L’universo multidimensionale di Giordano Bruno: un’esplorazione tra psiche e cosmo. Dialogo fra Marco Albertazzi e Giovanni Battista Rimentano

Marco Albertazzi, Giovanni Battista Rimentano, L’universo multidimensionale di Giordano Bruno: un’esplorazione tra psiche e cosmo. Dialogo fra Marco Albertazzi e Giovanni Battista Rimentano, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 22, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12860
Marco Albertazzi – Sin dal titolo, il saggio1 si direbbe affrontare la questione dei rapporti tra psiche e cosmo in Giordano Bruno attraverso il concetto di “multidimensionalità”. Ci può spiegare meglio cosa intende dire?
Giovanni Battista Rimentano – Quando pensiamo a Bruno come filosofo dell’infinito, spesso ci limitiamo a considerare il modo col quale ha abbattuto le mura del cosmo aristotelico, considerando l’universo infinito, ma solo per estensione. Tuttavia ritengo vi sia molto di più. L’universo di Bruno è infinito anche per il numero di dimensioni. Detto altrimenti, l’universo di cui parla Bruno non è tridimensionale, ma multidimensionale.
E in che modo ritiene che questa chiave di lettura possa gettare nuova luce nella comprensione del pensiero bruniano?
Questa chiave di lettura ci aiuta a capire meglio alcune delle intuizioni più profonde del Nolano. Pensiamo alla sua concezione della materia: non è solo un substrato passivo, ma un grembo infinitamente fecondo che contiene già in sé tutte le forme possibili; o alla sua arte della memoria: non si tratta solo di tecniche mnemoniche, ma di vere e proprie esplorazioni di spazi mentali multidimensionali.
Proviamo ad immaginare di essere un abitante di Flatlandia, un mondo bidimensionale, che improvvisamente scopre l’esistenza della terza dimensione. Ecco, in qualche modo anche per Bruno la nostra ordinaria esperienza tridimensionale potrebbe essere solo una proiezione di una realtà più ricca di dimensioni.
Sarebbe questo il motivo per cui Bruno ritiene psiche e cosmo non come due realtà separate, ma strettamente interconnesse tra loro attraverso una trama multidimensionale dell’essere?
Sì, è proprio così. In più, Bruno ci invita a farne non solo un’esperienza astratta del pensiero, ma anche concretamente emozionale, immaginale, vissuta, esplorando queste dimensioni ulteriori che esistono sia dentro che fuori di noi.
Nel suo saggio, lei accosta le idee di Bruno a teorie come quella delle superstringhe in fisica, in cui si ipotizza l’esistenza di dimensioni extra oltre le tre usuali, o alla psicoanalisi di Ignacio Matte Blanco che descrive l’inconscio come uno spazio multidimensionale. Ma non si corre così il rischio di travisare il pensiero originario di Bruno, proiettando su di esso scenari e categorie concettuali che non appartengono al suo orizzonte culturale di riferimento?
Ha ragione a sollevare questo punto. Sono consapevole del fatto che quando si cercano approcci ermeneutici per tentare di riportare nel tempo presente domande e riflessioni del passato si corrono rischi del genere. In effetti, come preciso nel primo capitolo del saggio, lo stesso concetto di “dimensione”, in senso strettamente matematico, è un’acquisizione relativamente recente, che risale tra l’Otto e il Novecento, quando si iniziò a parlare di spazi a più di tre dimensioni e di geometrie non euclidee. Quanto alla fisica, solo oggi la teoria delle supercorde introduce l’ipotesi dell’esistenza di dimensioni extra nel tentativo di conciliare tra loro la microfisica quantistica e la macrofisica della teoria generale della relatività.
Eppure – al di là di quello che si può pensare in proposito – a stretto contatto col testo di Bruno ho ritrovato con stupore intuizioni e dimensioni dell’esperienza che solo oggi la scienza e il pensiero contemporaneo iniziano a tematizzare esplicitamente, aiutandoci a ripensare in modo nuovo i rapporti tra mente e materia, tra psiche e cosmo, tra immanenza e trascendenza.
Certo non mancano alcune approssimazioni da parte mia, che necessitano di ulteriori ricerche. Me ne sono reso conto discutendo con alcuni studiosi a distanza di tempo dalla pubblicazione del saggio. Ma penso siano dovute all’inevitabile incompletezza di un percorso di ricerca che è appena agli inizi. Quindi non escludo che in futuro alcune conclusioni provvisorie alle quali sono finora pervenuto vadano ulteriormente affinate o in parte riviste. Ma l’obiettivo era intanto quello di proporre al pubblico un tipo di approccio nuovo, di grande attualità per i nostri tempi.
In fondo, la forza del pensiero di Bruno spesso consiste proprio nella sua capacità di trascendere i limiti del proprio tempo, come quando aderisce al copernicanesimo in un modo ancora più radicale di Copernico stesso. Infatti Bruno non si limita a spostare il centro dell’universo dalla Terra al Sole, ma sostiene l’impossibilità di stabilire un centro assoluto in un universo che lui considera infinito…
Sì, anch’io penso che tornare a studiare oggi i testi bruniani con rinnovato interesse significhi in qualche modo propiziare un possibile ritorno ad una modernità altra, che sorse per poi tramontare nel secolo stesso in cui visse Bruno.
Bene, ma tornando adesso al saggio, mi dica: da dove ha tratto ispirazione la sua idea della multidimensionalità, che lei applica tanto al mondo fisico quanto a quello psichico?
Vi sono diverse fonti dalle quali ho attinto, ma principalmente devo molto agli studi dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco e alla sua teoria bi-logica. È affascinante vedere come Matte Blanco parli dell’esperienza multidimensionale dell’inconscio osservando i meccanismi che sono alla base del sogno, in cui il sognatore si comporta come «un geometra che adopera un numero di variabili superiore a tre e che è costretto ad usare nella sua rappresentazione uno spazio di dimensioni non superiore a tre».
La vera svolta concettuale sta nel modo in cui questo pensiero della multidimensionalità attraversa e riconfigura i confini tradizionali tra fisico e psichico. Come sottolineo nel saggio, non si tratta semplicemente di applicare categorie spaziali alla psiche o viceversa, ma di cogliere una più profonda topologia dell’esperienza, dove il “luogo” stesso in cui ha luogo la nostra esperienza mostra di possedere più dimensioni di quelle che ordinariamente percepiamo.
Per usare la celebre metafora platonica, è come se ci trovassimo di fronte a una caverna e improvvisamente ci rendessimo conto che questa caverna non è solo lo spazio interno che misuriamo geometricamente, ma è anche la consapevolezza del darsi stesso dello spazio come caverna, con le sue aperture verso dimensioni ulteriori.
La multidimensionalità diventa così non solo una proprietà fisica o psichica, ma una caratteristica fondamentale del “luogo” stesso dell’esperienza, che si manifesta tanto nel cosmo quanto nella psiche.
E questa profonda intuizione la ritroveremmo già in Bruno, sebbene espressa nel linguaggio e nelle categorie del suo tempo?
Sì, è così. Vede, quando Bruno intuisce l’impossibilità di stabilire un centro assoluto in un universo infinito, possiamo vedere in ciò un’anticipazione, per certi versi, della relatività einsteiniana, per la quale nessun sistema di riferimento può essere assunto in senso assoluto (ferme restando le differenze tra Bruno e Einstein, insite nella formulazione matematica delle teorie di quest’ultimo).
Ma l’interpretazione di alcune affermazioni di Bruno sulla natura dell’universo, della materia o dell’immaginazione alludono, a mio parere, ad un’esperienza profonda che intuisce – anche se implicitamente – la natura di un universo infinito anche nel numero delle sue dimensioni, e questo implica qualcosa in più: offre una struttura teoretica in grado di pensare in che modo cosmo e psiche siano tenuti insieme in un’unica trama multidimensionale dell’essere.
Può spiegare meglio in che senso la multidimensionalità migliorerebbe la nostra comprensione del nesso che lega tra loro materia e psiche?
Certo. Se, per esempio, prendiamo alla lettera, e non come semplici metafore, il concetto di materia incorporea di cui Bruno parla nel De la causa, principio et uno («materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni»), tutto ciò è in stretta correlazione con l’immaginazione intesa come spiritus phantasticus, per via della quale la mente umana è capace di visualizzare in ogni cosa «un mondo o un golfo, mai saturabile, di forme e di immagini» (De imaginum compositione).
Ebbene, in uno spazio puramente tridimensionale, questo modo di intendere la materia sarebbe impossibile: due corpi non possono occupare lo stesso spazio nello stesso tempo. Ma in uno spazio con più di tre dimensioni, ciò che appare come sovrapposizione impossibile nella nostra percezione ordinaria diventa perfettamente concepibile, poiché le forme possono coesistere distribuendosi lungo dimensioni ulteriori.
Lo stesso vale per lo spiritus phantasticus e la sua capacità di visualizzare in ogni punto un “golfo infinito” di immagini. Questa esperienza sarebbe paradossale se confinata nelle tre dimensioni, ma diventa comprensibile se pensiamo a uno spazio mentale multidimensionale, dove ogni punto può effettivamente contenere una molteplicità infinita di forme, proprio come in un ologramma ogni frammento contiene l’informazione dell’intero.
Insomma, la multidimensionalità ci permette di comprendere come materia e psiche possano essere entrambe “luoghi” capaci di contenere l’infinito, non in senso metaforico, ma in senso letterale. È come se Bruno ci invitasse a pensare oltre la geometria ordinaria dello spazio tridimensionale, verso una topologia più profonda dove la capacità di contenere l’infinito non è un paradosso, ma una proprietà intrinseca tanto della materia quanto della mente.
In questo senso, la chiave interpretativa della multidimensionalità rivela la profonda intuizione bruniana di una realtà in cui fisico e psichico non sono due domini separati, ma manifestazioni diverse di un’unica trama multidimensionale dell’essere. È questa intuizione a rendere il pensiero di Bruno così sorprendentemente attuale.
Può fare altri esempi in cui la multidimensionalità gioca un ruolo illuminante nella comprensione di aspetti presenti nel testo di Bruno?
Un altro esempio particolarmente illuminante lo troviamo nel Cantus circaeus, ove Bruno descrive i “sostrati attributivi”. Tra le tradizioni dalle quali Bruno attinge per la sua arte della memoria, ritroviamo quella della costruzione di luoghi immaginari (loci o sostrati), in cui andare ad apporre delle immagini (adiectum), le quali traducono in termini concreti concetti astratti da ricordare. Ebbene, in cosa consiste la proposta innovativa di Bruno nel momento in cui introduce i sostrati attributivi? Si tratta di considerare qualsiasi oggetto, che normalmente fungerebbe da immagine (adiectum), anche come un luogo (sostratum) capace a sua volta di contenere altre immagini.
Bruno fa l’esempio del berretto che, posto inizialmente in una stanza come testimone di un evento, può essere spostato in un altro luogo e diventare strumento di un’altra azione. Assistiamo quindi ad una alternanza di funzioni. Ora, nulla di strano se in uno spazio tridimensionale un oggetto può fungere prima da contenuto e poi da contenitore in tempi diversi. Ma la multidimensionalità entra in gioco piuttosto quando consideriamo che nel sostrato attributivo questo scambio di ruoli non è solo successivo nel tempo, ma è anche simultaneo. Infatti, nella sovrapposizione di funzioni il berretto continua in qualche modo a portare con sé la memoria del primo evento anche quando diventa teatro di un secondo evento.
È come se l’oggetto acquisisse strati successivi di significato che non si cancellano ma si sovrappongono, creando una profondità semantica che trascende la tridimensionalità ordinaria, creando quella che potremmo chiamare una “profondità memoriale” dell’oggetto. Quindi nella plasticità originaria dell’immaginazione – che è la matrice alla base di un processo di visualizzazione che poi si sviluppa attraverso immagini tridimensionali date in successione – lo slittamento gestaltico continuo tra sfondo e figura, contenuto e contenitore, avviene simultaneamente se considerato in una prospettiva multidimensionale. Come se ogni punto dello spazio potesse aprirsi in profondità, rivelando dimensioni ulteriori…
Siamo insomma in presenza di una geometria altra, dove il punto stesso può diventare luogo e il luogo può contrarsi in un punto, secondo un gioco di trasformazioni topologiche che trascende la geometria ordinaria dello spazio tridimensionale. Bruno ne avrebbe intuito la possibilità non tanto attraverso una vera e propria formulazione matematica, ma attraverso una praxis dell’immaginazione che genera configurazioni, le quali anticipano, per certi versi, taluni aspetti della moderna teoria dei frattali e degli spazi multidimensionali.
Nel saggio lei ricorre spesso anche all’analogia dell’origami oppure parla di “pieghe nascoste”. Può spiegarcene la funzione?
L’analogia dell’origami è particolarmente suggestiva e ricorre nel saggio ogni qualvolta intendo attirare l’attenzione del lettore su quelle occasioni in cui – tra le pieghe nascoste dell’ordinario – si manifesta la sottile presenza della multidimensionalità.
Quando pieghiamo un foglio bidimensionale per creare un origami, stiamo di fatto utilizzando una terza dimensione per far emergere una forma che era già virtualmente presente nella superficie piana. Non vi è una forma che viene apposta sullo sfondo di un foglio che funge da sostrato, ma è il sostrato stesso la matrice che piegandosi si manifesta come forma. È questa una perfetta metafora della concezione bruniana della materia come matrice che trae dal proprio grembo le forme che già contiene.
Inoltre, le pieghe nascoste dell’origami rivelano come nel passaggio da una dimensione all’altra non assistiamo soltanto ad una semplice aggiunta quantitativa (una dimensione in più), ma vi è una vera e propria trasmutazione qualitativa dell’esperienza (emerge una forma). Ce lo rivelano anche i modelli matematici attraverso i quali gli scienziati provano oggi a studiare la formazione dell’embrione umano: allorquando i foglietti embrionali, piegandosi su se stessi come un origami, danno origine agli organi del futuro nascituro, siamo dinanzi ad un processo che Bruno avrebbe riconosciuto come una vera e propria metasomatosi, una trasformazione in cui la formazione di una parte del corpo coinvolge il corpo (soma) nel suo insieme.
Un po’ come in un anello di Möbius, in cui una semplice torsione nello spazio tridimensionale permette di passare continuamente dall’interno all’esterno di una superficie, trascendendo la dicotomia dentro/fuori…
Sì, dentro/fuori, contenitore/contenuto (ma anche potenza/atto, forma/materia), tutto questo mostra come la prospettiva della multidimensionalità permetta di riconsiderare come naturali le apparenti contraddizioni della logica ordinaria, realizzando quella coincidentia oppositorum di cui parlavano sia Cusano che Bruno. Si tratta quindi di potenti analogie che ci aiutano a comprendere quelle “pieghe nascoste” nella trama dell’essere in cui Bruno intuiva la presenza di qualcosa che solo un pensiero capace di muoversi oltre le tre dimensioni può davvero esplorare e abitare.
Un’altra feconda applicazione della multidimensionalità mi pare consista nel ripensare in maniera nuova termini quali complicatio, explicatio e contratio e quindi il rapporto Uno-Molti. Cosa può dirci in proposito?
Il rapporto tra Uno e Molti acquista una nuova luce se interpretato attraverso le trasformazioni dimensionali. Come spiego nel saggio, passando da una dimensione superiore a una inferiore (explicatio), l’Uno appare come Molti: è il processo per cui l’unità si frammenta e si disperde nella molteplicità.
Viceversa, risalendo da una dimensione inferiore a una superiore (complicatio), i Molti si raccolgono nell’Uno: è il movimento di raccoglimento della molteplicità nell’unità.
Possiamo quindi vedere questa dinamica all’opera a diversi livelli:
1. A livello cosmologico: l’universo è intero (Uno) ma appare diviso in parti (Molti) attraverso quello che si direbbe “effetto tempo e effetto spazio”, che sono come la proiezione umbratile dell’unità originaria.
2. A livello della materia: la materia universalis (incorporea) contiene simultaneamente tutte le forme in unità, mentre la materia corporea le manifesta in forma di corpi tridimensionali dati in successione temporale e spaziale.
3. A livello dell’immaginazione: lo spiritus phantasticus può cogliere in un punto (contractio) infinite forme che si dispiegano poi nella visione ordinaria.
In tutti questi casi, non si tratta solo di semplici metafore, ma di veri e propri processi di trasformazione topologica. La contractio, in particolare, diventa il movimento chiave che permette di passare tra diverse dimensioni dell’esperienza, raccogliendo a diversi livelli il dispiegarsi molteplice nell’uno, senza però annullare la ricchezza del molteplice, senza cancellare la molteplicità stessa.
È come se Bruno ci invitasse a pensare l’Uno non come negazione dei Molti, ma come loro “complicazione” in uno spazio di dimensioni superiori, dove l’unità e la molteplicità non sono più in contraddizione, ma si rivelano come aspetti diversi di un’unica realtà multidimensionale.
Ma fino a che punto è lecito parlare di matematica (e in termini matematici) del pensiero di Bruno?
Occorre innanzitutto precisare che quella di Bruno è innanzitutto una “matematica dell’immaginazione” di forte impatto visivo e di tipo geometrico-simbolico-combinatorio. Non è la matematica astratta e formalizzata che conosciamo oggi.
Di fatto, per Bruno, la mathesis è inseparabile dall’esperienza viva del pensiero che si fa immagine. È una matematica che non sollecita solo il pensiero logico-dimostrativo, ma esercita attivamente anche le potenzialità dell’immaginazione e dell’emozione. Quando Bruno disegna le sue figure geometriche, quando traccia i suoi sigilli, sta esplorando una dimensione dove numero e forma, calcolo e visione, ragione e immaginazione non sono nettamente separati tra loro.
Nel De triplici minimo, spesso Bruno ricorre allo gnomone, ossia una figura che — secondo un procedimento geometrico, già noto nell’antichità — aggiunta o sottratta ad una data figura l’aumenta o la diminuisce, mantenendone tuttavia la forma. Non si tratta soltanto di una definizione geometrica, ma dell’indicazione di un principio di trasformazione che riguarda tanto la materia quanto l’immaginazione, nel passaggio dal piccolo al grande e viceversa.
Quando nel saggio parlo di una “topologia dell’esperienza”, intendo dire che non si tratta solo di misurare lo spazio interno della “caverna” in cui siamo (per tornare al celebre racconto della caverna platonica), ma di prendere consapevolezza del Luogo stesso in cui ha luogo la nostra esperienza. Quella di Bruno è una matematica che non separa il quantitativo dal qualitativo, il misurabile dall’immisurabile, ma cerca di cogliere le loro segrete corrispondenze.
Quindi è lecito parlare di matematica in Bruno, ma a patto di intenderla come una mathesis vivente, una sapienza dei numeri e delle forme che è anche sapienza dell’anima e del cosmo.
D’altronde, tra i motivi per cui Bruno – dopo lungo peregrinare attraverso le corti di mezza Europa – accetta l’invito fatale di Mocenigo e rientra in Italia, vi era proprio la promessa di una cattedra di matematica presso l’Università di Padova…
Sì, ed è questo un dettaglio biografico rivelatore della complessa trama di destino e pensiero che caratterizza la vicenda di Bruno. Nel momento in cui Bruno torna in Italia, attratto dalla promessa di quella cattedra che poi andrà a Galileo, sta in realtà inseguendo un sogno più profondo: quello di una matematica capace di tenere insieme l’infinito del cosmo e l’infinito dell’anima.
La tragica ironia è che proprio mentre cerca di ottenere una cattedra per insegnare questa matematica vivente — una mathesis che non separa il calcolo dall’immaginazione, la misura dall’immisurabile — sta per cadere nella trappola di chi non poteva comprendere la portata rivoluzionaria del suo pensiero. Mocenigo cercava formule magiche e segreti iniziatici, ma Bruno stava esplorando qualcosa di ben più radicale: le dimensioni nascoste di un universo dove la geometria del cosmo e la topologia dell’anima si rispecchiano infinitamente.
Ecco allora che quella cattedra mancata diventa il simbolo di una modernità altra, che si è solo intravista per poi scomparire nelle pieghe del tempo. Una modernità dove la matematica non è solo strumento di calcolo, ma via di accesso alle profondità multidimensionali dell’essere, dove il numero non è separato dalla vita e la geometria conserva la sua dimensione sacra. Ed è come se quella promessa tradita ci parlasse ancora oggi, invitandoci a ripensare al rapporto tra matematica e vita, tra misura e mistero, tra le coordinate cartesiane dello spazio e le infinite dimensioni dell’anima.
Da poco sono uscite per Adelphi le Opere matematiche di Bruno, nell’edizione critica diretta da Michele Ciliberto e curata da Laura Carotti e Marco Matteoli. Negli scritti matematici dell’ultimo periodo, Bruno introduce concetti come quello di «minimo» e «monade», concetti attraverso i quali cerca di spingersi più in profondità nell’esplorazione della struttura sottile della materia, alla ricerca di una tessitura sottostante più primordiale, anche se inapparente. In queste opere latine, l’accento non cade più sulla «materia incorporea», ma su una riformulazione originale delle antiche teorie atomistiche, senza rinunciare tuttavia a quell’idea di «vita materia infinita» che rinvia ad una sorta di “matematica vitalistica”. L’interesse di Bruno si sposta così verso una concezione corpuscolare della materia e una geometria del discreto, in contrapposizione alla geometria del continuo. Cos’ha da aggiungere in proposito?
Come ho già detto in precedenza, il tipo di approccio, seguito nel mio saggio, è appena agli inizi e non ha ancora finito di sviluppare tutto il suo potenziale. Mi sono concentrato maggiormente sulla concezione bruniana della materia incorporea nei termini descritti nei dialoghi italiani. La tensione tra il discreto e il continuo mi induce a rivedere in parte la questione della multidimensionalità sotto nuove angolazioni, magari riconsiderando e precisando meglio quanto finora sostenuto.
In fondo, quando Bruno parla del minimo e della monade, sta cercando di cogliere quella soglia impercettibile dove la materia si fa numero e il numero si fa materia. È come se cercasse di mappare quella zona di confine in cui la continuità apparente della materia vivente si rivela essere apparente, frutto di una nostra “sfuocatura” percettiva alla cui scaturigine ritroviamo, invece, una struttura discreta fatta di unità minime, gli atomi, “atomi vivi” però, in quanto unità (monadi) dotate di un’infinita potenzialità creatrice.
Bruno quindi non cessa di conciliare la sua geometria corpuscolare con l’idea di una materia-vita infinita, esplorandone il tessuto più intimo, la trama sottile dove le dimensioni dell’essere si annodano e si dipanano. Nel minimo bruniano convergono tendenzialmente considerazioni di ordine fisico, matematico e metafisico. Il minimo bruniano sembrerebbe quindi collocarsi a metà strada tra una particella materiale e un punto-soglia, un luogo topologico dove il discreto e il continuo, il finito e l’infinito si incontrano. Nel saggio non ho esplorato fino in fondo questo aspetto. Ma proprio la dialettica tra discreto e continuo, quale emerge dalle opere matematiche di Bruno, potrebbe offrire ulteriori spunti per comprendere come egli intendesse le infinite articolazioni dell’essere tra visibile e invisibile, apparente e inapparente.
Insomma, il passaggio dal continuo al discreto potrebbe indicare in Bruno non un semplice tentativo di ridurre tutto nei termini materialistici di un meccanicismo classico, come quello che trionferà con l’avvento della scienza moderna di Galilei. Si tratterebbe piuttosto del tentativo di cogliere un’articolazione più sottile della realtà materiale, senza scindere troppo, cartesianamente, tra l’ambito fisico e quello psichico. Sarebbe pertanto interessante esplorare questa “geometria corpuscolare del discreto”, magari considerando i “minimi” non come semplici punti tridimensionali, ma come nodi di una rete di relazioni multidimensionali.
Minimi come nodi di una rete di relazioni multidimensionali? In che senso?
Al momento è solo una mia idea appena abbozzata. Pensare i minimi come nodi di una rete di relazioni multidimensionali significa ripensare la concezione bruniana del minimo oltre la sua apparente semplicità geometrica. D’altronde, come ho già detto, quando Bruno parla del minimo, non si riferisce semplicemente a un punto geometrico tridimensionale, ma a qualcosa di più complesso e fondamentale. Possiamo immaginare questi minimi come “luoghi di intersezione” dove diverse dimensioni dell’essere si incontrano e si intrecciano, come “snodi” in cui la dimensione fisica (il minimo come “atomo”), la dimensione metafisica (il minimo come “monade”) e la dimensione matematica (il minimo come “punto geometrico”) si fondono e si articolano reciprocamente.
Quindi questi nodi non sarebbero isolati, ma formerebbero una rete di relazioni che trascende la tridimensionalità ordinaria. È come se ogni minimo fosse un punto di “pieghettatura” in cui la materia si organizza secondo pattern che non possono essere compresi solo in termini di lunghezza, larghezza e profondità. Per usare un’analogia: così come in un tessuto ricamato i punti del ricamo non sono semplicemente punti isolati sulla superficie, ma formano un pattern complesso attraverso i loro intrecci sopra e sotto il tessuto, allo stesso modo i minimi bruniani creerebbero una tessitura della realtà che va oltre la semplice giustapposizione tridimensionale.
Questa interpretazione ci permetterebbe di vedere come la teoria corpuscolare di Bruno non sia in contraddizione con la sua visione dell’infinito e della materia incorporea, ma ne rappresenti piuttosto un’articolazione più sottile e profonda.
Ma perché, le chiedo ancora una volta, ricorrere all’idea della multidimensionalità?
Perché la multidimensionalità ci offre delle chiavi ermeneutiche in grado di comprendere alcuni paradossi fondamentali del pensiero bruniano, almeno per tre ragioni essenziali.
La prima: il paradosso della compresenza. Quando Bruno parla della materia incorporea come ciò che contiene simultaneamente tutte le forme, che poi si manifestano serialmente nella materia corporea, abbiamo bisogno di uno spazio concettuale che permetta questa compresenza senza contraddizione. La multidimensionalità offre questo spazio. In tal senso, la materia incorporea di cui parla Bruno, non sarebbe una nozione metafisica, ma iperfisica.
La seconda: la questione dell’invisibile. L’incorporeo in Bruno (da intendersi in senso materiale e non come mera astrazione metafisica) non è semplicemente assente o non-visibile, ma è invisibile rispetto alla tridimensionalità. È come se esistesse in dimensioni ulteriori che “eccedono” la nostra percezione ordinaria, pur fondandola.
Infine, la terza: la relazione tra infinito e finito. Il modo in cui Bruno concepisce il rapporto tra l’infinito universo e i mondi finiti richiede un modello che permetta di pensare come l’infinito “si contrae” nel finito senza perdere la sua natura infinita.
Insomma, la chiave interpretativa della multidimensionalità è un modo per rileggere il pensiero di Bruno con gli strumenti concettuali di cui oggi la filosofia, le scienze e la matematica dispongono. Non un’artificiosa attualizzazione del pensiero bruniano, ma un’ermeneutica delle intuizioni e degli spunti teoretici che Bruno ci ha lasciato e che sono di grande interesse nel nostro scenario attuale.
La multidimensionalità diventa così non un’aggiunta estrinseca, ma un modo per articolare quella “topologia dell’essere” che Bruno intuisce e che precede ogni geometria delle forme finite tridimensionali.
Note
- Giovanni Battista Rimentano, Multidimensionalità, psiche e cosmo in Giordano Bruno, La Finestra editrice, Trento 2023.
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