“Avremo anche giorni migliori” – Zehra Doğan: opere dalle carceri turche

Maria Teresa Martini, “Avremo anche giorni migliori” – Zehra Doğan: opere dalle carceri turche, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 17, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12798
Il nuovo tema proposto di Biblomanie mi ha immediatamente richiamato la profonda emozione vissuta alla mostra “Avremo anche giorni migliori” – Zehra Doğan: opere dalle carceri turche, curata da E. Stamboulis, che il Comune di Brescia e la Fondazione Brescia Musei ha inaugurato nel 2019, per l’annuale scadenza del Festival della Pace, occasione in cui in Santa Giulia vengono presentati ogni anno artisti che si battono per i diritti civili e per la pace del loro popolo.
Zehra Doğan (Diyarbakir, Turchia, 1989), artista e giornalista curda, è stata rinchiusa in tre carceri, fra cui Tarso e Diyarbakir, con l’accusa di propaganda terrorista per un acquarello tratto da una fotografia bellica, diffusa sui social, e fatta diventare il disegno della città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale. I blindati trasformati in scorpioni l’hanno resa una terrorista. Più probabilmente, elemento non citato nelle accuse, le hanno affibbiato il termine terrorista per il suo impegno nell’informazione – era infatti cofondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”- per allontanare da lei intellettuali turchi intimorendoli.
Nel periodo drammatico della crisi tra Turchia e Curdi, ha continuato a dipingere anche in carcere, ed i malvagi aguzzini diventavano scorpioni o rapaci; ma è riuscita a fare molto di più. A creare una resistenza, nella quale ha coinvolto le compagne di prigionia. Non erano in celle singole ma in 52 segregate in una specie di appartamento per 30 persone, con pochi letti anche per dormire, ma reso utilizzabile per momenti di incontro tra loro. Hanno inserito nel programma delle loro giornate anche la lettura di giornali, alternando ore di storia, fino a creare una redazione interna per un loro giornale clandestino, scritto a mano e disegnato. Non mancava qualche ora di yoga, qualche gioco a palla, fino alla mostra con le sue opere realizzate in carcere, appese in lavanderia, con le mollette dei panni. Quella prima mostra ha avuto successo internamente al gruppo delle recluse, ma le è costata ulteriori punizioni, fino al trasferimento in un carcere più duro.
Ancora una volta non ha indossato il ruolo di vittima, non si è fermata, ha continuato il suo impegno per sostenere la lotta di liberazione del popolo curdo con il disegno e la scrittura.
Vi chiederete come ha fatto in carcere a continuare disegno e pittura, pur privata tassativamente di fogli e pastelli, matite, colori? Le erano vietati gli attrezzi del mestiere ed è riuscita a realizzare lo stesso opere di potente espressività, create come atto di resistenza: su pagine di giornale, su abiti e biancheria, su carte da pacchi, usando materiale di scarto, dal cibo a tutto ciò che poteva essere dsponibile: prezzemolo, rucola, sangue, succo d pomodori e di melograno, caffè e fondi di caffè, olio. Buona parte del gruppo di carcerate, sentendosi coinvolto, collaborava nella raccolta di stagnole di pacchetti di sigarette, indumenti, asciugamani, frammenti di tessuto, e poi succhi e resti di caffè, sangue mestruale, cenere di sigarette, candeggina, tintura di iodio. Per pennello le ciocche dei capelli .
Ecco Hennè e hedonal una danza a tre; Rompendo le catene: un volo oltre il filo spinato; caravan cumuli di figure in movimento che si accavallano. Un giorno al mare, in più versioni ha il blu di una vernice rubata in deposito su carta da pacchi, le macchie coprono i sogni, nascondono e svelano la figura umana.
Tante tecniche inconsuete ma di grande potenza espressiva, materiale grezzo in sostituzione di pastelli e inchiostri raccolto con la collaborazione delle detenute, che hanno aggiunto ricami su tessuti da lei dipinti.

Tra le figure femminili domina il ritratto di Hevrin Khalaf (un bellissimo volto, con occhi sgranati ed una treccia nera al vento), segretaria generale del Partito del Futuro siriano, attivista per i diritti delle donne e per il riconoscimento dell’identità del popolo curdo, uccisa il 12 ottobre 2019 da alcuni uomini di milizie mercenarie in appoggio all’offensiva turca. Un viso altero, con una corona di fiori ricamati sul capo come pietre ornamentali, e la mano di Fatima ancora più in alto a proteggerla nell’oltre.
Pettorine ricamate a colori in viaggi: due figure femminili riprese di schiena e a fronte, con lo sguardo fisso sul visitatore e/o rivolti verso il futuro. Cavolo nero ed hennè per dipingere donna su lembi di una gonna, cattività dei sogni nostalgici: rose e figure evadono dal capo della sognatrice.
All’improvviso, non si sa come è comparsa una penna a sfera che le ha permesso di disegnare opere grafiche semplici e drammatiche: rivolta contro la cattività, in gruppo, profili di persone singole con espressioni cupe; la danza dei sogni che sembra un incubo in blu, la prigionia dei sogni è un dato reale, non metaforico.
Intensa edera dei miei sogni: dietro le sbarre una sua sosia dalla inconfondibile treccia di capelli corvini e occhi sgranati inizia una lenta metamorfosi, verso una forma di uccello, le sono accanto, ma oltre le sbarre, un’edera rampicante, uno scarpone-nido, uno scorpione… Sono tornati neri scorpioni nella commovente opera dedicata a Mugdat Ay: un ragazzino undicenne morto in carcere, rappresentato mentre si spegne giocando a biglie, punto da due scorpioni.
Sulla parete immagini di indecifrabili uccelli umanoidi color fucsia: a volte rapaci e aggressivi, a volte miti.

Dolente voglia di evasione, mentre aggrappati alla libertà si assiepano in troppi su un unico tronco; Gever :un rapace domina su teste dormienti, urlanti, ferite; insieme frammentato due profili divisi da scritte e decorazioni arabe; sotto una croce sanguinante con elmo militare il tragico massacro di Efrin/Afrin; gocce di sangue sui volti in Palestina, troppi i cadaveri per Siria, tracce confuse di macchie sovrapposte per Giordania.

Nell’ultima sala la preparazione alla fine della detenzione: una deliziosa camicia con piccoli interventi, donati dalle compagne di cella che hanno ricamato brevi frasi all’interno di cornici, perchè faccia memoria, quindi una storia bianca su foulard come saluto augurale di tutte.
«Si le ingiustizie e i massacri in cui viviamo sono una terribile disgrazia, ma abbiamo anche meravigliose opportunità”…questo deve essere ben compreso e ben interpretato»
Le opere sugli indumenti uscivano tranquillamente dal carcere perché da lavare, e invece diffondevano all’esterno l’ impegno di Zehra a continuare la presenza nella battaglia per la libertà e la pace del suo popolo.
L’arte della Dogan si interseca con la sua vicenda personale e con i drammatici eventi della sua terra: voltare le spalle a questa realtà sarebbe un grave errore».
In circa 60 opere ha ricordato i fatti avvenuti in Siria, in Giordania, in Palestina oltre che in Turchia: racconti di stragi, paure, abbagli, in lavori a tecnica mista, realizzati durante la detenzione.
Nella prima sala della mostra era presentata la serie le macchie, macchie generatesi dalla casuale sovrapposizione di materiale di scarto con le quali lei ha dato vita ad un immaginario simbolico, dominato dalla figura umana, da occhi spalancati e mani oranti o graffianti, figure femminili con il corpo inarcato per non soccombere sotto i colpi degli aguzzini, donne vicine, abbracciate, per sostenersi a vicenda e non soccombere. «Ho prodotto un’arte di protesta perchè ho delle cose da dire, la mia gente ha delle cose da dire»: un’arte politica nata dalla volontà di fare informazione e dire la verità di ciò che si vede.
Censura e torturatori sono uccelli dalle grandi ali, collo obliquo allungabile, becco acuminato, artigli in uccelli rapaci vermigli, sopra vittime come grigie ombre scheletriche, ricoperte dal sangue, con grandi occhi interroganti spalancati verso di noi.
«Gli occhi dei personaggi che disegno sono più grandi del normale. Sono estremamente aperti e grandi. Perché gli occhi sono testimoni di tutto… Sono gli occhi dei personaggi che raccontano ogni cosa. […] Sono castigata perché disegno, sono convinta di poter cambiare le cose con il mio pennello. Ho il pennello e creerò un mondo bello. […] È doloroso, mi hanno sostenuto solo artisti residenti all’estero: paura, repressione o è passata la fake-news di una terrorista?»
La sua arte è un grido muto; «Mi sento come se tutti gli edifici distrutti della mia città fossero sopra di me» afferma, evocando un fardello che non è solo materiale ma anche spirituale, colmo di solitudine alternata alla tensione per resistere a ciò che denuncia come fascismo.
Sulle pareti degli spazi espositivi erano proiettate le parole del diario scritto durante la prigionia, in cui Zehra racconta la tragedia personale e le testimonianze delle sue compagne di cella, le persecuzioni delle donne Yazide scampate all’ISIS o incarcerate come lei dalla polizia ufficiale o segreta.

Diario che è diventato una importante Graphic-Memoir, ||||\Prigione n 5. (edizione italiana Beccogiallo) con pagine prodotte quotidianamente, una dopo l’altra, nel retro delle lettere che riceveva da una amica speciale.
Nonostante pratiche umilianti e violenze oppressioni e torture, grazie al lavoro collettivo e alla solidarietà, (che riporta nelle strisce), « dalla prigione usciamo più forti…»
Attraverso crepe, le idee espresse sui fogli hanno superato i reticolati e sono arrivate all’esterno: raccolte da sostenitori e amiche, diventando volume: tutte pagine evase, esclusa l’ultima col timbro del carcere…
C’è una lista omaggio alle vittime della prigione n 5: luogo di morte per molti e di centinaia di vittime rimaste invalide…così come disegni sulla sofferenza dei bambini in carcere con le madri e l’impegno di tutte ad attivarsi per trovare giochi atti a distrarli.
Pagina dopo pagina, viene raccontata la tragedia della popolazione curda: gli eroi, i massacri, le rivolte, i momenti famigliari felici, le feste e le danze tradizionali, l’esodo forzato dalle campagne alla città, il carcere per gli uomini, le troppe difficoltà per le donne, la lotta delle madri del sabato che all’esterno delle carceri chiedevano energicamente ragione dei figli scomparsi.

Disegna e spiega il suo arrivo in carcere, il trattamento ricevuto dai carcerieri e l’accoglienza ricevuta delle carcerate, descrive spazi ed organizzazione delle giornate, dalla sveglia alla cena serale: ci sono momenti di formazione, informazione, di yoga, di gioco. C’è l’inferno per i bambini e l’umiliazione dei parenti in visita, le torture anche davanti ai famigliari, per terrorizzarli e sottomettere la popolazione al fine di cancellare l’identità curda. Scariche elettriche, manganellate, obbligati ad ingerire le cose più orripilanti, lavori forzati, getti d’acqua gelata e pressurizzata, assassinii per immolazione e impiccagione, suicidi. La lotta dei detenuti e della detenute contro il regime carcerario più efferato della regione, la proclamazione dello sciopero della fame, i decessi e la vittoria sul persecutore. La resistenza in prigione era sostenuta all’esterno dal carcere. Molti scioperanti sono morti, e Zehra Dogan li ricorda per nome, come descrive con precisione i trasferimenti dal carcere, le torture nel viaggio con i decessi per botte. Le ultime pagine di Prigione n 5 sono dedicate invece alla serata festosa prima della scarcerazione e quella finale alla raggiunta libertà. È l’unica siglata e autorizzata dalla Direzione del Carcere: in essa si chiede “cos’è la libertà?” . Non può esserci oblio dal dolore, perché le compagne sono rimaste dietro le sbarre, e le rappresenta col capo da uccello, come rappresenta se stessa come donna uccello rosa fucsia, con grandi ali che faticano a farla volare . «Né del tutto libera né più prigioniera», ferita dallo sguardo di chi resta in carcere, si sente in colpa…«è opprimente varcare la soglia da soli».
Questa ultima pagina ci obbliga ad una riflessione: quali e quante metamorfosi avvengono in carcere?

Le più di 115 tavole di ||||\Prigione n 5 sono state riunite e pubblicate grazie a quanti e quante l’hanno sostenuta dentro e fuori dal carcere: avvocati, amici giornalisti, famigliari, lo staff della casa editrice Becco Giallo, le amiche prigioniere con lei, dopo il 24 febbraio 2019, giorno del rilascio ottenuto grazie alla solidarietà del mondo dell’arte internazionale, compreso Bansky e Ai Weiwei.
Il salvataggio e il trasporto dalla Turchia delle opere dipinte ed esposte in mostra è stato garantito dal web magazine Kedistan (Il Paese dei gatti in turco) che si occupa dell’archivio dell’artista e dell’ Associazione Mirada, partner del progetto.
Nel novembre 2019 era stato pubblicato dalla casa editrice Editions de Femmes il suo carteggio con Naz Oke durante la prigionia dal titolo “Nous aurons aussi de beaux jours”, da cui ha tratto ispirazione la mostra bresciana.
Biografia Zehra Doğan
Zehra è nata nel 1989 a Diyarbakır, in Turchia. Si è laureata alla Dicle University’s Fine Arts Program e ha co-fondato la prima agenzia stampa costituita unicamente da donne, JINHA (Jin in curdo significa donna), agenzia femminista, nata da due esigenze: rompere il linguaggio e la retorica usata dai media principali per raccontare la violenza sulle donne per la quale ha lavorato dal 2010 al 2016, finché JINHA non è stata chiusa da un decreto governativo, riaperta più volte con altro nome. Nel corso di questi anni, Zehra Dorğan è stata insignita di diversi premi, come il Metin Göktepe Journalism Award, uno dei più prestigiosi in Turchia e recentemente il premio “Exceptional Courage in Journalism Award”, della Fondation May Chidiac (MCF) in Libano. Durante la guerra in Iraq e Siria, l’artista e giornalista ha seguito direttamente le vicende da entrambi i paesi ed è stata una delle prime giornaliste a raccontare la storia delle donne Yazide ridotte in schiavitù dall’ISIS nel nord dell’Iraq. Nel periodo del conflitto nelle aree curde della Turchia, Doğan ha provato a raccontare la guerra nelle città interessate dal coprifuoco come Cizre e Nusaybin, zone in cui la presenza dei giornalisti era bandita dal governo nazionale.
Nel luglio 2016, Zehra Doğan è stata imprigionata a Mardin, il giorno dopo aver lasciato Nusaybin. Dopo un periodo in clandestinità, a seguito di un processo, nel marzo 2017 è stata condannata a scontare 2 anni 9 mesi e 22 giorni di carcere per “propaganda terrorista” a causa dei suoi scritti giornalistici e di un acquerello. Il 23 ottobre 2018 un prelievo forzato ha condotto l’artista dalla prigione di Diyarbakir a quella a più alta sicurezza di Tarso.
L’opera di Zehra è stata esposta nell’agosto 2016 in Francia, presso il Douarnenez Film Festival. Nel 2017, in attesa del processo dopo la prima detenzione, aveva organizzato una mostra a Diyarbakır, dal titolo “141” (il numero dei giorni trascorsi in cella) con i dipinti realizzati in prigione, che le è costata un aggravamento di pena. Durante la detenzione è stata sostenuta da organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International, da Ai Weiwei, da Banksy.
L’8 ottobre 2018, in occasione del’84 International PEN Congress in India, Zehra Doğan diviene un membro onorario dell’associazione in absentia. Nello stesso anno, le opere incluse in “141” e i dipinti prodotti tra la sua liberazione e successive incarcerazioni, così come i seguenti lavori realizzati in carcere sono stati esposti in Europa grazie al lavoro dei volontari dell’associazione Kedistan.
A maggio ’19 la Tate Modern ha ospitato una sua installazione, l’11 ottobre ha ottenuto a Beirut il premio
“excetional courage in journalism Award”.
Il 3 e il 5 luglio del 2020 Zehra ha preso parte, a Paestum, ai due concerti del Ravenna Festival diretti da Riccardo Muti, intitolati “Le vie dell’amicizia: concerto per la Siria” e dedicati alla città di Damasco, all’archeologo Khaled al-Asaad, ucciso dall’Isis nel 2015, e all’attivista Hevrin Khalaf, uccisa da miliziani nel 2019 .
In questa occasione, oltre a presentare un quadro dedicato a Hevrin Kahlaf da lei realizzato durante il concerto, Zehra Doğan ha condotto un’intensa performance accompagnata dai canti dall’artista curda Anyur Doğan in ricordo di Khaled al-Asaad nel templio di Paestum. Zehra Doğan ha danzato tra le colonne doriche impugnando una bandiera bianca, realizzando poi sulla propria tunica un disegno della dea Ishtar, divinità babilonese dell’amore.
Nel novembre del ’20 fino alla primavera ‘21 ha partecipato al Pac di Milano con il progetto il tempo delle farfalle, dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal, trucidate a S. Domingo perché, oppositrici del regime, aiutavano la fuga dei perseguitati.
Nell’ inverno 2024 Zehra Doğan ha presentato le sue opere in Closed Eyes Can See con Matteo Mauro alla Prometeo Gallery Ida Pisani. Una mostra in cui Zehra Doğan e Matteo Mauro invitano a riconoscere l’altro come parte di sé, attraverso un dialogo silenzioso, un viaggio interiore condiviso.
Zehra Doğanri infatti elabora e scopre sempre nuove dimensioni di resistenza e di espressione, di memoria e denuncia: «Lo Stato turco ha annullato il mio passaporto. Ora sono una rifugiata in Europa, bloccata a Berlino da un anno, senza diritto di viaggiare. Ogni passo è intrappolato nel filo spinato di un pianeta diviso dai confini, come se fossi una criminale».
La sua arte è un grido muto, e nelle figure immerse in un silenzio carico di memoria, … «come se tutti gli edifici distrutti della mia città fossero sopra di me» … un fardello materiale ma anche spirituale, che dalla solitudine interiore si fa resistenza, attraverso l’arte.
Bibliografia
Catalogo mostra in Santa Giulia a Brescia dal 16 nov 2019 al 6 genn 2020: “Avremo anche giorni migliori” – Zehra Doğan: opere dalle carceri turche. ediz. Skira, 2019/2020
Prigione N5 Grafic Memoir ed. Becco Giallo, 2021
Antonella De BIase, Zehra la ragazza che dipingeva la guerra, con disegni di Zehra Doğan , ed. Mondadori, 2022.
Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2025 Maria Teresa Martini