L’ evoluzione del controllo sociale dal XVII al XIX sec.: prigioni, lazzaretti, istituti di correzione, panopticon

Raffaele Riccio, L’ evoluzione del controllo sociale dal XVII al XIX sec.: prigioni, lazzaretti, istituti di correzione, panopticon, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 7, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12770
“Se non è più al corpo che si rivolge la pena nelle sue forme più severe, su cosa allora stabilisce la sua presa? (…) Non è più il corpo è l’anima. Alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità. Una volta per tutte, Mably ha formulato il principio: “che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima non il corpo”. 1
A partire dalla metà del XVI sec. e con l’affermazione degli stati nazionali centralizzati, si assiste in Europa allo studio e all’ideazione di progetti ed istituzioni per affrontare e risolvere le difficoltà che, soprattutto nei momenti di epidemie ricorrenti, carestie e rivolte, rendevano problematica la vita quotidiana nelle città e nelle campagne. Un processo di controllo sociale sempre più diffuso e capillare, attuato sia dalla Chiesa post-tridentina, sia dallo stato andò affermandosi, in particolare dopo i cruciali anni 40-60 del Seicento, caratterizzati da rivolte e sommosse in quasi tutta Europa e dal diffondersi di terribili pestilenze. Il problema che si poneva agli occhi delle magistrature europee era duplice. Da un lato si doveva affrontare la malvivenza comune, presente quotidianamente in tutte le principali città, come i romanzi picareschi spagnoli e lo stesso Cervantes nelle Novelle Esemplari misero in evidenza, dall’altro si dovevano fronteggiare le crisi cicliche di peste e carestie. La peste in effetti rappresentò il cimento dei cimenti per le classi dirigenti dell’epoca barocca e su questo macro fenomeno, per illustrare la creazione dei sistemi di controllo sociale come rileva Foucault 2, è opportuno soffermarsi. Altrettanto difficile però, soprattutto in tempi di carestia e disordini, restava il problema della violenza pubblica Questa non rappresentava un comportamento proprio delle élites o degli strati sociali meno abbienti, ma si esprimeva come un atto trasversale a tutte le classi. Cambiavano solo le modalità e l’uso delle armi: coltellate per i popolani, spade, pistole ed archibugi per i ceti più elevati. Le archibugiate in molti casi si presentavano come un modo immediato per risolvere varie questioni: tradimenti amorosi, contrasti politici o ideologici, problemi di etichetta e precedenza, litigi per soldi ed eredità3. In un’epoca di sommosse e rivolte come la ricca letteratura del Seicento ha messo in evidenza, l’archibugiata, anche per l’ampia diffusione dell’arma, si manifestava nella sua qualità di fenomeno proprio del tempo.
Città e violenza pubblica
Se sfogliamo il Diario Romano del Gigli, opera che copre il sessantennio 1608-1670, vediamo che l’archibugio nella capitale della cristianità la faceva da padrone. Nel mese di aprile del 1647, durante gli anni turbolenti del pontificato di Innocenzo X, l’archibugio venne usato senza parsimonia, persino durante le grandi parate pubbliche. Per una lite per il diritto di precedenza nelle cerimonie ufficiali il cardinale d’Este, protettore in Roma degli interessi della monarchia francese, e l’ambasciatore spagnolo coi loro seguiti misero in subbuglio la centralissima via del Corso e resero del tutto pericolose le strade della città per vari giorni, come riporta il Diario del Gigli:
«Mentre le genti dell’Imbasciatore stavano sospese per quelle archibugiate, che avevano intese, una delle carrozze sopraddette, che fuggivano dal corso (…) volando come una saetta verso la piazza dell’Altieri giunse al Giesù, et quivi giunta si affrontò con l’Imbasciatore, che ritornava. Uno de’ soldati, che stavano attorno alla carrozza gli sparò contro una moschettata (…) Perciocché, o fusse per errore pensandosi che vi fossero i nemici, o che lo facessero a posta per aprirsi la strada a qualche maggior disordine, tutti scaricavano senza riguardo, che pareva, che per quella piazza grandinasse …».4
Questi disordini mortali non coinvolgevano qualche più o meno oscuro prelato, ma le più importanti personalità allora presenti a Roma:
«Erano in carrozza con l’Almirante, Monsig. Colonna, Monsig. Andosilla, il Prencipe di Ghisa, et doi altri Signori Napolitani. Li doi prelati se ne fuggirono di carrozza et entrarono nel Giesù, per salvarsi, gli altri cacciarono mano alle pistole, et le scaricavano, cosi facevano ancora molti preti spagnoli …»5.
I contrasti e le forme di violenza non risparmiavano nemmeno lo stesso Papa Innocenzo X, contro la cui carrozza, anche se non furono sparati colpi d’archibugio, venne scagliata una fitta sassaiola da un folto gruppo di ragazzi sbandati, che poi si asserragliano in un convento:
«A dì 15 di Agosto 1647 mentre Papa Innocenzo ritornava da S. Maria Maggiore (…) gli comparvero avanti una squadra di ragazzi con canne e sassi, tirando con grandissimo romore, di modo che il Papa hebbe paura, e tornò a dietro a S. Maria Maggiore …» 6.
Le città e le capitali europee traboccanti di mendicanti, di storpi, di ciechi, di pitocchi, di artigiani senza lavoro 7, offrivano uno spettacolo desolante. Ogni giorno ognuno di questi cercava il pane quotidiano e sperava di sopravvivere, anche rubando: da qui la violenza pubblica, così facilmente percepibile; una violenza evidente, resa esplicita a diversi livelli, e che colpiva tutti. Per evitare esplosioni improvvise di protesta o sommosse le istituzioni favorirono la creazione di associazioni caritative, che spesso si rivelarono vere e proprie forme di controllo sociale. In questi istituti i poveri lavoravano e venivano sottoposti ad una disciplina molto rigida, simile alle regole militari 8. A Bologna venne creata una vera e propria Compagnia col compito di soccorrere soprattutto i ragazzi orfani e bisognosi, per evitare che diventassero ladri e prostitute. Tramite queste istituzioni venivano sfamati molti mendicanti, come le incisioni degli anni ’90 del Seicento eseguite dal Mitelli ampiamente documentano9. La rappresentazione dell’indigenza diventò la quinta scenica del quotidiano, un riflesso del mondo e della società barocca, drammaticamente rappresentati da artisti e pittori10. In verità l’immagine ossessiva della povertà turbava il sonno dei potenti. Il mondo aristocratico amava circondarsi dei quadri dei bamboccianti, cioé dei poveri, dei diseredati, magari rivestendoli dei panni di filosofi quali Democritus ridens, o Eraclitus flens, ma tale preferenza restava circoscritta nelle sale delle loro collezioni perché, come scriveva Salvator Rosa: “Quello che abborriscon vivo, aman dipinto“11. Per reagire a questo stato di fatto in tutta Europa iniziò una grande battaglia tra ceti dominanti e popolari, che porterà al tentato controllo del cosiddetto mondo “libertino” ed alla sorveglianza stretta dei comportamenti più liberi ed eterodossi. Osterie, bordelli, porti, quartieri dove si assembrano i mendicanti, vennero maggiormente controllati12, dato che erano i luoghi in cui prosperava l’illegalismo necessario13 di cui parla Foucault. Questo sistema illegale, con cui il potere politico spesso veniva a patti, costituiva una sorta di società parallela in cui prosperavano il contrabbando, l’evasione fiscale e doganale, i furti, o addirittura il saccheggio ed ovviamente modi di vivere più liberi, basati su leggi proprie e su un’interpretazione distorta della morale cristiana, come vediamo in Rinconete y Cortadillo nelle Novelle Esemplari di Cervantes, in cui viene esibita un’etica parodica del cattolicesimo, decisamente poco rispettosa del diritto di proprietà e delle regole sociali e religiose14.
Controllo sociale e pestilenze
Se risultava difficile mantenere il controllo delle città in condizioni piuttosto normali diventava davvero problematico farlo quando si ripresentava la peste. Se l’analisi dell’eziologia medica e delle manifestazioni del morbo negli anni si fece più chiara, l’utilizzo di cure opportune, a parte l’isolamento nei lazzaretti e l’uso di medicine del tutto aleatorie, non ottenne risultati risolutivi. In ogni caso, come ha evidenziato C. M. Cipolla la peste favorì, in particolare nei medici del centro-nord Italia una riflessione critica su come fare fronte agli eventi apocalittici che colpivano ciclicamente le città. In altri termini gli addetti alla sanità pubblica compresero, già attorno a metà Cinquecento, che non si poteva affrontare questo morbo devastante in maniera episodica, ma occorreva costituire istituzioni di Sanità pubblica permanenti e con capacità costrittiva, che si preparassero, alla stregua di una guerra, a porre rimedio a un evento traumatico che ciclicamente si presentava15. I medici del tempo, ritenendo che la peste fosse provocata dai miasmi, i cattivi odori, che esalavano dalle acque stagnanti, dalle immondizie, dagli escrementi e dal putridume, all’epoca largamente presenti nelle città e nei centri abitati, reputavano necessario, soprattutto all’approssimarsi del morbo, di intervenire, tramite i magistrati di sanità per rimuovere ciò che poteva favorire il propagarsi dell’infezione16. Le cose cambiavano radicalmente quando, nonostante tutti gli accorgimenti, la peste si insediava in città. In questi casi le forme di controllo, in ragione del Bene pubblico diventavano stringenti e coattive, mentre la sorveglianza sui cittadini e sui beni non era più eludibile. La pulizia delle strade, dei canali di scolo, la rimozione dei cumuli di immondizie, l’uccisione degli animali, ritenuti responsabili di un possibile contagio diventavano obbligatori. Inoltre l’acquisto di sostanze odorose per contrastare i miasmi e di farmaci ritenuti appropriati, come apprendiamo dagli uffici di sanità pubblica, creati soprattutto nelle città del centro-nord Italia a partire dal XVI al XVIII 17, diventavano necessità predominanti e i magistrati di sanità esercitavano un controllo capillare su tutte le attività pubbliche. A Bologna queste magistrature, rette a partire dal 1627 dal cardinale legato Bernardino Spada, e gli uffici di controllo del comune lavorarono fianco a fianco, prima per contenere il contagio, poi per approntare tutte le cure necessarie. Dal 1627 al 1630 furono promulgati 131 bandi con lo scopo di evitare che il contagio si propagasse. Inoltre dato che il morbo si estendeva a macchia d’olio dalla Lombardia, tutto ciò che proveniva dal ducato di Milano venne posto sotto controllo e si pose attenzione a:
«persone, animali, mercanzie, denari e lettere e qualsivoglia cosa che venisse o fosse condotta da quelle parti, ovvero che vi fossero passati, o che poco o molto n’avessero toccato, sotto pena della vita e perdita di ogni sorta di robbe che si introducessero con Fedi di sanità (…) nelle medesime pene ricorreranno vetturali, condottieri, barcaroli, mulattieri …» 18.
Col procedere del 1628 e 1629 le informazioni contenute nei bandi divennero sempre più dettagliate e vennero indicati con maggior precisione i luoghi contagiati, elencati minuziosamente: tutti i cantoni della Svizzera, poi Parigi, Lione, Tolosa e il sud della Francia, la Borgogna, la Germania con Norimberga e Amburgo, Vienna e l’Austria e Anversa nelle Fiandre. Va notato che nelle località nominate si svolgevano fiere importanti in vari mesi dell’anno e, data la gran quantità di mercanti che le frequentavano, da lì poteva partire la diffusione del contagio. Oltre a questo i vagabondi e i poveri che mendicavano di città in città, vennero subito identificati come possibili fonti di contagio, tanto che i Bandi raccomandavano agli Ufficiali, che stazionavano alle porte della città, di non farli assolutamente entrare. Col procedere delle notizie di pericolo i proclami si facevano più stringenti e precisi. Iniziava così il controllo per categorie e i cosiddetti marginali, presunti portatori del morbo, venivano subito etichettati. Non doveva entrare in città, anzitutto chi proveniva da luoghi colpiti dalla pestilenza e, anche se disponevano delle Fedi di sanità, andavano cacciati, inoltre non dovevano varcare le mura: “cingari, stroppiati, vagabondi, cercanti e altre simili persone…”19. Così la salvaguardia delle città e dei ceti produttivi era chiaramente messa in evidenza. Il controllo sociale si alleava al controllo del contagio e della pestilenza. Inoltre va rilevato che anche le teorie epidemiche non distinguevano nettamente tra le varie affezioni, come il tifo petecchiale e la peste e sostenevano, seguendo il grande medico Fracastoro, che le varie malattie potevano evolversi, a causa dei miasmi, della sporcizia e degli elementi umani (poveri, vagabondi, accattoni, picari), in peste20. Da qui l’esigenza pressante di controllare minuziosamente chi veniva da fuori per evitare il dilagare della malattia, perché la peste, oltre alle spese ingenti che le città dovevano sostenere per le cure e per la costruzione dei lazzaretti, interrompeva i traffici e le attività commerciali, causando anche una stasi o una regressione economica. Nelle città più dedite alle attività mercantili molto spesso si preferiva dare ascolto ai medici che facevano diagnosi di febbri pestilenziali e non di peste. Si formava così un partito di anticontagionisti che propendeva per una definizione meno drastica della malattia. La differenza non appariva di poco valore perché nel primo caso i fondaci non venivano chiusi, le piazze e i mercati restavano luoghi di scambio e di incontri e, pur dichiarando in città uno stato di vigile attenzione, la vita quotidiana non cambiava di molto. Da qui la difficoltà per i magistrati di imporre le restrizioni necessarie quando aumentava il numero dei contagiati 21 e poi di mettere in atto scelte radicali quando la peste dilagava. A Bologna si procedette a requisire e trasformare tutta la parte precollinare della città fuori porta san Mamolo e vista la ristrettezza degli edifici il cardinale Spada e gli Anziani decisero di confiscare varie case e i conventi e monasteri dei dintorni fino al torrente Avesa, che vennero adattati a Lazzaretti. Una palizzata lignea, rafforzata con verghe di ferro, circondava l’area selezionata e, come monito ulteriore e in un luogo ben visibile, vennero innalzate le forche, mentre le porte e gli ingressi erano controllati da guardie e sbirri. Vedremo poi che un sistema meticoloso controllava a livello delle parrocchie, dato che solo i parroci, disponendo delle fedi di battesimo e degli elenchi dei parrocchiani, erano in grado di stabilire il numero dei malati delle singole parrocchie, che certificati poi da un medico, dovevano essere ricoverati nei lazzaretti22. La Chiesa nei frangenti desolanti della peste svolgeva un ruolo di primo piano, sia per indicare la presenza degli infetti in città e nelle campagne, sia per il conforto e il sostegno degli ammalati. Se la peste era un flagello mandato da Dio per punire i peccati, tutti gli atti di culto, orazioni, processioni, atti di pentimento, potevano placare la collera divina e, pur non andando incentivati per il rischio del contagio, dovevano essere praticati a distanza di sicurezza, ma non potevano essere tralasciati. Questa concezione si rivelava importante soprattutto nella costruzione dei nuovi lazzaretti. Il più importante a Bologna era collocato fuori porta San Vitale e presentava caratteristiche particolari:
«L’immensa costruzione, benché formata di case di legno, assicurate con calce, dette perciò case matte, presentava un bellissimo colpo d’occhio. Di forma ottagonale comprendeva cinquanta file di case, dodici per fila, quindi seicento appartamenti, l’uno dall’altro separati. All’interno vi scorreva acqua abbondante che serviva per espurgare e lavare la roba. Nel centro poi sopra quattro colonne si ergeva una bellissima Cappella, alta 45 piedi e larga 32 e così disposta che ogni infermo dalla propria stanza stando a letto poteva vedere l’Altare, assistere alla Messa e udire le parole di affetto paterno che dal labbro del Sacerdote, giungevano come balsamo a lenire i dolori di quei miseri ai quali, avendo la terra ormai negato ogni speranza, non restava che il conforto del cielo …» 23.

L’altare e la cappella al centro della struttura architettonica evidenziavano il ruolo centrale che la religione svolgeva nell’ambito delle città devastate ed anche il controllo sui possibili appestati. Tutti gli ordini religiosi presenti in città vennero coinvolti nell’assistenza agli ammalati e, nel contempo assieme ai parroci, nel deferire ai magistrati i nuovi casi che i parenti cercavano di tenere nascosti. L’altro aspetto importante era dato dalla necessità di evitare assembramenti che potevano aumentare i contagi e dalla impossibilità di non rinunciare alle funzioni religiose. Lo strano ibrido di distanziamento e frequenza religiosa venne risolto con il celebrare la messa e le funzioni nelle piazze e nelle strade. I fedeli potevano assistere dalle finestre e per la comunione vennero ideate lunghe pinze e strumenti che permettevano di porgere le particole senza entrare in contatto diretto con gli ammalati24. Lo stesso valeva per la cappella visibile al centro dei lazzaretti. La visione da tutte le casematte del lazzaretto e l’ascolto possibile delle prediche e delle esortazioni si basava sul distanziamento. Il primo passo verso la concezione di una comunicazione o una forma di controllo da lontano, possibile da un centro irradiante fino ad ogni parte di una struttura geometrica, circolare o ottagonale, in questi contesti era già evidente. In seguito verrà applicata con fini diversi anche nelle prigioni e negli ospedali. Infatti, dati i costi davvero elevati per le città e gli stati del dover affrontare ciclicamente la peste e visto il controllo ideato dalle classi dirigenti per evitare che questa si ripresentasse, è possibile che le varie esperienze architettoniche dei lazzaretti siano diventate modelli stabili per la costruzione di edifici di detenzione. Né gli ospedali progettati prima delle grandi pestilenze, né gli altri luoghi di cura presentavano, come possiamo vedere nel più famoso ospedale romano, quello di Santo Spirito in Saxia25, costruzioni di questo tipo. In Santo Spirito, restaurato da Sisto IV per il Giubileo del 1475 e poi nuovamente modificato agli inizi del Seicento, gli ammalti erano ricoverati in due ampie corsie lunghe nell’insieme 130 m e larghe 13, divise in mezzo dalla presenza di in altare per le funzioni religiose. La struttura, pur se arieggiata per la presenza di finestre, appariva del tutto inadatta nel caso della peste. La costruzione del Lazzaretto circolare o ottagonale con casematte singole, ognuna con pochi occupanti, rappresentava un modello diverso e nuovo. Pur non risolvendo il problema della sporcizia, del fetore delle pustole, dei deliri dei malati, che facevano sembrare questi luoghi dei gironi infernali, queste unità più piccole risultavano più controllabili e gestibili delle grandi corsie lunghe 130 m.

Del Panopticon
Nel XVIII sec. l’evoluzione delle teorie mediche ed il ritorno ai capisaldi della medicina ippocratica, contenuti in: Le Arie, le acque e i luoghi26comportò l’unione di due concezioni, una medica ed un’altra etico-filosofica. La medicina del tempo, accentuò la riflessione sull’importanza dello spazio abitativo, sull’igiene, sull’eliminazione delle immondizie e della sporcizia dalle città e sulla separazione nelle prigioni tra malati di mente, criminali veri e propri e ladri comuni. Spazi luminosi e visibili dovevano prendere il posto delle celle delle prigioni, spesso luoghi oscuri e malsani di origine medioevale, ancora presenti nei centri abitati. Si assistette così anche ad una differenziazione dei luoghi di controllo e alla trasformazione degli ambienti di detenzione: carceri, ospedali, collegi e alla separazione dei malati di mente dagli altri detenuti. Medici, sacerdoti e ufficiali di polizia cercarono di intervenire anche nei quartieri più sordidi e poveri delle città, che da sempre avevano rappresentato anche i posti igienicamente meno sani e pure altamente problematici per la morale pubblica. Le carceri e i luoghi di detenzione, i manicomi presenti in essi, come Foucault mise in evidenza 27 andavano trasformati e modificati. Da ambienti umidi, scuri e malsani dovevano diventare luoghi più igienicamente sicuri e luminosi, anche perché, come avevano rilevato i medici, le epidemie più pericolose in genere si diffondevano da questi istituti sovraffollati, collocati nelle città. La spinta a delinquere e anche le malattie, per filosofi e medici, nascevano sia da pessime condizioni igieniche, sia da scarse regole morali, per cui sistemi di controllo più razionali potevano determinare la prevenzione delle epidemie, pentimento e cambiamento etico 28. Il motto per tutti diventava agire sull’anima per fare emergere kantianamente i principi e gli imperativi morali presenti dalla nascita in ogni uomo, che l’ignoranza, la sporcizia, le condizioni di estrema povertà non permettevano di fare affiorare 29. Così i riformatori e i legislatori più accorti e illuminati, partendo dall’esperienza della reclusione indeterminata nelle prigioni di ancien régime e dell’internamento promiscuo di folli e detenuti, alla fine del XVIII sec., condivisero le tesi del medico Pinel, il quale, facendo liberare gli alienati incatenati nelle segrete e nelle celle sosteneva: “Come è importante, per prevenire l’ipocondria, la malinconia o la mania, seguire le leggi immutabili della morale!” 30 .
Il panopticon di Jeremy Bentham sembrava dare una risposta a tutti i problemi esposti e poteva garantire anche, bandendo l’arbitrarietà, rapporti più esatti tra la natura del delitto e la natura della punizione. La struttura di questo luogo di detenzione abbinava due possibilità ritenute fondamentali per il controllo: la visibilità costante del detenuto e l’incertezza che questi aveva di essere controllato. Come sosteneva Bentham: “Il meglio che si possa auspicare è che in ogni istante, avendo motivo di credersi sorvegliato e non avendo i mezzi per assicurarsi del contrario, creda di esserlo” 31. La paura della sorveglianza e delle pene, se non si rispettava il regolamento, imponeva una sorta di coazione e l’accettazione meccanica delle regole che si poteva considerare una sorta di abitudine e di anticipazione dell’azione morale. L’impostazione del panopticon, determinando il timore della sorveglianza, favoriva l’interiorizzazione dei precetti imposti.
La struttura architettonica constava di una torre centrale, all’interno della quale si trovava l’osservatore, circondata da una costruzione circolare, dove erano collocate le celle degli internati, illuminate dall’esterno e separate l’una dall’altra. Le celle disposte a cerchio, o a semicerchio presentavano due finestre per ognuna: l’una rivolta verso l’esterno, per prendere luce, l’altra verso l’interno, poste di fronte alla colonna centrale, in cui vigilava il custode/carceriere non visibile dai reclusi. Gli internati, grazie alla particolare struttura della prigione, sapendo di poter essere osservati in ogni momento, avrebbero assunto comportamenti disciplinati e mantenuto l’ordine in modo automatico. Inoltre la nuova concezione della realtà carceraria, basata sul passaggio da una formula d’imprigionamento contenitiva a una concezione produttiva, prevedeva che a ogni singolo detenuto fosse assegnato un lavoro, o un compito. Questa struttura, come precisava Bentham, non era consigliata solo per i carcerati, ma doveva avere una funzione totalizzante e poteva affrontare i problemi rimasti insoluti nell’ambito delle società passate, serviva infatti:
«Per punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruire quelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni…».

Bentham riteneva inoltre che alcuni anni di questo trattamento potessero trasformare il carattere dei detenuti e definiva il suo programma di reclusione: “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in quantità mai vista prima”; riteneva anche, con solido autocompiacimento, che il suo modello poteva funzionare in tutte le realtà sociali:
«Sia che si tratti delle prigioni a vita, o di prigioni d’isolamento prima del processo, o penitenziari, o case di correzione, o case di lavoro, o fabbriche, o manicomi, o ospedali, o scuole…» 32.
Nell’ambito del panopticon, sul modello di quanto sperimentato nelle prigioni industriali di Gand 33, la carcerazione non abbinata ad una attività produttiva risultava deleteria, perché sprecava forza lavoro, non solo per il presente ma anche per il futuro a causa dell’abitudine protratta all’ozio:
«Stando a quanto dice Filangieri, nelle prigioni dello stato di Napoli ci sarebbero più di quarantamila prigionieri in ozio. Quale immensa perdita di lavoro! La città più industrializzata d’Inghilterra occupa a malapena altrettanti uomini …».
Il lavoro in quanto tale per Bentham aveva un valore di rieducazione morale e in più punti delle sue riflessioni, sosteneva che presentava una valenza etico/educativa ben più significativa del mero rendimento economico. Importante diventava in questi casi, e buona parte dei riformatori del XVIII sec. si dichiaravano d’accordo su questo punto, il principio della localizzazione elementare o del quadrillage. In altri termini, il luogo e lo spazio del sistema di reclusione favorivano la consapevolezza della colpa e dell’espiazione della pena conseguente, dato che spettava: ad ogni individuo il suo posto e ad ogni posto il suo individuo. Gli spazi determinavano le attività e plasmavano l’animo umano, più disposto in questi casi all’accettazione delle regole, e questo valeva per ogni luogo in cui si esercitava un controllo34. Non più lo spazio buio e indeterminato delle carceri tradizionali, ma la luminosità delle celle e la chiara determinazione delle attività da seguire.
In ogni caso la solitudine e l’isolamento non dovevano essere applicate quotidianamente agli internati perché, come sostenevano anche Diderot e gli illuministi: «Quando la facoltà sensitiva è inattiva, l’immaginazione lavora e finisce per produrre dei fantasmi»35, infatti l’isolamento prolungato poteva condurre alla follia … e qui il cerchio si chiudeva. Le miserie del corpo, l’abitare in luoghi sordidi, l’impossibilità dell’affermarsi dell’azione morale dovevano essere combattute con il controllo, ma senza togliere all’uomo la possibilità di interazione con i suoi simili, altrimenti il non potere utilizzare la ragione e i suoi strumenti lo privavano della ragione stessa. Nelle celle del panopticon poteva aleggiare il rischio della follia e dello smarrimento dei sensi.
Bentham mise in pratica le sue idee in una fabbrica che impiegava detenuti, ottenendo un grande successo teorico, tuttavia, la costruzione di un carcere sul modello del Panopticon a Millbank, nei pressi di Londra, mise in luce problemi significativi. Il sistema di controllo ideato evidenziò che il tasso di malattie mentali, in particolare la schizofrenia, aumentò notevolmente tra i detenuti 36.
Le proposte di Bentham vennero accolte in Europa negli anni che vanno dal 1780 al 1840 37 da vari riformatori, anche se non sempre si riuscì ad applicarle alla lettera e, soprattutto, senza ottenere i risultati che l’ottimismo illuminista si aspettava di conseguire. In molti casi gli esperimenti dei vari architetti non riuscirono a realizzare un modello perfetto di panopticon, ma accentuarono solo, quasi un’anticipazione del 1984 di Orwell, le forme di controllo e di spersonalizzazione 38.
In varie isole degli arcipelaghi italiani trasformati in luoghi di detenzione, soprattutto per prigionieri politici e dissidenti dei vari regimi nell’Ottocento e nel Novecento 39, – in particolare nell’isola di Santo Stefano – fu realizzato un carcere sul modello del panopticon. Però «il dominio di una mente sopra un’altra mente», come riteneva Bentham, in questi luoghi di detenzione quasi mai si è realizzato. Anzi se leggiamo le Ricordanze della mia Vita di Luigi Settembrini, e ci soffermiamo sulle pagine riguardanti il Carcere di Santo Stefano nell’omonima isola dell’arcipelago pontino, in cui il patriota fu imprigionato dal 1851 al 1857, appare superficiale e del tutto fallimentare. L’Utopia di Bentham in queste pagine si scontra con l’esistenza della più cruda realtà criminale e una concezione ancora solo contenitiva del sistema carcerario. La struttura architettonica del carcere mostrava le caratteristiche del panopticon, ma non ne realizzava i fini. La realtà era ben diversa e così la descriveva Settembrini:
«Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi, formati da archi che sono i tre piani delle celle dei condannati: immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro, come una tela immensa (…) Così avrai l’idea di questo vasto edifizio, che ha forma maggiore di un mezzo cerchio, con in mezzo un vasto cortile, ed in mezzo al cortile una chiesetta di forma esagona, chiusa intorno da vetri (…) Ciascun piano è diviso in trentatrè celle: nel primo e nel secondo piano sono trentatrè archi ciascuno innanzi a ciascuna cella: nel terzo piano è una loggia scoperta che gira innanzi a tutte le celle …» 40.

Carcere Borbonico di Santo Stefano
L’ergastolo di Santo Stefano presentava, anche rispetto al progetto di Bentham, sostanziali differenze, che richiamavano in parte le formule architettoniche dei lazzaretti già presentate, infatti al centro del carcerare campeggiava una cappella ottagonale chiusa da vetri e non la struttura di controllo di Bentham. Il carcere dell’isola, come le prigioni pre illuministiche non si prefiggeva scopi minimamente educativi o di ravvedimento, ma solo di detenzione. La scritta posta all’ingresso dell’ergastolo lo testimoniava:
Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis
Vincta tenes, stat res, stat tibi tuta domus. 41
e le crude testimonianze di Settembrini e di altri prigionieri politici lo confermano:
«Ogni cella ha lo spazio di sedici palmi quadrati 42, e ce ne sono di più strette: vi stanno nove o dieci uomini e più in ciascuna. Sono nere e affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo, con i letti squallidi, pieni di cenci e che lasciano in mezzo piccolo spazio (…) una sedia è arnese raro, un tavolino rarissimo … (Per mangiare) Pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ognuno accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutte le celle e le vicine, ti spreme le lacrime e ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte …».

Storia nascita dell’ex carcere borbonico
Le condizioni carcerarie descritte non potevano garantire nessuna possibilità di rigenerazione morale, ma un avanzamento progressivo di atti criminali col procedere dell’età e delle esperienze; il quadro che ne presenta Settembrini è desolante:
«Molti salendo di misfatto in misfatto e di pena in pena giunsero fino all’ergastolo. Questi ultimi sono i più tristi; poiché da fanciulli avendo cominciato il mestiere di ladroncelli, cresciuti ed educati nelle carceri, sono bruttati di tutti i vizi più nefandi, sogliono morire uccisi dai compagni. Sicché l’ergastolo è la sentina del Regno delle Sicilie e vi cadono i pessimi tra otto milioni di uomini …»43
D’altra parte la promiscuità in cui vivevano i carcerati, l’impossibilità di instaurare una minima forma di quadrillage e di attività lavorativa ben precisa, dato che gli internati al massimo si dedicavano di sera alla filatura della canapa, dava alla prigione l’immagine di un luogo tetro e senza speranza. Per questo Settembrini, rifacendosi alle riflessioni di altri pensatori europei, o partendo da considerazioni proprie scriveva:
«Abolite la pena dell’ergastolo, la quale è ingiusta perché è perpetua: rendete utili a se stessi ed allo stato tutti i condannati ai ferri, facendo che tutti lavorino e dal lavoro abbiano un guadagno; promettendo a chi meglio lavora ed è pentito e corretto una diminuzione di pena». 44

Le evasioni del carcere di Santo Stefano
L’isola di Santo Stefano restò un luogo famigerato non solo per gli ergastolani ma anche per i condannati per motivi politici. Oltre a Settembrini molti oppositori del governo Borbonico vi furono incarcerati, come Silvio Spaventa e dopo la fine del Regno delle due Sicilie il carcere mantenne le stesse caratteristiche e divenne luogo di pena per i ribelli e briganti. Carmine Crocco, uno dei briganti più noti che si era opposto in Basilicata al regime sabaudo, vi venne rinchiuso e, dopo l’assassinio di Umberto I vi fu recluso anche l’anarchico Gaetano Bresci, impiccato poi in cella dai secondini e, dopo un’inchiesta in cui si dichiarò che si era suicidato, seppellito in tutta fretta. Durante il regime fascista a Santo Stefano furono rinchiusi vari oppositori: Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Rocco Pugliese e Sandro Pertini. Nella vicina isola di Ventotene vennero confinati altri antifascisti: Giorgio Amendol, Lelio Basso, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Proprio a Ventotene, come è noto, nel 1941 venne redatto da Colorni, Rossi e Spinelli il Manifesto di Ventotene, documento in cui si chiedeva l’unione dei paesi europei. La prima pubblicazione del documento avvenne nel gennaio del 1944 ed ha rappresentato un punto di riferimento ideale per la costituzione dell’Unione europea.
Note
- M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1996, p. 19.
- Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp.101-103.
- O. Niccoli, Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Laterza, Bari 2004, si veda: Baci rubati; D. Fabre, Il privato contro la consuetudine, in: a cura di G. Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, III, Bari, Laterza 1988, pp. 438-447; G. Galasso, Alla periferia dell’Impero, Einaudi, Torino 1994, pp. 338 e sgg.
- G. Gigli, Diario romano (1608 – 1670), a cura di G. Ricciotti, Tuminelli, Roma 1958, pp. 282-283; F. Braudel, Le strutture del quotidiano, I, Einaudi, Torino 1982, Archibugi, moschetti, fucili, pp. 362-364.
- Gigli, op. cit., p. 284
- Ivi, p. 303-4.
- F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo all’epoca di Filippo II, Einaudi, Torino 1981, Vol. I, V, pp. 345-366; Vol. II, V, pp. 781-785, VI, pp. 779-783; F. Braudel, Le strutture del quotidiano, op. cit., pp.493-502.
- Foucault, Sorvegliare e punire, op. cit., pp.160 -164.
- G. Maioli – G. Roversi, Civiltà della tavola a Bologna, Anniballi, Bologna1981, pp. 103 -107.
- D. Frascarelli, L’Arte del dissenso, Einaudi, Torino 2016, I, pp. 5-14.
- D. Frascarelli, L’Arte del dissenso, op. cit., p. 166 -167.
- M. Foucault, Storia della follia nell”età classica, Bur Rizzoli, Milano 1994. Il mondo correzionario, pp. 113-123.
- Foucault, Sorvegliare e punire, cit. pp. 89-90.
- M. de Cervantes, Rinconete y Cortadillo, in Novelle esemplari, Einaudi, Torino 1994, pp. 450-458.
- C. M. Cipolla, Miasmi e umori, Bologna, Il Mulino 1989, pp. 7-9.
- Cipolla, op. cit., pp. 28-33.
- M. Poli, Sei secoli di epidemie a Bologna 1348 – 1919, Minerva 2004, pp. 25-31.
- Ivi, pp. 33 e sgg.
- M. Poli, op. cit., p. 35
- Cipolla, op. cit., pp. 91-92.
- L. da Gatteo, La peste a Bologna nel 1630, Forlì 1930, pp. 26-30; C. Vitiello, La peste del 1630 a Bologna, In riga edizioni, Bologna 2021, p. 35.
- Vitiello, op. cit., capitolo 8, pp. 77- 82.
- da Gatteo, op. cit., p. 115.
- Vitiello, op. cit., 5, pp. 88 – 91.
- M. L. Amoroso, Il complesso monumentale di Santo Spirito in Saxia – Corsia Sistina e Palazzo del Commendatore, Roma, Newton & Compton editori, 1998.
- Ippocrate, L’arte della medicina, a cura di C. Carena, Le arie, le acque e i luoghi, Einaudi, Torino 2023, pp. 82–88.
- Foucault, Storia della follia nell’età classica, op. cit., pp. 216-219 e pp. 248-250; J. Bentham, Panopticon, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio 1983, pp. 114-115.
- Foucault, Sorvegliare e punire, op. cit., pp. 150-152.
- Jeremy Bentham, Panopticon, op. cit., pp. 12-14 dell’introduzione.
- Faucault, Storia della follia, op. cit., p. 376-377 e 476-482, 574-578.
- Bentham, Il Panopticon, op. cit., Prefazione, pp. 32-36.
- Ivi, p. 36.
- Ivi, p. 115.
- Foucault, Sorvegliare e punire, op. cit., pp. 155-156.
- Bentham,Il Panopticon, op. cit., pp. 119-120.: “(l’isolamento) è una penitenza che può essere utile per qualche giorno per domare uno spirito di ribellione, ma non bisogna prolungarla. Lo sciroppo di china e l’antimonio non devono essere impiegati come gli elementi ordinari”, p. 131.
- Ivi.
- Ivi, pp.122-131.
- Ivi, pp. 140-142.
- V. Calzolaio, Isole carcerarie, Edizioni gruppo Abele, 2022, pp. 208-214.
- L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, Milano, Feltrinelli 1961, pp. 312-314.
- “Finché la santa legge tiene tanti scellarati in catene, sta sicuro lo stato e la proprietà.”
- Circa dieci metri quadri.
- Settembrini, op.cit., p. 319.
- Ivi, p. 333.
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