Ottorino Respighi fra erotismi e metamorfosi

Antonio Castronuovo, Ottorino Respighi fra erotismi e metamorfosi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 13, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12833
Era nato a Bologna nel 1879 e scomparve a Roma nel 1936 per una endocardite; aveva quasi cinquantasette anni. Oggi, nell’epoca della diffusa senilità, sembrano pochi: misurati peraltro sulla Generazione dell’Ottanta furono più che sufficienti a compiere una varia e vasta opera. Come risaputo, quella di Ottorino Respighi fu la generazione che – lungo percorsi non di rado contrastanti – tracciò l’assetto espressivo dell’arte moderna, abdicando dagli stilemi ottocenteschi.
Lasciando da parte grandi nomi stranieri (Stravinskij, Bartók, Kodály, Berg, Webern, Szymanowski), gli italiani di quella generazione non furono da meno: Pizzetti, Malipiero, Casella, Alfano e, appunto, Respighi, colui che oggi meglio sopravvive tra loro, grazie al successo di cui la sua musica godette all’estero. Più che in Italia e nella diletta Bologna, è stato infatti apprezzato ed eseguito soprattutto in altre nazioni, ove i pubblici andavano in delirio all’ascolto delle sue composizioni, eseguite da orchestre prestigiose guidate dai grandi direttori della prima metà del Novecento: Marinuzzi, Stokowski, Mengelberg, Reiner, Kusevickij, Toscanini.
Non solo: la sopravvivenza del nome è anche correlata alla varietà e qualità delle sue composizioni. Respighi produsse un’opera di prodigiosa ampiezza e singolare valore: fu compositore che, conoscendo la tecnica di vari strumenti ed essendo lui stesso violista, violinista e all’occorrenza pianista, ne dominò il ruolo sinfonico e diventò mirabile orchestratore. Per la varietà degli stili utilizzati nelle sue tante opere, si è parlato di eclettismo, come se l’autore avesse estratto da diverse parti una congerie di materiali stilistici.
Una recente posizione critica di Francesco Attardi recita: «Sarebbe più esatto parlare di polistilismo. Di volta in volta, pur su una base comune di organizzazione delle tecniche costruttive, possiamo osservare come ogni lavoro sia diverso dal precedente, spesso in opposizione: una caratteristica che andrà avanti sino alla fine della sua parabola artistica, con la conseguenza che Respighi non è inquadrabile in una corrente o in un’altra, essendo un talento multiforme».
Il medesimo studioso ha definito Respighi – per la musicalità, bellezza e solarità delle partiture – il «Mozart del Novecento». Sono qualità che già lo rendono degno di larga considerazione, se non fosse che il suo operato ha manifestato un’efficacia ben più profonda: «La musica italiana, quella ‘vera’ per i pubblici di tutto il mondo – a parte il nostro Rinascimento e Barocco venerato dai cultori – è stata ed è rimasta quella operistica. Solo Respighi è riuscito ad infrangere ‘the glass ceilinig’, il soffitto di cristallo e i pregiudizi che identificavano l’Italia come il regno esclusivo del melodramma. E a tutt’oggi egli resta l’unico sinfonista italiano conosciuto ed eseguito con grande successo all’estero, un ‘brand’ di italianità che suscita sempre stima e ammirazione». Non era scontato, insomma, che l’Italia dovesse restare soltanto il “paese del melodramma”: in grazia di Respighi (e di altri di quella generazione) – a parlar schietto – essa poté diventare anche terra di una superba rifioritura della musica strumentale.
Non è un caso che di lui si rammenti soprattutto tale settore dell’opera, specialmente i quadri sinfonici – quei pezzi abili quanto smaliziati che non si perdono in un ‘programma’ – Fontane di Roma (1916), Pini di Roma (1924), Vetrate di chiesa (1926), Trittico botticelliano (1927), Feste romane (1928). La parte maggiore di tale produzione si colloca nella seconda metà degli anni Venti, ossia dopo l’esordio dieci anni prima delle Fontane: si discorre di pezzi che – come ebbe a scrivere Mila nel 1932, in uno dei primi contributi dedicati alla figura del Nostro petroniano sui generis – «hanno la felicità e la pienezza di vita delle opere nate nel giusto momento storico, senza essere né epigoni né prodromi di nulla, ma favorite da un clima spirituale perfettamente adeguato».
Vero, nessun epigonismo; ma il colore, il timbro orchestrale e in generale il suono di Respighi devono qualcosa a un incontro giovanile di rilievo: ingaggiato a ventuno anni come viola nell’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, conobbe il sommo orchestratore Rimskij-Korsakov e da lui prese lezioni per alcuni mesi, col risultato che l’arte del russo un po’ si sente nella riformulazione originale che il Nostro fece dei poemi sinfonici, ottimi prodotti di uno stile musicale che per timbri e atmosfere poteva dirsi pienamente italiano.
Eppure, nonostante il perfetto amalgama di colore, armonia e melodia, nel 1916 la prima delle Fontane di Roma all’Augusteo – forse per l’inefficacia dell’orchestra a ricreare il sofisticato timbro della partitura – fu un fiasco: si dovette attendere la qualità eccelsa dell’Orchestra della Scala diretta da Toscanini per far trionfare l’opera nel 1918, aprendo la strada del successo anche agli altri poemi. Opere che nell’insieme configurano – è ancora Attardi a precisarlo – la punta di un iceberg compositivo, una montagna sommersa di cui per decenni abbiamo visto solo la cima che spunta tra le nebbie; e invece Respighi è il forziere di un’opera vasta e composita, di tanti gioielli che meritano di tornare sui leggii delle orchestre.
Si rileva la sua inclinazione verso il cosmo strumentale anche dal fatto che volle ricavare suite orchestrali da opere di diverso genere e più vasta concezione: trasse ad esempio una Ouverture – vero gioiello sinfonico – dai principali spunti motivici della commedia lirica Belfagor (1923). Miscela di buffo e miracoloso, l’opera porta in scena il noto arcidiavolo che, giunto tra gli umani per capire se davvero il matrimonio è come l’inferno, lo sperimenta tra perfidie e inganni.
Si percepiscono nell’opera cenni al dualismo, l’attrazione comunque di Respighi verso mondi spirituali che ne fanno autore colto e di seduzione universalistica. Sono interessi che coltivò fin da ragazzo: l’esoterismo, le scienze occulte (negli anni romani frequentò circoli russi in cui conobbe cultori dell’occultismo come lo scrittore Aleksandr Amfiteatrov), la passione per le mappe geografiche, l’attrazione se non per una lingua universale come l’appena creato esperanto, per la molteplicità dei linguaggi (sui suoi scaffali, colmi fin dalla giovane età, erano presenti le grammatiche di parecchie lingue: il francese e l’inglese, lo spagnolo e il portoghese, il russo e lo svedese, l’ebraico e l’arabo, come anche gli oscuri idiomi del ceppo ugro-finnico).
In ambito lirico, Ottorino Respighi fu autore, oltre a Belfagor, di Maria Egiziaca (1932) e de La fiamma (1934). Non secondaria poi è l’ambiziosa coreografia in sette quadri Belkis, regina di Saba (1932), un balletto di melodie orientali che ne delinea il viaggio nel deserto – col seguito di guerrieri, schiavi, elefanti et similia – e il suo incontro con Salomone, il mitico re d’Israele, il tutto ornato da riti esoterici e magici.
Dopo la trionfale prima alla Scala con coreografie di Léonide Massine e dopo undici repliche, causa l’apparato scenografico colossale, i parecchi orchestrali, coristi, ballerini e figuranti, la sfarzosa produzione fu abbandonata. Consapevole che il balletto sarebbe scomparso dalle scene, l’autore volle estrarre dalla partitura due suite sinfoniche, concludendone una sola nel 1934.
L’opera di Respighi cela anche una meraviglia trascurata del Novecento: Metamorphoseon XII Modi del 1930, ciclo di dodici variazioni su un tema di origine amerindia commissionato da Kusevickij per i cinquant’anni della Boston Symphony Orchestra. Collocata su un percorso storico che dalle Diabelli di Beethoven conduce alle Variazioni per orchestra op. 31 di Schönberg, l’opera combina idee musicali secondo formule disparate, permettendo all’autore di superare il cliché di mero colorista e facendo di lui il creatore di una delle grandi ideazioni musicali del secolo scorso. Conclude Attardi: «Dopo l’analisi e l’ascolto dei Metamorphoseon, tesoro nascosto ai più sconosciuto, possiamo lasciarci alle spalle finalmente un secolo di false credenze, equivoci, conoscenza parziale, giudizi critici superficiali e mistificazioni ideologiche riguardo alla portata storica di questo Genio italiano e del suo incommensurabile universo musicale».
Ora, Metamorphoseon si fonda sui dodici modi ecclesiastici, ma già nel decennio precedente Respighi aveva attinto dal diatonismo modale del canto gregoriano interpretandone le figure sonore in maniera molto personale nel Concerto gregoriano per violino e orchestra (1921), nei Tre preludi per pianoforte su melodie gregoriane (1921, pezzi poi trascritti nelle Vetrate di chiesa), nel Concerto in modo misolidio per pianoforte (1924).
La carriera cosmopolita ne fece una figura distante dalle questioni politiche italiane, verso cui nutrì blando interesse: a differenza di altri compositori, non prese la tessera del partito fascista. Con ciò, la sua posizione nei riguardi dell’evoluzione musicale fu conservatrice: acconsentì nel 1932 alla nomina ad Accademico d’Italia, osteggiato in commissione dalla gelosia di Mascagni.
Qualche mese dopo fu primo firmatario (seguirono, tra gli altri, Ildebrando Pizzetti, Alceo Toni, Giuseppe Mulè, Riccardo Zandonai, Guido Guerrini) del Manifesto dei musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’800, apparso a dicembre nel «Corriere della Sera» e nella «Stampa». Il manifesto esortava i giovani compositori a non farsi sudditi dei cerebrosi avvenirismi atonali e pluritonali, a non ripudiare il passato tradizionale della musica italiana.
Restò coinvolto nella polemica che ne seguì: si era fatto portavoce di un’ala antimoderna della musica italiana, scatenando l’indignazione dei bersagli del documento, Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero. Si profilò lo scisma che pone oggi Respighi nel versante reazionario della musica d’epoca e la coppia Casella-Malipiero in quello moderno ed evoluto, anche se poi i due indignati furono più contigui al fascismo rispetto ai firmatari del manifesto tradizionalista.
La questione si riflette nei contenuti del solo scritto che Ottorino pubblicò in vita, Orpheus. Iniziazione musicale, uscito da Barbèra nel 1925. Lo aveva redatto a quattro mani con il critico Sebastiano Arturo Luciani, volendo procurare una sorta di compendio teorico e storico della musica. Ebbene, la parabola narrata nella seconda parte del libro si dipana dalla musica antica alle ultime tendenze a cavallo fra Otto e Novecento: vi viene riconosciuto, fra il resto, il grande, incommensurabile valore della Scuola russa, anche per l’insegnamento di quel colore orchestrale messo a frutto in occidente da Berlioz: il Respighi, ottimo orchestratore, si calava d’altronde alla perfezione in questo mondo.
L’autore inoltre non accoglieva nella disanima storica la dodecafonia, che pure aveva già dato in quel 1925 frutti rilevanti (come la Suite op. 25 per pianoforte di Schönberg): erano manifestazioni, secondo lui, di una crisi da cui la musica si sarebbe presto ripresa, e Stravinskij già rappresentava il ritorno a una primordialità fatta di ritmo, melodia, spunti popolari.
Così, Respighi si scontrava frontalmente – e prima del tempo – con la visione duale che Adorno avrebbe enunciato nella Filosofia della musica (1949): Schönberg figura del progresso in musica, Stravinskij musicista del regresso. Il grande petroniano ne usciva forse perdente? Ai posteri… A ogni buon conto, si ragionerebbe comunque di un perdente assai abile nello strutturare quadri non frammentari, dotato di eccellente senso della forma, nonché capace di donare liberalmente alla Storia musica luminosa e scultorea, francamente bella.
Nota bibliografica
Francesco Attardi si è di recente imposto come ottimo studioso di Respighi. Le citazioni sono tratte da questi suoi testi: Respighi musicista attuale, in Ottorino Respighi pittore di suoni, a cura di Piero Mioli e Fulvia de Colle, Bologna, Pendragon, 2024, pp. 5-18: 9; Ottorino Respighi. Un iceberg sinfonico, Lucca, LIM, 2024, pp. 40 e 928-929 (opera redatta con Lorenzo Casati). Di Massimo Mila, infine, si cita il breve saggio Un artista di transizione: Ottorino Respighi, ora in Id., Cent’anni di musica moderna, Torino, EDT, 1981, pp. 145-153: 146.
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2025 Antonio Castronuovo