C’è panopticon e panoptikum. Enzensberger vs. Foucault

Elena Grammann, C’è panopticon e panoptikum. Enzensberger vs. Foucault, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 8, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12784
Ricordo che era la fine degli anni settanta1 quando nel dipartimento di germanistica di una mediocre università tedesca, fra gli studenti più avanzati e curiosi – dottorandi che come seconda disciplina avevano storia o filosofia – cominciò a circolare il nome di Foucault. Poco più tardi avrebbero scoperto Derrida.
Lezioni e seminari indugiavano sullo statuto metafisico della lingua e sulla preminenza della letteratura – la scienza del generale – su qualsiasi altra scienza particolare. Dopo l’era dell’Essere e l’era della Coscienza ci trovavamo ora, si diceva, nell’era della Lingua (Zeitalter der Sprache). Il soggetto su cui si esercitava il dominio della lingua rimaneva tuttavia il Soggetto di hegeliana memoria. La psicologia era severamente bandita, il caso singolo anathema, l’eccellenza della letteratura risiedeva nel fatto che grazie al suo rapporto privilegiato e strettamente non-comunicativo con la lingua operava un’assunzione del particolare nell’universale: lo coglieva nella sua insignificante concretezza e lo promuoveva a forma storicamente determinata su cui valeva la pena di riflettere. Eravamo nello Zeitalter der Sprache, d’accordo, ma lo zoccolo rimaneva metafisico. Dietro, generalmente taciuto per correttezza politica, c’era Heidegger.
Stando così le cose non stupisce che un’inedita immersione nella storia-storia, nel suo farsi discontinuo, una frattura dietro l’altra, una brusca sostituzione di paradigmi dietro l’altra, paradigmi che possono ben ricevere un “rivestimento” linguistico ma che quanto a sé sono pre-linguistici, piuttosto assimilabili a vaghi modelli iconografici: abbozzate geometrie che a un certo punto, senza apprezzabili cause, irrompono a ossessionare le menti di intere generazioni – non stupisce insomma che la “storiografia” foucaultiana sbalordisse e attirasse i più svegli e curiosi.
C’era anche, naturalmente, la rivolta contro i padri-relatori delle tesi di dottorato, sopiti dissidi teorici che venivano alla luce con una fiammata. E forse non si rendevano conto, gli alfieri del nuovo, di quanto Heidegger e l’eccellenza dell’arte li avessero predisposti a ricevere il verbo foucaultiano. Si vuole dire: a leggere un’opera di storiografia come se fosse un romanzo – o meglio: a leggere un romanzo come se fosse un’opera di storiografia.
Surveiller et punir, per venire a noi, è un romanzo2 ben scritto. Ripetitivo se vogliamo, quindi a tratti un po’ noioso, ma insomma ben scritto. L’autore è un ottimo retore, ha una padronanza assoluta del proprio mezzo, come ogni bravo romanziere manipola la lingua – una lingua sontuosa in cui la metafora celebra i suoi fasti – in modo che aderisca perfettamente a ciò che desidera dire. Al limite ci si potrebbe lamentare che la figura più ampiamente utilizzata, per non dire onnipervasiva, sia l’accumulazione3. Ma poiché il fine dell’oratore è persuadere, è del tutto legittimo che Foucault abbia scelto la via del martellamento, un martellamento non dissimile a quello con cui ancora nel 1837 – in barba alla sostituzione dei paradigmi, dei discorsi o degli episteme che dir si voglia – i carcerieri sigillavano il collare di ferro attorno al collo dei forzati4.
La trama è nota: in Europa, attorno al passaggio dal XVIII al XIX secolo, sia le pratiche utili a formulare una verità processuale che le forme di punizione del crimine subiscono, nella teoria e nella pratica, una brusca e radicale modificazione. Ma secondo l’autore né il passaggio dall’inquisizione all’inchiesta, con relativa abolizione della tortura, né la sostituzione del supplizio, culminante nella distruzione del corpo del condannato, con la reclusione a scopo di ricostruzione e reinserimento nella società sono dovuti all’addolcimento dei costumi o alla razionalità dei Lumi (hegelianamente parlando, a un passo avanti dello Spirito). Si tratta invece di un nuovo, economicamente necessario sistema di gestione delle masse, che molto più che in passato appaiono “lievitanti”, imperscrutabili e minacciose, oltre che passibili di un inedito utilizzo nel sistema produttivo.
Il nuovo modello di gestione implica ciò che Foucault chiama “quadrillage” – vera figura portante del romanzo –, cioè la suddivisione more geometrico dell’intero, fino a quel momento collettivo e indistinto, – massa, popolo, esercito, città, manifattura, lazzaretto ecc. – in caselle, ognuna delle quali idealmente occupata da un unico individuo5. Il quale, pinzato ormai sul suo vetrino, può agevolmente essere studiato, controllato, addestrato (dressé). Notiamo, en passant, che per Foucault l’effetto dell’osservazione/studio: la produzione di sapere, generalmente considerata un fenomeno positivo, non è scindibile dall’effetto, a spontanea connotazione negativa, dell’incasellamento e del dressage.
La necessaria coesistenza di osservazione scientifica, produzione di sapere e addestramento trova secondo il nostro autore la perfetta rappresentazione iconografica nel famoso/famigerato panopticon di Bentham e la realizzazione più rigorosa nel sistema carcerario. Rigorosa ma non unica, dal momento che i meccanismi disciplinari, dalle forme più blande a quelle semi-carcerarie, d’ora in avanti pervadono e innervano l’intera società occidentale lavorando di concerto alla fissazione di una norma. Questa, in sintesi, la trama.
Che però verso la fine si sfilaccia un po’. Una volta gloriosamente doppiato il capo del panoptismo, Foucault si trova alle prese con le ambiguità, le contraddizioni e le imperfezioni di una realtà della prigione che spesso e volentieri arriva assai corta rispetto ai modelli teorici – quando non ne sia la confutazione bella e buona. È lecito chiedersi insomma perché, mentre la scuola, l’ospedale, la fabbrica, la caserma raggiungono in percentuali variabili ma percepite come soddisfacenti gli obiettivi prefissi, la struttura principe, il carcere, ne rimanga invariabilmente molto lontano. Nel senso che spesso produce esattamente il contrario di ciò che, sulla carta, si prefigge. Si fatica a far combaciare il modello vincente del panopticon con la realtà della sua realizzazione più compiuta; come se i fenomeni, e soprattutto i fenomeni non ancora del tutto archiviati, recalcitrassero a lasciarsi incasellare in uno spazio pur adeguatamente quadrillé. Anzi, l’impresa è talmente impossibile che per trarsi d’impaccio non resta che interpretare il fallimento del sistema carcerario come pianificato e voluto, funzionale ai meccanismi di un certo tipo di potere6. Qui però l’analisi foucaultiana si fa meno assertiva. Incespichiamo in espressioni della pura possibilità: peut-être…; o del dubbio: sans doute… (se dico “senza dubbio” è chiaro che si potrebbe dubitare), ne peut-on pas…?; o lunghi paragrafi al condizionale della mera ipotesi7. L’argomento, in effetti, è complesso, la realtà dei fatti8 varia, disomogenea e difficilmente sistematizzabile.
Dove l’autore recupera il pieno impatto retorico è nel capitolo conclusivo: Le carcéral, in cui, senza più imbarazzarsi di una complicata realtà, può riprendere le fila del discorso e ribadire la coestensività dell’organizzazione carceraria moderna con le società borghesi occidentali: “La prigione continua, su coloro che le vengono affidati, un lavoro cominciato altrove e che tutta la società persegue su ciascuno attraverso innumerevoli meccanismi disciplinari.”9
Surveiller et punir ha avuto, e continua ad avere, un successo enorme. Antifoucaultianamente, potremmo dire che ha intercettato lo spirito del tempo. Ma se cerchiamo di essere un po’ più specifici credo che uno dei motivi, se non il principale, sia l’evocazione ossessiva del quadrillage: già di per sé un incitamento a farlo saltare. Aggiungiamo la smania parimenti ossessiva degli occidentali di sentirsi molto più privati di libertà di quanto non lo siano – e di quanto effettivamente non si sia in altre parti del mondo10. E non da ultimo il fascino mefistofelico, dunque di sicuro effetto, del paradosso.
Ma sono convinta che ci siano anche motivi, diciamo, intratestuali. I numerosi avversari di Foucault hanno più volte denunciato, oltre a un uso decisamente selettivo e disinvolto delle fonti, una tendenza al plagio; hanno sottolineato come, da un punto di vista strettamente storico, le sue siano scoperte dell’acqua calda. È probabile che non abbiano tutti i torti e che Foucault, come già Molière, “prenda il suo bene dove lo trova”. Ma, come Molière, lo dice incomparabilmente meglio. Ne fa – e non è da tutti – un format.
Non bastano per questo la scienza e il talento11 . La forza di persuasione di Surveiller et punir sta nella non-imparzialità della scrittura. Dietro il resoconto della formattazione dell’individuo, nel passaggio da una Renaissance un tantino di fantasia a un Âge classique implacabilmente normativo, si avverte il fruscio della lama vendicatrice: come già nell’Histoire de la folie, il rifiuto della coercizione e l’orrore della norma stimolano uno stile assertivo e affilato, versato nella dissezione inedita, retoricamente efficace. Per contro, quando le opposizioni si smussano o devono essere laboriosamente costruite, anche lo stile perde di incisività, si fa fiacco, è ora di chiudere.
Oltre a costituire un perno del suo sistema, il grand siècle – e il suo prodotto più compiuto: la tragedia classica – forniscono a Foucault un modello stilistico: soutenu, fondato su un unico conflitto, impervio a incertezze e deviazioni, estraneo a ogni forma di compromesso o di ironia. Del tutto inadeguato alla confusione della realtà osservata da vicino.
Nel 2012 esce per Suhrkamp Enzensbergers Panoptikum. Zwanzig Zehn-Minuten-Essays12. Non si tratta di una raccolta di scritti diversi, l’impresa è unitaria e ha un modello di tutto rispetto: Michel de Montaigne, che, come ci dice Enzensberger, di solito tratta i suoi argomenti in qualche centinaio di righe, senza preoccuparsi di esaurire se stesso o il proprio tema, e senza sfinire il lettore13. Fedele al proposito di brevità, l’autore fornisce in limine, invece di una prefazione, un semplice “risvolto di copertina” in cui dà qualche delucidazione sul titolo:
Ma chi sa cos’è un panopticon? Si inserisce la parola nella barra di ricerca ed ecco che già ci si trova depistati e rinviati a un inglese di nome Jeremy Bentham: un tremendo giurista che nel tempo libero aveva escogitato una prigione ideale. Un unico sorvegliante, nascosto nell’ombra, doveva poter tenere sotto controllo un gran numero di detenuti. Strutture di questo tipo sono poi state costruite per davvero. Imprenditori abili nel calcolo non tardarono a scoprire che quella sinistra invenzione poteva servire anche all’organizzazione di una fabbrica secondo principi di economia ed efficienza.14
Su questo paragrafo, e sul titolo stesso, si possono dire diverse cose. Innanzitutto, Enzensberger cita Bentham, ma soltanto per prenderne immediatamente le distanze, e infatti il testo continua: “Non ho in mente nulla del genere”. In secondo luogo – e la cosa è piuttosto vistosa – non cita affatto Foucault, cioè colui che ha portato alla ribalta il fin lì poco conosciuto Bentham. Nei fatti, per la contemporaneità il panopticon si lega assai più a Foucault che non al suo ideatore, ma Enzensberger aggira il punto fingendo che il lettore non sappia nemmeno cos’è. Aggiungiamo che la copertina dell’edizione originale non porta, come usuale, il nome dell’autore, ma direttamente il titolo, che in tedesco suona: Il panopticon di Enzensberger. Il che può suggerire un ego leggermente ipertrofico, ma anche il desiderio di smarcarsi: come se, scegliendo un titolo che non può che rimandare a Foucault, ma evitando di nominarlo e anzi nominando espressamente se stesso, Enzensberger volesse prendere le distanze, oltre che da Bentham, anche e soprattutto dal filosofo francese.
Non certo nel senso che Enzensberger appartenga alla schiera dei suoi nemici giurati. La visione foucaultiana della storia, antidialettica e antihegeliana, fondata non sulla continuità ma sulla frattura e l’inconciliabilità, doveva piuttosto incontrare la simpatia15 di uno spirito come il suo, fortemente critico dell’idea di progresso e attento a tutto ciò che, nella realtà, la contraddice. La presa di distanza, se c’è, deve situarsi su un altro piano – sempre che non stiamo inseguendo una nostra fantasia, tanto più che Enzensberger ci spiazza dichiarandosi debitore del titolo a un cabarettista tedesco di genio della prima metà del secolo scorso: Karl Valentin. Il quale chiamò Panoptikum la sua galleria delle curiosità e degli orrori, “dove si potevano ammirare, oltre a insoliti strumenti di tortura, attrazioni, invenzioni e abnormità di ogni sorta”16.
Dobbiamo intendere che ci troviamo all’ingresso di un divertissement espressionista un po’ da baraccone? Un’infilata di singole eccentricità senza conseguenze? Eppure l’autore afferma di volere mantenere, nella misura del possibile, “uno sguardo d’insieme”17. Uno sguardo di insieme, si può ipotizzare, estraneo sia al panopticon inumano di Bentham che allo schematismo anti-umanista di Foucault. Il quale con il razionalismo quadrillant dell’età classica e i suoi procedimenti di sceverazione ha parecchio in comune.
Non ci resta, quindi, che entrare18.
Conformemente alla rivendicazione del pronome “io”, cui ha diritto chi “è parte egli stesso di ciò che lo colpisce, che lo stupisce, e che prova a descrivere”19, nei venti “saggi da dieci minuti” Enzensberger parla di ciò che gli sta intorno, la cosiddetta realtà, ciò che lo e ci circonda in senso tanto spaziale che temporale: contemporaneità e, in misura minore, storia. I singoli temi vanno dalla microeconomia, all’ingerenza dello stato in ogni sorta di questione, alla lotta contro lo sporco (tema che trova coinvolte soprattutto le donne), al fitto mistero che avvolge i servizi segreti, a altri sedici temi che invito a scoprire di persona, non potendosi trattare qui che di ciò che a tutti e venti è comune e che, ammesso ci sia, dev’essere per forza una forma – il modo di un approccio – più che un contenuto. E teniamoci sempre Foucault come pellicola di contrasto.
Cominciamo allora per constatare che mentre Foucault procede per omologazione, privilegiando i documenti e in generale i materiali che concorrono a costruire un’immagine univoca di un’epoca – dalla quale si astrarrà poi, per via di formalizzazione, il discorso (o l’episteme, o il dispositivo…) corrispondente – e, secondo i suoi detrattori almeno, escludendo invece tutto ciò che potrebbe relativizzare o incrinare la presa totalizzante20 del dispositivo (o del discorso, o dell’episteme…) – mentre, dicevamo, Foucault procede per omologazione, Enzensberger fa esattamente il contrario: disomologa. Pesca, appena sotto la superficie delle scienze economiche, politiche, statistiche, sociali in genere, i pesci strani, quelli dal comportamento imprevedibile, quelli che sgusciano attraverso le maglie della griglia e che, sorpresa, non sono pochi, e magari ne costruiscono una alternativa e coesistente, implicitamente affossando il sistema-Foucault.
Scherzi a parte, e per fare un esempio: che l’uomo della nostra cultura e della nostra epoca – e non solo – sia governato dall’idea del profitto, costituisce un luogo comune, nonché la pietra d’angolo del neo-liberalismo o teoria economica classica.
[…] nella teoria classica le persone compaiono perlopiù solo come realtà astratte. In questa logica, esse si riducono a un ruolo; sono salariati, oppure consumatori, contraenti di un’assicurazione oppure investitori, azionisti, imprenditori o risparmiatori, e in ognuno di questi ruoli hanno un unico interesse: massimizzare il profitto economico, nient’altro.21
Com’è, allora, che l’agire di un sacco di gente appare guidato da tutt’altro genere di interessi? E spesso da interessi totalmente anti-economici, nel senso che non solo non mirano al profitto, ma anzi finiscono talvolta per liquefare i patrimoni, come se nell’uomo, e addirittura nel borghese!, ci fosse da sempre, accanto all’istinto di profitto e antitetica a quello, la spinta al suicidio economico.
[Le persone], come è noto, vanno soggette a umori, illusioni, ghiribizzi e abitudini di ogni tipo. Tendono al panico così come all’inerzia, alla cocciutaggine come all’istinto gregario. Molte sono disposte a qualunque sacrificio pur di salvare la faccia o le predilezioni sessuali, oppure di fare bella figura [in italiano del testo]. […] Per di più contravvengono di solito alle più semplici regole economiche.
Le loro transazioni quotidiane hanno spesso luogo fuori della circolazione del denaro e del credito. Allevano figli senza per questo esigere un adeguato compenso. Avviano relazioni sentimentali senza assicurarsi contro possibili sospensioni del credito, o anche senza un ragionevole calcolo di profitti e perdite. A volte lavorano semplicemente gratis, per puro dispetto lasciano cadere splendide occasioni, gettano il denaro dalla finestra, sprecano tempo prezioso, fanno affidamento sull’oroscopo o sulla fatwa di un teologo, regalano di tutto senza nulla in cambio; e avanti così, per la disperazione dei teorici.22
Purtroppo, come apprendiamo dalla lettura dei giornali, “la totale irrazionalità di quanti vengono impropriamente definiti normali consumatori, e che tanto irrita e confonde gli economisti, non si limita soltanto a loro. Anzi, raggiunge il massimo livello nei protagonisti dell’economia finanziaria e nei loro consulenti”23.
E allora? E allora, anche qui, rivalutiamo, antifoucaultianamente, la prima persona: “Chi dunque vuole davvero sapere cosa fa la gente e cosa la fa agire, dovrebbe forse partire da se stesso.”24
Il punto non è, ovviamente, equiparare il discorso o l’episteme o il dispositivo, che Foucault si adopera lungamente a distinguere dalla Weltanschauung o dal paradigma, a qualsivoglia teoria economica o sociologica. È tuttavia interessante citare ciò che Enzensberger scrive a proposito del cambiamento di paradigma nelle religioni e nelle scienze:
Ma allo stesso tempo sono sempre stati gli outsider e i guastafeste a garantire da entrambe le parti la vitalità e lo sviluppo, per non dire il progresso, delle rispettive istituzioni. Un’ortodossia senza eretici sarebbe perduta. Il che vale per le Chiese così come per le scienze (volendo, le lacerazioni epocali che [outsider e guastafeste] hanno prodotto si possono anche definire «cambiamenti di paradigma», come fa Thomas S. Kuhn nel suo famoso saggio sulla Struttura delle rivoluzioni scientifiche).25
Outsider e guastafeste. Individui. Certamente non prodotti dal vuoto siderale, certamente appartenenti a una cultura e a un’epoca, e tuttavia quel tanto diversi dalla cultura e dall’epoca da essere percepiti come outsider e guastafeste – laddove dei numerosissimi personaggi che popolano le opere foucaultiane si ha invece l’impressione che bagnino in un’atmosfera di totale armonia e perfetto accordo con l’episteme installato o in via di installazione. D’altra parte – se ci è permesso di accostare la teoria alla persona – quando, nel dibattito di cui alla nota 19, Foucault parla della “griglia”, fa ripetutamente il gesto26 di schiacciare dall’alto qualcosa – una griglia appunto – su ciò che sta sotto: l’epoca, i fatti (?), la realtà, noi tutti. E possiamo facilmente immaginare come outsider e guastafeste, se per assurdo fossero contemplati, vengano acciuffati dal dispositivo e incasellati negli appositi riquadri. Non però dal sistema: da Foucault.
Sembrerebbe che quello che emerge trasversalmente dai venti saggi di Enzensberger sia la constatazione della fondamentale irriducibilità dell’individuo a elemento di un sistema. C’è sempre un residuo che fa ben sperare. Che fa sperare, si intende, nella sopravvivenza dell’umano in barba alle idiosincrasie di Foucault. Nel saggio Povero Orwell! Enzensberger ci presenta – e francamente già nel 2012, anno di uscita del volume, non si può dire che fosse una sorpresa o una novità – la condizione in cui viviamo, di estesissimo controllo da parte di organizzazioni che non sono nemmeno lo Stato, ma qualcosa di più vasto, opaco e inquietante – controllo che non solo accettiamo senza troppi mugugni, ma a cui siamo almeno in parte ben felici di collaborare. Va detto, per onestà, che la nostra condizione di servitù volontaria è stata raggiunta e viene mantenuta senza spargimento di sangue.
Gli ultimi “residui del passato” non sono stati affatto liquidati con i sistemi di Lenin in Russia. Il motivo è chiaro. Il tollerante atteggiamento dei nostri guardiani si basa su un semplice calcolo costi-benefici. Man mano che ci si avvicina alla condizione ideale, i costi per stanare gli ultimi riottosi aumentano vertiginosamente. Ci si accontenta dunque di una sorveglianza al 95 per cento. Sarebbe troppo dispendioso eliminare una piccola ma ostinata minoranza, che per pura cocciutaggine si oppone alle promesse dell’era digitale. Cinque per cento, sono pur sempre oltre quattro milioni di persone. Dunque: niente panico! Anche in futuro, chiunque non riesca a farne a meno potrà mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leggere relativamente indisturbato, spensierato, e analogico.27
La chiusa è senza dubbio ironica, e sull’ironia come modo di fondo dell’autore torneremo fra poco. Dell’“indisturbato” e dello “spensierato” è lecito dubitare, ma che l’ostinato cinque per cento possa in qualche modo ritagliarsi uno spazio, questo almeno, per Enzensberger, sembra assodato. Che siano quattro milioni su base nazionale e molti di più su base mondiale, che siano comunque un numero insignificante rispetto alla stragrande maggioranza degli “omologati”, non è questo il punto. Il punto è che esiste per l’individuo la possibilità di sfuggire a un sistema sovraesteso e ottimamente funzionante. Si dirà che il controllo planetario à la Orwell, addolcito e allo stesso tempo infinitamente potenziato dalla digitalizzazione delle informazioni, non è di per sé il dispositivo di Foucault, che Foucault intende qualcosa di più immateriale28 e di più generale, diciamo la condizione epistemica di tutto il resto, le mode d’emploi pour l’assemblage du monde, le istruzioni del Meccano per la costruzione del mondo. Certo. Ma quello che interessa a me sottolineare, e quello che trovo interessante in questi saggi di Enzensberger, è una fondamentale irriducibilità dell’individuo a un modello. A qualsiasi modello. Sia nel senso che una certa irriducibilità residua gli appartiene diciamo per essenza, sia che, per un motivo o per l’altro, si svincoli effettivamente dalla “griglia”. E con questo veniamo all’ironia.
Il modo “serio”, quello che prende le cose di petto, a muso duro, o io o tu, o di qua o di là e tertium non datur; il modo della designazione univoca e della coerenza ferrea, è il modo tragico. Sublime, ma, nella vita, di scarsa utilità, soprattutto se si considera che nella tragedia classica l’esito è deciso ancor prima che si alzi il sipario.
Diversamente il modo ironico, il modo obliquo per eccellenza, tant’è che secondo i manuali consiste nel dire il contrario di quel che si vuol fare intendere. Con molte sfumature naturalmente. E sempre in sospetto di non-serietà29, di produrre, in fondo, nulla più che dei divertissement. Eppure qual è il modo migliore, e forse l’unico, di insinuarsi fra le maglie del sistema e dire le ragioni, che non sono mai univoche, del particolare? E di dirle in modo che dal particolare si irradi qualcosa come il riflesso di un universale? Ovvero, per ricongiungersi al “risvolto di copertina” di Enzensberger, di mantenere uno sguardo d’insieme senza cadere negli orrori, e negli errori, del panopticon di Bentham?
Se si prescinde dal fatto che sia Foucault che Enzensberger riservano al panopticon un trattamento di tutto rilievo – uno facendone il fulcro di un’opera fondamentale, l’altro scegliendolo come titolo per forza di cose allusivo – se si prescinde da questo ci si può chiedere che senso abbia metterli uno di fianco all’altro. Quali possono essere le categorie che permettono di passare da un serissimo e poderoso filosofo metodico a un saggista erratico e un po’ beffardo? È molto semplice: non ci sono. Manca per così dire il termine medio. O anche, se si vuole, una comune unità di misura. C’è però una ragione pratica: soltanto il saggista alla Montaigne, proprio perché obliquo, erratico e un po’ beffardo, è in grado di far saltare elegantemente il sistema.
Note
- La ricezione di Foucault in Germania è stata più tardiva e contrastata che in Italia.
- Foucault stesso non aveva difficoltà ad ammettere una prossimità della sua opera con la letteratura di finzione: “Foucault amava dire che non aveva mai scritto altro che «narrativa» […]. A Claude Mauriac, per esempio, che gli chiedeva se avesse mai pensato di scrivere un romanzo, rispose in questo modo: «[…] nei miei libri mi piace fare un uso immaginifico dei materiali che raccolgo, raffronto, assemblo, facendo deliberatamente delle costruzioni immaginarie con degli elementi autentici…” David Macey, The Lives of Michel Foucault, Londra 1993, cap. 18. Citato in: J.-M. Mandosio, Longevità di un’impostura: Michel Foucault, Enrico Damiani Editore 2017, p.34.
Va detto che secondo Foucault – o meglio secondo l’interpretazione foucaultiana di Nietzsche – non esiste una verità anteriore o distinguibile dalla costruzione di finzioni (cfr. J. Bouveresse, Nietzsche contre Foucault. Sur la vérité, la connaissance et le pouvoir, Agone 2016). - A titolo di esempio (ma se ne incontrano un po’ ovunque): “[…] è questa delinquenza che bisogna conoscere, valutare, misurare, diagnosticare, trattare, quando si emettono sentenze, è essa, ora, questa anomalia, questa deviazione, questo sordo pericolo, questa malattia, questa forma di esistenza, che bisogna prendere in considerazione quando si riscrivono i Codici.” M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. A. Tarchetti, Einaudi 2020 p. 280.
- Cfr. ibid. p. 282ss.
- L’individuo non sarebbe quindi, come potrebbe ancora pensare qualche spirito ingenuo, un’invenzione del romanticismo, ma il prodotto di un’attività di progettazione architetturale.
- Il lungo capitolo Illegalismi e delinquenza stabilisce la fondamentale distinzione fra l’infrazione, suscettibile di sanzione pensale, e la delinquenza, sorta di bacino umano socialmente determinato nel cui ambito si producono i nove decimi delle infrazioni. L’infrazione è correlata a una legislazione: dove c’è legislazione c’è, necessariamente, la possibilità e, come dato di esperienza, la realtà dell’infrazione. La delinquenza è invece, secondo l’autore, un prodotto del sistema carcerario. Un prodotto, si badi, non un danno collaterale. Un effetto intenzionalmente ricercato al fine 1) di “condensare” l’infrazione in un unico spazio più facilmente osservabile, controllabile e gestibile; ma soprattutto 2) di distinguere la delinquenza da altre forme di illegalismi, tollerati o necessari al potere, e di concentrare su di essa, distogliendola da questi ultimi, la riprovazione sociale e l’azione penale. A questo punto è chiaro però che il discorso storico sulla giustizia penale si incrocerà sempre più, in modi diversi e talvolta contraddittori, col discorso strettamente politico incentrato sulla lotta di classe.
- Cfr. op. cit., p. 299s.
- Ovvio che questa espressione, per Foucault, è priva di significato. Ma un’analisi stilistica accurata potrebbe mostrare che è proprio contro la realtà dei fatti che Foucault finisce per inciampare.
- Ibid., p. 354.
- In questo ambito di ricezione rientra la convinzione – errata – che una volta eliminato con una bella rivoluzione il potere borghese, potrà cominciare l’era di una felice anarchia. Foucault ovviamente non dice – e non può dire – nulla del genere.
- “[…] siamo qui di fronte a una certezza di un tipo speciale, invulnerabile alle obiezioni. A che serve discutere di ciò che si presenta come l’interpretazione potente, efficace, sovrana?” Marcel Gauchet, prefazione alla ristampa di La Pratique de l’esprit humain: l’institution asilaire et la révolution démocratique, Paris 2009, citato in: J.-M. Mandosio, op. cit., p. 17.
- Edizione italiana: Hans Magnus Enzensberger, Panopticon. Venti saggi da leggere in dieci minuti, trad. Palma Severi, Einaudi 2019. Limitatamente allo scritto introduttivo: “Invece di un risvolto di copertina” ho preferito tradurre io le citazioni, dal momento che la traduzione di Severi in diversi punti non mi trova d’accordo. Per gli altri capitoli ho seguito l’edizione italiana, con qualche minima modifica.
- Il tedesco ‘erschöpfen’ significa sia esaurire che sfinire.
- Enzensberger, op. cit.,“Invece di un risvolto di copertina”.
- Enzensberger, per dire, ospita Foucault nel Kursbuch 3/1965.
- Ibid.
- Ibid.
- “Entrate dunque, signore e signori! Non ve ne pentirete.” Ibid.
- “Ma, così, tutto a un tratto, da dove arriva questa prima persona, un pronome che non ricorre spesso nei risvolti e nelle quarte di copertina? È legato al luogo immaginario che un osservatore occupa quando è parte egli stesso di ciò che lo colpisce, che lo stupisce, e che prova a descrivere. In questo caso, «io» è tenuto ad assumersi la responsabilità.” Ibid. Da notare, en passant, il netto rifiuto di Foucault rispetto a un coinvolgimento dell’io personale nella teoria. Cfr., in occasione del famoso dibattito con Chomsky, la reazione irritata di Foucault ai tentativi del moderatore Fons Elders di indagare un legame fra la sua teoria e la sua individualità. N. Chomsky, M. Foucault, La natura umana. Giustizia contro potere, Castelvecchi 2013, p. 47 e soprattutto 59ss.
- “In una cultura e a un dato momento non esiste che un solo episteme che definisca le condizioni di possibilità di ogni sapere.”, Le parole e le cose, VI, 1, citato in: Longevità di un’impostura, op. cit., p. 26. Teoricamente, secondo Foucault, lo storico dovrebbe conoscere tutti i documenti relativi a un’epoca (conoscenza esaustiva dell’archivio). Delle eventuali scelte, afferma che sono “inconfessabili” e che “non dovrebbero essere fatte”. (Ibid. p. 27). Ammesso che un’impresa del genere sia possibile (forse con la IA), rimane il fatto che la costituzione stessa dell’archivio è, in fondo, casuale.
- H.M. Enzensberger, op. cit., “Microeconomia”.
- Ibid.
- Ibid.
- Ibid.
- Op. cit. “Se la scienza sia una religione laica”.
- Cfr. Debate Noam Chomsky & Michel Foucault – On human nature [Subtitled]21:35 – 22:03
- Ibid., “Povero Orwell!”. Ho modificato la prima frase, chiaramente fraintesa dalla traduttrice.
- La digitalizzazione ha comunque bisogno di un hardware.
- Il testo inziale di Enzensberger, “Invece di un risvolto di copertina”, comincia: “Ma è una cosa seria?”
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