”15.
Anche Illica espresse il proprio parere sulla vicenda Corinna: “Ho detto che il ritorno al “Piemonte” può essere per lui molto pericoloso perché è da prevedersi che la Piemontesina, visto ora con quanta facilità possa sfuggirle il pesciolino, al rinnovarsi della tresca, debba pensare meglio ai suoi casi e trovare il modo di preparare una rete che trattenga il pesciolino, suo malgrado.”16 L’arma sulla quale poteva contare Corinna per trattenere il “pesciolino” erano le lettere che Puccini le aveva scritto e che lei, probabilmente, minacciava di rendere pubbliche. Tutto ciò, però, non deve condurci per forza a pensare alla giovane come ad un’avventuriera che approfittava di un uomo famoso e facoltoso, ma semplicemente ad una donna innamorata e dato che, all’epoca, Puccini non era sposato, Corinna era probabilmente poco propensa a farsi da parte senza opporre alcuna resistenza17. Alla fine, comunque, Corinna mise in mano ad un avvocato le lettere che Puccini le aveva scritto e lui riuscì a riaverle solo nel dicembre del 1903, proprio alla vigilia delle nozze con Elvira.
Sipario definitivo sull’affaire Corinna.
4. Sybil, la confidente
Sybil Beddington Seligman proveniva da una famiglia di musicisti, dato che sua madre era stata una pianista concertista. Sybil aveva sposato il banchiere David Seligman, con il quale aveva avuto due figli, e apparteneva a quella società ebrea colta da poco venuta alla ribalta nell’Inghilterra edoardiana. Sybil, che amava tutto ciò che era italiano e contava tra i propri corrispondenti d’Annunzio e Pascoli, studiava canto con Francesco Paolo Tosti, maestro di canto della Real Casa inglese e divenuto ormai sir, e fu proprio in casa di Tosti, sempre aperta ai visitatori italiani illustri, che Sybil incontrò Giacomo Puccini.
Molti biografi del musicista sostengono che tra i due scoppiò una passione violenta e che solo in un secondo tempo si trasformò in una duratura amicizia. Le testimonianze su questa vicenda sono discordanti: se da un lato la sorella di Sybil affermò che, almeno in un primo tempo, ci fu una passione sconvolgente, il figlio di Sybil, Vincent Seligman, smentì decisamente questa versione.
In qualunque modo siano andate le cose, appare molto importante sottolineare che Sybil Seligman rappresentò per Puccini un punto di riferimento costante per tutta la vita: molto colta e intelligente lo aiutò nei contatti con gli impresari inglesi, gli suggerì vari soggetti da prendere in considerazione per trarne delle opere, gli diede suggerimenti molto efficaci. Fu di enorme aiuto, ad esempio, ai tempi della composizione della Fanciulla del West: Puccini non aveva grande dimestichezza con le lingue straniere e la lettura del dramma di Belasco “The Girl of the Golden West” in lingua originale gli avrebbe procurato notevoli difficoltà.
A Puccini, però, quel soggetto piaceva troppo per rinunciarvi così,e quando Belasco gli inviò una copia del dramma, fu Sybil a tradurlo per Puccini e non solo, gli procurò della musica americana e dei canti pellerossa. Anche il titolo definitivo di quel lavoro fu opera di Sybil: Puccini le aveva scritto proponendole un paio di titoli possibili e chiedendole quale preferisse; Sybil, che non trovò convincente nessuna di quelle soluzioni, propose a Puccini La fanciulla del West, con il quale l’opera fu definitivamente intitolata.
Sybil fu la confidente di Puccini nei momenti più difficili, gli offrì una spalla su cui poter piangere ed ebbe, nella vita del compositore, un ruolo che veniva subito dopo quello di Giulio Ricordi, che Puccini considerava come un padre. La cosa più sorprendente di tutte, comunque, è che Elvira, la quale conosceva anche troppo bene la propensione del marito per le storie sentimentali parallele, non fu mai gelosa di Sybil e, a parte un breve periodo in cui l’accusò di stare fin troppo dalla parte del marito18, l’accolse sempre come un’amica di famiglia.
Nell’immaginario di Puccini, probabilmente, Sybil era il contraltare di Elvira: in una lettera all’amica inglese egli si espresse in questo modo “Voi siete la persona che è arrivata più vicina a capire la mia natura”. Se all’inizio della loro storia c’era stata davvero una grande passione, questa si era poi trasformata in una profonda, intima amicizia, in quella complicità intellettuale che Puccini aveva sempre rinfacciato alla moglie di non possedere.
Il rapporto con Sybil lo lasciava libero almeno quanto quello con Elvira lo soffocava, perché si era trasformato in un rapporto a distanza, in un’amicizia intellettuale, disincarnata; libera dal confronto con la banalità del quotidiano, non dava spazio ad obblighi di alcun genere né generava la volontà di possesso: infatti, mai Sybil pensò di abbandonare il marito per Puccini né pretese che egli abbandonasse Elvira per lei; ognuno poteva liberamente donare all’altro solo il meglio di sé.
4. Doria, la vittima
Doria Manfredi aveva sedici anni quando entrò a servizio in casa Puccini dopo l’incidente automobilistico del 1903. Doria era di Torre del Lago, sua madre era vedova e l’entrare a servizio in casa Puccini era stato una vera benedizione per tutta la famiglia Manfredi. Di solito, le domestiche non rimanevano a lungo alle dipendenze di Elvira, ma Doria aveva saputo rendersi preziosa, devota com’era al maestro, precisa e scrupolosa nella conduzione della casa. Improvvisamente, nel 1908, Elvira, forse messa in allarme da chiacchiere malevole, cominciò ad accusarla di avere una relazione col marito.
Come che sia, la licenziò in tronco e, non contenta, continuò a perseguitare la ragazza, aggredendola verbalmente ogni volta che le capitava di incontrarla per strada, arrivando persino a minacciarla di buttarla nel lago “quant’è vero che c’era Cristo e la Madonna”19. Cercò, inoltre, di persuadere i Manfredi della colpevolezza di Doria, tanto che Rodolfo, uno dei fratelli della ragazza, scrisse a Puccini che avrebbe volentieri ucciso il seduttore di sua sorella. Puccini incontrò segretamente Doria per confortarla, iniziativa insensata, poiché Elvira spiava ogni suo movimento, scrisse alla madre della ragazza protestando l’innocenza di entrambi, ma non ne ricavò alcun vantaggio: Elvira affermava di averli colti in flagrante e, a quel punto, anche il figlio Antonio aveva cominciato a crederle.
La situazione diventò insostenibile e Puccini, per non affrontarla, cominciò a viaggiare. Al suo ritorno a Torre del Lago, capì che la situazione si era fatta ancora più tesa: Elvira era andata persino dal parroco, e a più riprese, per chiedergli di scacciare Doria dal paese; il parroco si era dichiarato impotente e sinceramente meravigliato per quella richiesta. Doria non aveva abbandonato il paese, Elvira continuava a coprirla di atroci insulti, mentre Puccini, per allontanarsi da quella situazione, si era rifugiato a Parigi, da cui tornò qualche mese dopo trovando la situazione del tutto immutata. All’inizio del 1909 la crisi era arrivata a un punto tale che Puccini scappò letteralmente a Roma per cercare una tregua, sia pure temporanea.
Il giorno dopo la sua partenza Doria, oramai stremata per la situazione e sconvolta da un nuovo duro scontro con Elvira, si avvelenò: in ogni modo si cercò di salvarle la vita ma la ragazza morì, dopo cinque giorni di agonia atroce. L’autopsia condotta sul suo cadavere confermò che Doria era vergine. Puccini fu riabilitato e furono smentite tutte le chiacchiere relative a un aborto della ragazza. L’opinione pubblica si rivoltò allora contro Elvira, ritenuta ormai l’unica responsabile. Il primo pensiero di Puccini, dopo la tragedia di Doria, fu quello di separarsi legalmente dalla moglie20, ma c’era anche l’urgenza di prevenire un’azione legale da parte della famiglia Manfredi, fermamente determinata a ottenere un risarcimento, morale e materiale.
I Manfredi, infatti, intentarono causa contro Elvira, accusandola di aver diffamato Doria in modo così grave da spingerla al suicidio, e tutti i tentativi per convincerli a ritirare le accuse furono inutili21. La vicenda era diventata di dominio pubblico, aveva avuto una grande risonanza in tutto il mondo e, nonostante i consigli di tanti amici che gli raccomandavano di andarsene, Puccini tornò a Torre del Lago, in uno stato d’animo di profonda prostrazione, come scrisse a Sybil, dicendole altresì “[…] Se Elvira ha almeno un po’ di cuore, dovrebbe provare rimorso”22.
Elvira, partita per Milano il giorno stesso del suicidio di Doria, in quel momento non sentiva nulla del genere, anzi scrisse una lunga lettera al marito23coprendolo d’insulti, accusandolo di comportarsi da egoista, insensibile e vigliacco, di aver calpestato i suoi sentimenti verso di lei e di aver distrutto la loro famiglia. Gli profetizzava che Dio gliel’avrebbe comunque fatta pagare, che si ricordasse di non essere più tanto giovane e nemmeno in buona salute e che, presto, avrebbe avuto ciò che si meritava cioè di morire solo e abbandonato da tutti, persino dal figlio24che, ripensando al male patito da sua madre, non lo avrebbe perdonato.
Tutti gli sforzi di Puccini per raggiungere un accordo con la moglie, sia per lettera sia con incontri personali, erano finiti in un vicolo cieco: Elvira continuava a insistere che la responsabilità era tutta, e soltanto, del marito e che non si sarebbe ritenuta soddisfatta se non da una sua piena ammissione di colpa25. Su consiglio dei suoi avvocati, Elvira non si presentò al processo concedendo un enorme vantaggio alla parte avversa, che esibì in aula una nota scritta da Doria prima di morire, nella quale la giovane protestava la propria innocenza. Elvira fu condannata a cinque mesi e cinque giorni di carcere, al pagamento di 700 lire alla famiglia Manfredi come indennizzo, più il pagamento delle spese processuali. Fu depositato un ricorso in appello e Puccini cercò nuovamente un accordo con i Manfredi che, finalmente, accettarono di ritirare l’accusa in cambio della corresponsione di una somma molto considerevole, ben 12.000 lire.
A quel punto Elvira depose l’arroganza che le era diventata abituale e dichiarò di non pretendere più una confessione da parte del marito, in aggiunta si dichiarò disponibile a riprendere la loro vita insieme. In luglio, la famiglia Puccini era nuovamente riunita e Sybil Seligman ricevette una lettera con queste informazioni “Elvira mi sembra cambiata moltissimo, come risultato delle privazioni della separazione che aveva provato e così spero di avere un po’ di pace per poter andare avanti nel lavoro”26.
Nella durissima lettera che gli aveva inviato, Elvira aveva accusato il marito di nutrire una teoria del tutto errata cioè che con il denaro si potesse comprare tutto: quanto si fosse sbagliata, almeno in quel caso, glielo dimostrò la conclusione di quegli ultimi dieci orribili mesi.
5. Josephine, la magnifica
Josephine von Stängel, baronessa tedesca, fu la donna con la quale Puccini visse, negli ultimi anni, la relazione più importante e durevole.
Josephine era nata nel 1886, a vent’anni aveva sposato un ufficiale dell’esercito tedesco dal quale aveva avuto due figlie. Durante l’estate del 1911 Josephine era in vacanza a Viareggio con le figlie ma senza il marito, dal quale era separata e in attesa di divorzio; Puccini, frequentatore del locale viareggino di moda, il Gran Caffè Margherita, incontrò Josephine, che aveva 25 anni ed era bellissima: alta, slanciata, elegante, capelli ricci, viso e collo perfetti. Nacque quello che si può chiamare un amore a prima vista. I due s’incontrarono spesso a Viareggio, dove Puccini arrivava dalla villa di Torre del Lago: insieme a lei faceva gite in motoscafo e viveva una spensieratezza da ragazzo che lo rigenerava.
Puccini aveva già passato la cinquantina quando iniziò la relazione con Josephine. Non c’è dubbio che la devozione incondizionata, quasi la venerazione, che la giovane donna gli tributava, fosse una specie di balsamo sulle insicurezze di un uomo ossessionato dall’idea del tempo che passa e che determina, ingenerosamente, in una scansione dei tempi della vita umana molto più netta e categorica di quanto sia oggi, la fine di ogni piacevolezza e della persona nella sua completezza.
In questa sua ossessione per lo scorrere del tempo, Puccini fu un prodotto del passaggio tra Ottocento e Novecento, dal secolo delle guerre risorgimentali a quello delle guerre mondiali. Non si trattava solo di un semplice quanto inevitabile passaggio cronologico, ma di qualcosa di più complesso, preparato da circa quindici anni di espansione in cui i nuovi imperi economici e politici finirono col trovarsi lanciati in rotta di collisione. Nella corsa alla ricchezza e alla catastrofe maturò uno stato d’animo che oscillava tra desiderio di conquista, frenesia di godimento, smania di potenza e, insieme, indifferenza e disaffezione proprie di chi ha perso la coscienza etica come punto di riferimento. Anche l’Italia giolittiana non fu indenne da questa crisi, che oscillava tra riformismo di facciata e conservatorismo, nascosti sotto lo scintillante tappeto di una belle époque che non soddisfaceva veramente nessuno. L’arte conobbe da un lato la retorica dannunziana, che illuse gli italiani sul loro ruolo fatale di conquistatori, dall’altro la poesia di Gozzano, che si sentiva vecchio a venticinque anni, e Puccini, da questo punto di vista, fu molto più vicino a Gozzano di quanto potesse esserlo a d’Annunzio. Nulla di strano, allora, che egli, circondato e cullato dalla devozione di Josephine, si sentisse di nuovo ragazzo e s’illudesse di poter riportare indietro il tempo, cristallizzando la percezione di sé grazie a quell’amore.
Josephine scriveva a Puccini lettere inequivocabili sulla natura del sentimento che provava per lui; da questa corrispondenza apprendiamo anche che, con il divorzio, Josephine aveva ottenuto una discreta protezione economica, che la sua famiglia vedeva di buon occhio la relazione con Puccini, che gli incontri tra i due avvennero anche nella villa di Torre del Lago, che lei frequentava i teatri e amava la musica, in particolare quella di Wagner, ma amava anche quella di Puccini e, soprattutto, amava in colui che considerava il suo uomo, la modestia e la semplicità27. Da parte sua Puccini aveva comprato, di nascosto, un terreno a Viareggio pensando di costruirvi una casa per Josephine, per averla accanto più spesso. Aveva anche chiesto a Tito Ricordi un anticipo di 25.000 lire, ma il progetto sfumò perché ormai c’era la guerra e, quasi di conseguenza, non era facile raccogliere i fondi necessari per la costruzione della villa senza farsi scoprire da Antonio che, nel frattempo, curava l’amministrazione del padre.
Con la guerra, la baronessa, suddita del Kaiser, si era trasferita in Svizzera, territorio neutrale, e Puccini poté incontrarla qualche volta fino a quando, nell’ottobre del 1917, il Consolato d’Italia gli negò il visto d’ingresso in Svizzera: la ragione consisteva nel fatto che non sembrava proprio opportuno che in un periodo così delicato il compositore più famoso d’Italia incontrasse, sia pure in territorio neutrale, una suddita del nemico. Così, per Puccini, sfumarono le possibilità di nuovi incontri.
Questo impedimento lo sconvolse al punto di suscitare in lui una reazione piuttosto aggressiva nei confronti di Elvira “[…] Sono proprio giù. Con Elvira sono nero perché avendo visto la lettera del Console (la busta) mi ha assalito in modo barbaro e senza nessun riguardo per me, perché io oggi avrei dovuto avere dei riguardi dopo iersera e dopo le sofferenze della gestazione del Dal Verme; ma invece nulla, sempre il suo egoismo, il suo così detto amore e le sue morbose e ridicole gelosie! Maledetta la mia vita infame e sempre piena di dolori e spine!” 28.
Non si hanno altre notizie intorno a questo rapporto che, evidentemente, si logorò nel tempo e si spense, senza lasciare tracce apparenti. Nel 1926 Josephine, che dal 1920 viveva in Italia, ma non aveva più avuto rapporti con Puccini, morì, appena quarantenne, a Bologna, due anni dopo la scomparsa dell’uomo che era stato il suo ultimo, grande amore.
6. Chiusura del sipario
Il destino delle protagoniste delle opere pucciniane è segnato, alla fine muoiono tutte, o quasi tutte. Se ci si sofferma, in particolare, sulla trilogia Puccini – Illica – Giacosa – ovvero, beninteso, Bohème, Tosca, Madama Butterfly –, si comprende molto bene che la morte è una condanna che diventa riscatto, l’amore ne è l’innesco e il compimento. Difficile considerare le donne portatrici del diritto di amare liberamente, di continuare ad essere donne anche quando diventano madri29.
Nel costruire le figure femminili per le diverse opere liriche che composero, Puccini, e i suoi librettisti, si adeguarono al gusto e alla moralità dell’epoca in cui vivevano e, in quell’epoca, la moralità propria della borghesia che frequentava i teatri e poteva, in una sola sera, decretare il successo o il fallimento di un’opera lirica e, di conseguenza, del suo autore, relegava le donne in spazi molto angusti; pervicacemente, si riteneva che le donne dovessero essere sottoposte al duro giudizio maschile, specialmente quando cercavano di spezzare i confini del piccolo mondo, maschilista e ipocrita, nel quale erano recluse.
L’uomo Puccini, lo abbiamo visto, era un prodotto del suo tempo: era affabile, educato, affascinante. Non gli piacevano le situazioni complicate e, piuttosto che affrontarle, preferiva la fuga, come fece in occasione della tragedia di Doria Manfredi. Era un uomo certamente sensuale, al quale le donne piacevano, e anche molto, ma, proprio per la sua propensione a evitare le “complicazioni”, nessuna delle donne che condivisero con lui storie d’amore, o avventure che fossero, mise mai veramente in pericolo il suo matrimonio con Elvira: alla fine, era sempre da lei che Puccini tornava.
Puccini voleva piacere a tutti, come artista e come uomo.30In questo senso vanno letti il suo disinteresse per la politica e la ricerca di una vita agiata, ricca di lussi31, che gli permettesse di comporre in tranquillità; le sue relazioni, brevi o lunghe, lo lusingavano e confermavano in lui sia l’uomo che l’artista e di quelle conferme Puccini non poteva farne a meno.
Alle donne protagoniste delle sue opere, alle personalità “finte”, vive solo a teatro, e alle donne reali, con le quali egli intrecciò relazioni, Puccini, in fondo, chiedeva soprattutto questo: emozioni fonde ed efficaci, il mezzo migliore – presumibilmente – per far vibrare le corde del cuore, quello degli spettatori, a teatro, e il suo, nella vita.
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Note
- Per completezza d’informazione occorre dire che i biografi riferiscono di altre due donne, Blanke Lendvai, ungherese, sorella del musicista Ervin e, soprattutto, Rose Ader, soprano austriaco che Puccini conobbe negli ultimi anni di vita, che fu interprete di Suor Angelica e di Bohème. Con Rose Ader, Puccini strinse una relazione tra il 1921 e il 1923 a testimonianza della quale rimangono soltanto alcune lettere da lui inviate alla cantante. Per le notizie in proposito, si veda E. Rescigno, Dizionario pucciniano, Milano, Ricordi, 2004, pp. 202-203 e pp. 26-27, nonché Ori De Ranieri, M. Lubrani, G. Tavanti, Puccini e le donne. La famiglia, gli amori, la musica, Firenze, Edizioni Polistampa, 2008, pp. 71-73.
- Renzo Cresti sostiene che, all’epoca della tragica vicenda di Doria Manfredi, Giacomo Puccini, che avrebbe intrattenuto da tempo una relazione con la cugina di Doria, Giulia, aveva avuto da quest’ultima un altro figlio, nato a Pisa nel 1923 e battezzato Antonio, proprio come il figlio avuto da Elvira. Cfr. R. Cresti, Giacomo Puccini e il Postmoderno, Fucecchio, Edizioni dall’Erba, 2007, pp. 76-77.
- In una lettera inviata da Luigi Illica a Ramelde Puccini, sorella prediletta di Giacomo, intorno alla metà di aprile del 1903 viene affrontato l’argomento delle nozze tra Giacomo ed Elvira, rimasta vedova il 26 febbraio di quell’anno. A Ramelde, che cercava una scappatoia che regolarizzasse l’unione di fatto del fratello a prescindere dal vincolo dei dieci mesi di vedovanza di Elvira, Illica risponde: “[…] Il decreto del Re per evitare i dieci mesi di vedovanza non è possibile ottenerlo; né Re né ministri potrebbero arbitrariamente concedere quello che per essi, di fronte al Codice Civile, apparirebbe un abuso di potere. Pensi dunque che bella galera questi altri otto mesi e per Giacomo e per Elvira?? […]”. In Puccini com’era, a cura di A. Marchetti, Curci, Milano, 1973, pp. 266-271, n. 271.
- Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, p. 69, n. 56.
- Questa distinzione venne ulteriormente aggravata dal codice penale Zanardelli, ove si specificava che l’adulterio della moglie giustificava il successivo concubinato del marito che non poteva perciò essere invocato come causa di separazione. Cfr. C. Saraceno, Le donne nella famiglia: una complessa costruzione giuridica. 1750 – 1942, in M. Barbagli, D. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana. 1750 – 1950, Bologna, il Mulino, 1992, p. 112.
- Nella stessa lettera dell’aprile 1903 a Ramelde Puccini, a proposito di Elvira, Illica scrive senza mezzi termini “[…] Poi… non le nascondo che l’Elvira mi dà ai nervi! E penso che se Puccini agisce così, vuol dire che l’Elvira non ha saputo ispirargli maggiore o migliore rispetto! I popoli hanno quei governi che si meritano! E l’Elvira anche! […]”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit. p. 271, n. 271.
- L’unico tra gli amici di Puccini che Elvira non detestava era Luigi Illica, come dimostra la corrispondenza tra i due, in G. Schiavi, Un genio all’opera. Luigi Illica, una vita da Bohème, Milano, Francesco Brioschi, 2024, in particolare p. 159.
- Scrivendo a Illica, per lungo tempo confidente dei coniugi Puccini, Elvira così giustificherà la propria gelosia e il dolore per i continui tradimenti di Puccini: “Forse che io dovrei prendermi in pace la tresca di Giacomo e lasciarlo fare? Questo non lo potrà mai fare una donna che per diciotto anni ha vissuto della vita di un uomo per il quale ha abbandonato la famiglia, ha calpestato le leggi sociali, ha rinunziato a tutto […]”. Con agghiacciante insensibilità, Illica così risponde a Elvira: “Cara Elvira, cerchi di portare nello studio di Puccini parole di pace e di calma, non avveleni continuamente la sua vita artistica […]” (Cfr. G. Schiavi, Un genio all’opera. Luigi Illica, una vita da Bohème, cit., p. 159).
- Il secondo nome imposto al figlio di Puccini, Ferdinando, come il poeta Fontana, testimonia la gratitudine nei confronti di chi seppe dimostrarsi un buon amico in un’occasione particolarmente delicata. Il primo nome, Antonio, era un nome ricorrente nella famiglia Puccini.
- Giangiacomo Schiavi sostiene che i grattacapi di Puccini per quella relazione furono dovuti, sostanzialmente, al fatto che la giovane era minorenne e che Puccini fosse, di conseguenza, “passibile di azione civile [sic!] per seduzione di minorenne, secondo la causa intentata da un certo avvocato Govone” (G. Schiavi, Un genio all’opera, cit., p. 159).
- Scrivendo a Fosca, Puccini la rese partecipe dell’atmosfera d’intensa, logorante tensione: “Hai lasciato un gran vuoto tu, Fosca, ad andartene e la vita che trascorriamo noi due, Elvira ed io, è semplicemente terribile!”.
- Lettera di Iginia Puccini (suor Giulia Enrichetta) alla sorella Tomaide, primi di marzo 1903. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., pp. 265-266, n. 270.
- Ancora, Luigi Illica, con complicità maschile, scrive a Puccini, a proposito della relazione di questi con la “piemontesina”: “Caro Puccini, io che sono filosofo e tuo caro amico vedrei con profonda gioia di anima la fine di questa tua passione, la quale prende delle attrattive troppo romantiche per essere passione vera. […]. Devi perdonarmi perché ieri ho scritto una lettera all’Elvira in risposta ad una sua dove le dò tutti i torti. le ho scritto che chi ti ha iniettato nel sangue questo orgasmo spasmodico non è la ‘piemontesina’ ma lei, con la sua persecuzione e il suo sentinellismo: le ho persino detto che avvelena la tua vita artistica. Le ho parlato anche della seconda vita che deve a te […]”. Come probabilmente era sua abitudine, Elvira intercettò la lettera e rispose a Illica: “Scusi caro Illica […] quale è questa seconda vita che io debbo a Puccini? Una ben misera vita… Piena di amarezze e disinganni. Io non sto con Puccini per la posizione, ma perché gli voglio bene […]. (Cfr. G. Schiavi, Un genio all’opera, cit., pp. 159-161).
- In una lettera inviata da Parigi l’11 novembre 1908, alla sorella Tomaide, Puccini scriveva: “Sto discretamente, ma non troppo. Quel maledetto male l’ho sempre, stazionario ma ce l’ho e mi dà delle giornate d’una tristezza enorme […]”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit. p. 319.
- J. Budden, Puccini, Roma, Carocci, 2005, p. 254.
- Illica a Ramelde Puccini, metà aprile 1903. Cfr. A. Marchetti ( a cura di), Puccini com’era, cit., p. 271, n. 271.
- Da una lettera di Ramelde Puccini a Illica datata 21 aprile 1903, sappiamo che Corinna aveva addirittura chiesto a Elvira un incontro “che probabilmente Elvira non accorderà”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., p. 272, n. 272.
- All’epoca delle conseguenze legali seguite al suicidio di Doria Manfredi, Elvira rimandò un regalo a Sybil Seligman accompagnandolo con un biglietto tagliente sulle false amicizie. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 314.
- J. Budden, Puccini, cit., p. 313.
- L’avvocato Carlo Nasi, amico personale di Puccini, così gli consigliava in una lettera del 31 gennaio 1909: “Occorre una separazione legale: e cioè giudiziaria: anche senza lite: e cioè per decreto del pretore dopo maturi accordi. Ormai la moglie tua non può più tornare giù […] Non sistemare le cose solennemente sarebbe una follia. In questo senso parlai a tua moglie […] E così le riscrivo ora salvo ripetere anche a lei la mia idea, cioè che una separazione è indispensabile […]”. Nella stessa lettera, l’avvocato Nasi informava Puccini sia sui risultati dell’autopsia eseguita sul corpo di Doria “Non ti nascondo che era per me una grave preoccupazione la voce corsa (e di cui mi parlava una lettera che ti mostrerò) che si trattasse di aborto ecc. ormai ogni dubbio anche lontano è svanito ed è rimasta ormai assodata la integrità assoluta di quella povera creatura.”, sia sul sentimento che, nell’opinione pubblica, serpeggiava contro Elvira “Il paese tutto con uno slancio più che notevole impreca contro la moglie tua ed esprime sentimenti ostilissimi […] Concludendo: rimani a Roma quanto più puoi. Rasserenati e pensa che l’ambiente qui ti è favorevolissimo”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., pp. 345-346, n. 351. G. Schiavi asserisce, inoltre, che al tempo della tragedia di Doria Manfredi, Illica scrisse a Puccini suggerendogli di prendersi una sorta di anno sabbatico in America, in primis, beninteso, per sfuggire alle malignità più prevedibili. Negli Stati Uniti, il musicista era addirittura osannato e, a suo dire, assediato da folle di ammiratrici deliranti. In una lettera da New York, inviata alla sorella Ramelde ai primi di febbraio 1907, egli scrive, a proposito del fascino da lui esercitato sulle donne di New York “Mi cercano e mi vogliono […] e che forme le donne di qui, che culi sporgenti e che personale, che capelli […]. Cfr. G. Schiavi, Un genio all’opera, cit., pp. 158-159. Nella stessa lettera, Puccini confessa alla sorella che, mentre lui scrive, Elvira si è già ritirata a dormire, “se no non scrivevo quello che ho scritto. Otelleggia sempre ma io le faccio pulite. Silenzio e straccia. […]”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., p. 329, n. 335.
- A questo proposito Puccini scrisse alla sorella Ramelde ai primi di febbraio 1909: “Ora c’è la querela che bisognerebbe cadesse da sé. Lo faranno i parenti? Io lascio mia moglie: è questa la punizione e dovrebbe bastare a loro”. Cfr. A. Marchetti, (a cura di), Puccini com’era, cit., p. 350, n. 352.
- Cfr. A. Marchetti, (a cura di), Puccini com’era, cit. p. 365, n. 359.
- Elvira Puccini a Giacomo, da Milano il 25 marzo 1909. Cfr. A. Marchetti, (a cura di), Puccini com’era, cit. pp. 356 – 365, n. 359.
- In quel periodo, in effetti, i rapporti di Puccini col figlio Antonio erano molto tesi: trovandosi insieme a Milano dove Puccini sovrintendeva alle prove di Manon Lesacaut, Antonio aveva dipinto a suo padre un quadro desolante delle condizioni di Elvira. Puccini era ancora dell’idea di separarsi dalla moglie, incerto se definitivamente o solo temporaneamente, riflettendo sul fatto che, forse, dietro al comportamento di Elvira c’erano insinuazioni, chiacchiere maligne di parenti che non si erano fatti troppi scrupoli. Tornato in un secondo tempo a Milano, Puccini aveva saputo non solo che il figlio aveva lasciato il lavoro presso una ditta che produceva motori ed era andato in vacanza a Monaco di Baviera, dove Elvira lo aveva raggiunto ma, cosa peggiore, che Antonio stava pensando di emigrare in Africa. Atterrito dalla prospettiva di perdere il figlio, Puccini gli inviò lunghe lettere e, fortunatamente, riuscì a scongiurarne l’intento. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 314.
- Così alla sorella Ramelde, intorno alla metà di marzo del 1909: “Elvira agisce come una pazza cattiva e incorreggibile. Tonio se l’è preso. Lei cambia avvocati sopra avvocati e io debbo pagarli. Ha imbevuto tutti delle sue idee false e io non sono creduto più da quasi nessuno. Mi si vuol togliere persino Torre del Lago”. Cfr. A. Marchetti, (a cura di), Puccini com’era, cit., p. 356, n. 358.
- J. Budden, Puccini, cit., p. 315.
- Delle lettere scritte dalla baronessa a Puccini ne rimangono solo tre che risalgono al 16, 22 e 24 marzo del 1915 e sono scritte in un italiano approssimativo, e innamorato, con il quale Josephine chiama se stessa “Josi” o “Busci” e Puccini “Giacomucci” o “Mucci”. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., pp. 422-426, nn. 429, 430, 431.
- Giacomo Puccini a Giovacchino Forzano, 8 ottobre 1917. Le “sofferenze” patite al teatro milanese Dal Verme si riferiscono al fatto che la sera precedente era stata rappresentata, in prima locale, la Rondine con la direzione di Leopoldo Mugnone e le critiche non erano state particolarmente lusinghiere. Cfr. A. Marchetti (a cura di), Puccini com’era, cit., pp. 443-444, n. 447.
- A proposito della “madre” come archetipo femminile, Mosco Carner sostiene autorevolmente come Puccini soffrisse di una “fissazione della madre”, che gli avrebbe fatto vedere la donna attraverso l’insuperabile polarità tra madonna e prostituta. Da qui, sempre secondo Carner, deriverebbe una proiezione di colpevolezza della donna che ama al punto da rendere inevitabile l’espiazione con la morte. Julian Budden, invece, afferma che l’argomentazione di Carner non regge: la maggior parte delle eroine dell’opera lirica ottocentesca muore ma nessuno ha mai mosso ai loro creatori l’accusa di essere affetti da “fissazione della madre”. Giangiacomo Schiavi, ancora, recupera l’idea di una “fissazione della madre” non tanto per Puccini, bensì per Illica. Lo stesso è persuaso che il contributo illichiano alle eroine dell’opera pucciniana risenta del legame profondo che Illica nutriva per la propria madre, Geltrude Zappieri, morta quando era appena un bambino. Per queste notizie, si vedano: M. Carner, Giacomo Puccini, Milano, il Saggiatore, 1961, J. Budden, Puccini, cit., p. 491, G. Schiavi, Un genio all’opera, cit., p. 146. Come qualsivoglia musicologo non ignora, si tratta di tre pilastri pressoché imprescindibili per chiunque intenda compiere ricerche pucciniane degne di qualche credibilità scientifica.
- Come scrisse lo stesso Puccini,”tutti, da Verdi a Mascagni, hanno evoluto lo stile, chi bene e chi male. Per il mio caso, credo l’unico, ho trovato l’accordo fra critica e pubblico; questo per me è la conferma che non ho sbagliato”. Cfr. V. Bernardoni (a cura di), Puccini, Bologna, il Mulino, 1996, p. 27.
- Budden scrive che Puccini “[…] non era particolarmente generoso […] Eppure spendeva abbastanza a piene mani per sé: sei case, quattordici automobili e cinque barche a motore, incluso un costoso yacht, tutto nell’arco di ventotto anni. Azioni di beneficenza come quelle fatte da Verdi non erano per lui.[…]”. Cfr. J. Budden, Puccini, cit., p. 490.
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