Bibliomanie

Dentro La fattoria degli animali. L’amara favola politica di George Orwell
di , numero doppio 46/47, luglio 2018/giugno 2019, Saggi e Studi,

Dentro <em>La fattoria degli animali</em>. L’amara favola politica di George Orwell
Come citare questo articolo:
Luca Manini, Dentro La fattoria degli animali. L’amara favola politica di George Orwell, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 6, luglio 2018/giugno 2019

Accostandosi a un libro di George Orwell, occorre tenere a mente due principi che informano la sua scrittura, nonché la sua visione della vita, ossia l’orrore che egli provava per ciò che, ne La strada per Wigan Pier, definì “il dominio di un uomo su un altro uomo”; e la sua inesausta ricerca di una verità che fosse il più possibile obiettiva e non viziata da pregiudizi ideologici. Orwell rifuggiva da qualunque dogmatismo, volendo essere sempre fedele a ciò che vedeva – e pronto a cambiare idea. L’ideale che sempre perseguì è un ideale d’integrità etica e intellettuale: suo fu sempre l’odio verso l’autorità “come la intendo io”, affermò in Perché scrivo (un testo del 1946), ovvero verso un’autorità che, anziché perseguire il bene comune, opera con il solo fine di mantenere sé stessa al potere e gli altri in uno stato di soggezione.
Mi piace accostare subito questi principi a quanto Wilfred Owen, uno dei massimi critici della propaganda bellica, morto in battaglia sul fronte francese, nel novembre del 1918, scrisse nell’introduzione (rimasta allo stato d’abbozzo) a quello che doveva essere il suo primo libro di versi: “Tutto ciò che un poeta può fare, oggi, è mettere in guardia. Ecco perché un poeta deve essere fedele ai fatti”. Ho tradotto con ‘fedele ai fatti’ l’aggettivo truthful, che ha in sé l’aderenza alla realtà e alla verità.
E nella realtà delle cose Orwell s’immerse senza sosta. Vide di persona e, come funzionario, visse il colonialismo inglese in Birmania; scelse di condividere la vita degli emarginati a Londra e a Parigi; fu in Spagna durante la Guerra Civile, nelle file del POUM (gruppo d’ispirazione trozkista inviso agli stalinisti); visse fianco a fianco degli operai nelle zone minerarie e industriali del nord dell’Inghilterra: esperienze, tutte, che riportò nelle sue opere, rispettivamente in Giorni in Birmania (1934), Senza un soldo a Parigi e Londra (1933), Omaggio alla Catalogna (1938) e nel già ricordato La strada per Wigan Pier (1937). E per quanto mai si recasse in Unione Sovietica, vide l’azione dei comunisti russi in Spagna e la loro volontà d’imporsi sui vari schieramenti che combattevano la guerra contro i franchisti, e conobbe gli orrori perpetrati da Stalin contro il popolo russo.
Orwell più volte espresse il proprio disgustato disprezzo per certa stampa e certi giornali, colpevoli di presentare una versione distorta di ciò che accade, e colpevoli sapendo di esserlo; e la colpa è ancor più grave quando a essere distorti non sono solo fatti di cronaca, bensì eventi che diverranno storia, come la cronaca della guerra civile spagnola o i crimini commessi nell’Unione Sovietica. Compito (e dovere) dello scrittore è allora, secondo Orwell, il riferire le cose così come sono accadute e così come sono: è lo smascheramento della menzogna e la rimessa in atto della verità. Con non celato orrore egli afferma (in Uno sguardo retrospettivo sulla guerra spagnola, del 1943) come “il concetto stesso di verità oggettiva stia svanendo dal mondo”; e ancora: “Ho visto la storia mentre veniva scritta non in base ai fatti realmente accaduti ma a quello che avrebbe dovuto accadere secondo varie linee di partito”. Il discorso politico – come scrive, nel 1946, ne La politica e la lingua inglese – è costruito in modo da rendere veritiere le menzogne, “le menzogne della propaganda totalitaria”, come le definisce nell’introduzione a La Fattoria degli Animali per l’edizione ucraina del romanzo.
Si tratta di un meccanismo che Orwell descriverà con cruda (e crudele) lucidità in 1984, affidando al protagonista del romanzo, Winston Smith, un impiego presso il Ministero delle Verità (la verità, ovviamente, dell’unico partito), che lo vede impegnato a riscrivere la storia secondo il mutare delle vicende belliche e secondo la volontà di chi dirige il partito. “Tutta la propaganda è menzogna, anche quando dice la verità”, annotò nel suo Diario di guerra il 14 marzo 1942, facendo eco, con ciò, a Wilfred Owen, il quale, nella poesia “Dulce et decorum est”, aveva definito la propaganda una “vecchia menzogna”.
In Uno sguardo retrospettivo sulla guerra spagnola, Orwell affermò che la gente tende a credere alle atrocità del nemico, ma non a quelle commesse da chi sente essere dalla sua parte, e questo senza voler esaminare le prove. Nel saggio La politica e la lingua inglese scrive: “Il linguaggio politico […] è concepito per far sembrare vere le bugie e rispettabile l’assassinio e per dare un’apparenza di solida realtà anche a un soffio di vento”. E come Orwell renderà terribilmente chiaro in 1984, se tutti accettano la menzogna, se tutti i documenti raccontano la stessa favola, la menzogna si fa realtà storica. La conclusione, amarissima, che ne trae la troviamo in una lettera del 18 maggio 1944 a Noel Willmett, dove afferma che, nel momento in cui ciò accade, “la storia ha già cessato di esistere”.
Vi è in lui un pessimismo di fondo, riconoscibile appieno nella sua ultima opera, quel 1984 che porta a un alto grado di perfezione il concetto stesso di distopia e trova il suo estremo compimento nelle lacrime d’amore che il protagonista Winston Smith, rieducato dal Partito, versa per il Grande Fratello. È un pessimismo che trova la sua ragion d’esser nella consapevolezza che in ogni sistema di potere è presente una componente di corruzione, la corruzione dell’animo umano, che investe sia chi il potere lo esercita sia chi lo subisce, cosa che Orwell esprime molto chiaramente negli scritti sulla sua esperienza di funzionario imperiale. Egli si schierò dalla parte di Trozky, ma ciò non significa che, se questi avesse prevalso sulla linea politica di Stalin, le cose sarebbero state diverse nel processo che portò l’Unione Sovietica a diventare una monopartitica dittatura di stampo militare.
Per i regimi totalitari – annota Orwell in Fascismo e democrazia, del 1941 – l’onestà intellettuale è un crimine; un regime totalitario impone ai cittadini ciò che essi devono non solo dire ma anche pensare. Il vero scrittore – sostiene poi ne La politica e la lingua inglese – deve quindi trasformarsi in una specie di ribelle che dà voce alle proprie opinioni, non a una qualche linea di partito, perché il vero scrittore scrive solo quando sente di potere (e dovere) dire cose vere.
Per venire al notissimo romanzo che qui si presenta, La Fattoria degli Animali, occorre dire subito che, con esso, Orwell intendeva mostrare (volendo mutuare il titolo di una celebre opera di Trozky) il “tradimento della rivoluzione” bolscevica, il suo trasformarsi dapprima in una dittatura e poi in un regime totalitario tale da annichilire ogni libertà individuale. A tal fine, scelse la forma della favola, con animali parlanti e pensanti che vivono assieme agli esseri umani. La favola ha in sé una universalità e un valore morale che danno allo spunto della rivoluzione russa una valenza più generale, un’applicabilità ad altre rivoluzioni, inserendola nel discorso del già ricordato suo pessimismo sulla possibilità (o, meglio, l’impossibilità) di costruire un’autentica e duratura democrazia.
L’idea di questa favola gli venne nel 1937, vedendo un ragazzo che frustava un cavallo aggiogato a un carro; e, si chiese Orwell, che cosa sarebbe accaduto se il cavallo si fosse reso conto di essere ben più forte del ragazzo? Che accadrebbe se gli animali si alleassero per muovere guerra agli uomini che li dominano? La stesura dell’opera risale al 1943, la pubblicazione al 1945.
Nel saggio Perché scrivo, l’autore dichiara di aver composto La Fattoria degli Animali con la consapevolezza di aver unito lo scopo politico con quello letterario. I personaggi del romanzo sono palesi proiezioni dei protagonisti della rivoluzione bolscevica: il Vecchio Maggiore è Lenin con, sullo sfondo, l’ombra di Marx, ed è il teorico della rivoluzione; Napoleone è Stalin, Palla di Neve è Trozky, il signor Jones è lo zar Nicola II. Gazzettino / Squealer riassume in sé il sistema della propaganda del partito comunista, i nove cani allevati segretamente rappresentano la polizia al servizio di Stalin. Il cavallo Boxer è colui che crede ciecamente negli ideali della rivoluzione e non mette mai in discussione l’azione di chi comanda. La cavalla Clover, dal canto suo, incarna la fiducia di chi non vuole rinunciare a credere negli ideali originari della ribellione e si ostina ad aggrapparsi a un’illusione. Mollie potrebbe raffigurare, con la sua superficiale dedizione alla bellezza e alle comodità, una delle nobildonne che fuggirono dalla Russia e cercarono rifugio all’estero. Benjamin è lo spirito critico, Minimus il poeta asservito al potere che scrive non ciò che sente, ma quanto gli viene ordinato di scrivere – ossia il contrario di quel che l’autore sempre fece. La cena finale, poi, rispecchia la conferenza di Teheran, dove s’incontrarono Churchill, Roosevelt e Stalin.
Considerato lo status di classico del Novecento che questo romanzo ha oramai acquisito, può sembrare strano che faticasse a trovare un editore disposto a pubblicarlo; in effetti ricevette almeno quattro rifiuti, prima che Frederic Warburg lo accettasse; e il motivo che Orwell riconobbe in quest’atteggiamento di resistenza nei confronti del libro è la sua natura chiaramente ideologica: la favola da lui creata, una riconoscibile satira della Rivoluzione d’Ottobre e dei suoi sviluppi, avrebbe irritato l’Unione Sovietica in un momento storico in cui era alleata dell’Inghilterra contro la Germania nazista, ed era alquanto diffuso il “culto” (che Orwell ebbe sempre in obbrorio) di Stalin. La pubblicazione dell’opera avrebbe potuto creare un incidente diplomatico, specie dopo le vittorie russe a Stalingrado e a Kursk nel 1943: si rammenti, fra il resto, l’infame episodio dell’offerta di una ricca spada a Stalin da parte di Churchill, proprio dopo la battaglia di Stalingrado.
Nell’introduzione – poi non pubblicata – al romanzo, Orwell parla del servilismo con cui era stata accolta la propaganda sovietica, osservando che “il punto di vista sovietico è stato accettato senza alcun esame critico e poi diffuso con un totale disprezzo verso la verità storica o verso la correttezza intellettuale”. Sempre nell’introduzione afferma: “Io reclamo il diritto di dirlo [che l’Unione Sovietica non è una repubblica democratica], anche se siamo alleati con l’URSS in una guerra che io voglio sia vinta”. E ancora: “Se la libertà significa qualcosa, essa significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentire”.
Chiaro scopo del libro è dunque di mostrare all’Europa ciò che l’Unione Sovietica è davvero, ossia uno stato che distrugge la libertà individuale; è sollevare il velo di chi non vuole vedere, di chi con piena coscienza nega il vero.
Orwell è molto abile nel raffigurare la deriva degli ideali che stanno alla base della rivoluzione (o Ribellione, come sempre la definisce), i quali sono poco a poco sostituiti da anti-ideali liberticidi e oppressivi. La creazione o generazione di una repubblica democratica ha in sé, immediatamente, i semi (o i germi avvelenati) della de-generazione. La ribellione contro l’umano signor Jones si è a stento compiuta che già i maiali assumono il controllo della situazione. La giustificazione è data dalla loro superiore intelligenza, sulla quale Orwell insiste più volte, denunciando come, anziché essere usata per la fondazione di un’autentica repubblica egualitaria, essa venga utilizzata per un proprio personale vantaggio e profitto. La teoria, nel momento in cui si fa pratica di potere, degenera e si corrompe.
Il discorso che l’autore fa pronunciare al Vecchio Maggiore nel primo capitolo è perfettamente chiaro, diretto, comprensibile e del tutto condivisibile nella sua utopistica raffigurazione di un futuro di uguaglianza e di libertà; e tali sono i Sette Comandamenti dell’Animalismo scritti sulla parete estrema del granaio. Ciò che Orwell mette in scena è come i maiali riescano a modificare, uno a uno, a proprio vantaggio, quei comandamenti, usando scaltramente la forza della propaganda (incarnata, come si è detto, da Squealer / Gazzettino) e approfittando della debolezza e labilità della memoria degli altri animali e, poi, della mancanza di ricordi nelle generazioni future. Questi sono i Sette Comandamenti:

1. Tutto ciò che cammina su due gambe è un nemico.
2. Tutto ciò che cammina su quattro gambe, o che ha le ali, è un amico.
3. Nessun animale indosserà abiti.
4. Nessun animale dormirà in un letto.
5. Nessun animale berrà alcolici.
6. Nessun animale ucciderà un altro animale.
7. Tutti gli animali sono uguali.


L’opera di modificazione, messa in atto dai maiali, Orwell la fa cominciare dai comandamenti che possono apparire più innocenti, ossia il quarto, che impone agli animali di non dormire in letti, e il quinto, che vieta di bere alcolici. Quando i maiali cominciano a dormire nei letti e scoprono il gusto della birra, i comandamenti vengono mutati aggiungendo ‘con le lenzuola’ e ‘in eccesso’. Il tiro si alza con il sesto comandamento, quello che condanna l’uccisione di un altro animale: dopo la prima strage compiuta dagli sgherri di Napoleone (chiara allusione alle purghe staliniane), ecco che il comandamento viene completato con le parole ‘senza un motivo’. Il primo, invece, è cancellato senza curarsi di darne alcuna pezza giustificativa, nel momento in cui i maiali compaiono camminando su due gambe, accompagnati dal canto / belato delle pecore (istruite da Squealer), che nega il secondo comandamento.
Se all’inizio, dunque, i maiali – ossia il potere – si preoccupano di giustificare il mutamento operato, a un certo punto – ci fa capire Orwell – questo non serve più, come proclama col colpo di genio che è l’ultimo e unico comandamento rimasto alla fine della favola: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”. Se la correttezza grammaticale di queste due frasi è ineccepibile, contiene peraltro un’aporia logica, non potendo l’aggettivo ‘uguale’ supportare un grado comparativo. A questo è stata ridotta la dottrina del Vecchio Maggiore, e nessun animale ha la capacità di ribellarvisi.
In questa metamorfosi / riduzione dei sette comandamenti ad uno solo, due sono i punti che, in particolare, interessano Orwell: la lingua e la memoria, poiché è la voluta e consapevole e violentemente perseguita manipolazione di lingua e memoria che permette ai maiali di dominare gli altri animali. Come Orwell scriverà in 1984, chi controlla il passato controlla il presente e controlla il futuro. Sempre in 1984, il partito sta costruendo una nuova lingua il cui fine precipuo (eliminando molte parole e modificando il significato di altre) è modellare la mente e impedire idee e opinioni che non collimino con quelle del Partito.
Per esprimere sia il reale sia il personale sono necessari strumenti quali la vista, la mente, la parola, la formulazione linguistica, ma se questi strumenti sono manipolati e modificati, se sono indirizzati verso un unico scopo, se sono piegati a un volere unico, ecco che viene a mancare la pluralità dell’espressione e delle opinioni, ossia il segno dell’essere umano che è, in sé, plurale e vario. Rendere incapaci di possedere le parole per dire altro da quello che il potere – o il pensiero dominante – impone ne è lo scopo finale, superando ogni etica libertaria nel segno di una falsa etica uniformante e vincolante: è quanto Carlo Pagetti definisce, acutamente, una violenza ideologica, la volontà di modificare il modo di pensare e di parlare, ossia di percepire e di rappresentare la realtà perché l’individuo non possa più (perché non ne è più in grado) affermare opinioni personali sgradite a chi detiene il potere.
È una sorta d’ortodossia che trova, nel mondo d’oggi, il suo corrispettivo nel ‘politicamente corretto’, i cui troppi seguaci, sotto il velo di un ipocrita senso di rispetto e di un’altrettanto ipocrita idea umanitaria, vorrebbero imporre un pensiero unico che, di fatto, nega la varietà delle opinioni e del giudizio personale, insomma la libertà di pensiero e di parola.
Ogniqualvolta i maiali fanno qualcosa che va contro uno dei comandamenti, alcuni animali vanno a controllare le scritte sulla parete del granaio, ma le trovano modificate. E la loro memoria vacilla: era davvero così? Non era diverso? Ed è proprio di questa labilità della memoria che il potere approfitta, come mostrano tanto Muriel quanto – variatis variandis – Boxer: a entrambi, però, mancano gli strumenti espressivi per dichiarare i propri dubbi e i propri pensieri. Un verbo spesso usato da Orwell è parere: agli animali pareva di ricordare che…
Egli è molto attento nel tratteggiare il personaggio di Squealer / Gazzettino, il quale, a ogni manifestazione di dubbio da parte degli altri animali, è sempre presente (come onnipresente è la voce del partito, mediante i teleschermi, in 1984) per spiegare, giustificare, velare di verità la menzogna, per ingannare distorcendo il vero, con una persuasione che, spesso, si accompagna alla minaccia, ora esplicita, ora suggerita.
Nel momento in cui la memoria individuale vacilla ed è sostituita da una memoria collettiva imposta, ecco che cessa la libertà personale e prende il predominio la memoria altrui o, meglio, la falsificazione della memoria da parte del potere che, secondo una felice definizione di Giampaolo Pansa, si fa custode di questa preziosa memoria.
In 1984, Winston Smith guarda dalla finestra, si chiede se Londra sia sempre stata così, ma non è in grado di darsi una risposta. Mancando la memoria, manca la storia personale, mancano gli eventi che hanno portato alla costruzione di un’identità e di una personalità. Su scala più grande, la cancellazione (o la modificazione) della storia porta a una storia che è un eterno presente; e se la storia generale è modificabile e modificata, tanto più lo è la storia individuale, che perde ogni consistenza, ogni rilevanza, per divenire un vuoto che il Partito riempie a proprio piacimento.
La Fattoria degli Animali è, a onor del vero, un’opera di trasformazioni e metamorfosi. Gli ideali espressi dal Vecchio Maggiore si fanno realtà con la Ribellione. La Repubblica è fondata e subito piegata e trasformata in una tirannia. I maiali si trasformano in una caricatura degli uomini. I maiali, nella scena finale, sono uguali agli uomini (ma anche gli uomini sono uguali ai maiali…). La più completa metamorfosi storica la subisce Palla di Neve, trasformato dalla propaganda di Napoleone da eroe della Ribellione a traditore e complice del padrone umano – e questo senza che Palla di Neve, scacciato, possa difendersi o far udire la propria voce. In questa damnatio memoriae di Palla di Neve Orwell sfoggia le sue migliori qualità satiriche: il suo fantomatico tradimento è rivelato da certi documenti che i maiali avrebbero rinvenuto; nessuno vede questi documenti. L’autore fa dire a Squealer / Gazzettino che li mostrerebbe agli altri animali, se sapessero leggere; ma poiché non sanno leggere, a che scopo mostrarglieli? E quando qualcuno s’azzarda a ricordare l’eroismo di Palla di Neve nella Battaglia della Stalla, Squealer chiede che gli vengano mostrati i documenti scritti che lo comprovino – documenti che, ovviamente, non esistono (come non esistono i diari rivelatori di Palla di Neve).
Il Vecchio Maggiore aveva postulato l’immutabilità delle leggi dell’Animalismo; l’azione dei maiali mostra invece come quelle leggi fossero prone alla mutevolezza. L’unica legge immutabile è la durezza della vita, nelle parole di Benjamin, l’asino disincantato e amaro che osserva, vede, sa – ma è solo.
Il successo della propaganda di taglio patentemente totalitario si misura nell’accettazione che il popolo dimostra. E Orwell annota come gli animali siano lieti di credere che la vita sia adesso migliore di quando era l’uomo a gestire la fattoria; ma si tratta di una falsa credenza, che l’autore sottolinea osservando che nessuno era in grado di ricordare davvero bene come andassero le cose ai tempi di Jones. Il sistema che Orwell critica e denuncia è quello in cui i pochi tradiscono i molti mentendo, creando un sistema di menzogne e di modificazione di ciò che è stato, piegando la storia ai propri scopi, secondo uno schema di collettivismo oligarchico – espressione che è un chiaro ossimoro (come fu, in Italia, la proposta venuta da un politico di sinistra di creare un centralismo democratico).
Ciò che è oligarchico non può essere collettivo, così come un centralismo non può essere democratico. Ma è proprio nell’abilità di far accettare queste contraddizioni in termini che sta l’astuzia dei potenti, nel mentire e manipolare, quasi che le parole avessero in sé un’essenza che invece non hanno, come se l’aggettivo democratico fosse una consustanziale identità di significato e di significante, e ogni cosa che è definita democratica lo divenga in modo automatico: si pensi alla Repubblica Democratica Tedesca, che era tutto fuorché democratica.
Quando i maiali si mostrano con una frusta in mano e camminano sulle zampe posteriori, quando Napoleone, indossando gli abiti, si trasforma in un nuovo signor Jones, il mondo pare agli animali rovesciato, capovolto – è l’ultima, la definitiva metamorfosi del racconto: tutto è cambiato per essere uguale a prima, in un circolo che non lascia scampo.
Certo, ragionando di scrittura storica de race, leggere Tucidide non è leggere Senofonte, leggere Tacito non è leggere Livio. Nel Seicento, Giovan Francesco Loredano, ne La morte di Volestain, dimostrò l’impossibilità di scrivere una storia realmente obiettiva, poiché tanti sono i punti di vista dai quali un singolo evento (in questo caso, la parte finale della vita del generale Wallenstein) è visto e può essere visto; lo stesso ribadisce, in ambito tardo vittoriano, Walter Pater nel suo Gaston de Latour. Una cosa, però, è ammettere che la storia ha in sé qualcosa che sfugge alla comprensione e che il passare del tempo muta le prospettive; altro è volutamente falsare la storia per motivi ideologici, vedere le cose come sono e descriverle altrimenti, tacere e nascondere fatti scomodi, indorare ciò che fa comodo e ignorare e cancellare ciò che comodo non è.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Un buon libro per accostarsi a Orwell (1903-1950) è J. Rodden e J. Rossi, The Cambridge Introduction to George Orwell, Cambridge University Press, Cambridge 2012. In italiano, si consigliano l’importante raccolta di saggi (atti di un convegno internazionale svoltosi a Torino) George Orwell. Antistatalismo e critica al totalitarismo, a cura di M. Ceretta, Olschki, Frenze 2007, nonché B. Battaglia, Orwell oggi Orwell, Liguori, Napoli 2013. Viziato da patenti pregiudizi ideologici di sinistra è la lettura operata da F. Moretti nel suo Letteratura e ideologie negli anni Trenta inglesi, Adriatica, Bari 1976. I saggi citati nell’introduzione si possono leggere, a cura di G. Bulla, in G. Orwell, Letteratura palestra di libertà, Mondadori, Milano 2013. Si veda anche la raccolta di saggi e interventi G. Orwell, Come un pesciolino rosso in una vasca di lucci, a cura di V. Giacopini, Eulèthera, Milano 2018. Un’utile antologia è G. Orwell, Verità / Menzogna, a cura di D. Milner, Mondadori, Milano 2018. I principali romanzi e saggi di Orwell si trovano nel “Meridiano” Mondadori a cura di G. Bulla, Milano 2000 (Romanzi e saggi). La traduzione è stata condotta sull’edizione Penguin, che riprende quella degli Opera omnia di Orwell pubblicata da Secker & Warburg (Animal Farm, 1987) e che contiene, fra il resto, le due introduzioni al romanzo vergate dall’autore.

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