Bibliomanie

In cerca di giustizia. L’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie nell’Italia alle prese con la guerra civile (1943-1947)
di , numero 54, dicembre 2022, Saggi e Studi, DOI

In cerca di giustizia. L’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie nell’Italia alle prese con la guerra civile (1943-1947)
Come citare questo articolo:
Federico Ricci, In cerca di giustizia. L’esperienza delle Corti d’Assise Straordinarie nell’Italia alle prese con la guerra civile (1943-1947), «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 9, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10109

Il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945 sono diventate due date simbolo nell’immaginario storico collettivo. Queste, oltre che rappresentare la caduta del regime fascista1 e la successiva Liberazione2, diventano due momenti fondamentali nel ripercorrere la difficile esperienza giudiziaria relativa alla punizione dei crimini fascisti. All’interno di questa cornice si collocano momenti contrastanti e densi di significato politico: da un lato, l’estate del 1943, carica di aspettative a seguito della caduta del regime e caratterizzata da momenti spontanei di gioia collettiva originati dall’atto di distruzione delle effigie della passata dittatura; dall’altro lato, i giorni della liberazione, anch’essi connotati da tale esplosione di violenza unita alla esultanza per aver sconfitto la potenza occupante nazista e fascista. È proprio durante i lunghi venti mesi, il celebre spazio grigio, che separano questi due momenti topici che si devono cogliere alcuni eventi cruciali, quali la caduta delle istituzioni statali dopo l’armistizio dell’8 settembre e la nascita di un corpo giuridico parallelo come fu la Repubblica Sociale Italiana. Le due date, rispettivamente il 1943 e il 1945, testimoniano inoltre l’aprirsi di una delle pagine più violente della storia nazionale, nonché la cosiddetta «terza guerra civile»3.
Il dissolversi della legalità politico-statale favorirà l’esplodere delle contrapposizioni tra le parti in lotta, partigiani e collaborazionisti – considerando anche i lunghi mesi dell’occupazione nazista4 nel quadro di questa contrapposizione – attraverso una espressione radicale delle forme di violenza senza precedenti5. Oltretutto, ripercorre i momenti della lunga Resistenza evidenzia lo scarto tra l’applicazione di una giustizia legale ed una di tipo sommario, così come la contrapposizione tra organi giuridicamente riconosciuti nel perseguire i principali crimini di guerra e tribunali improvvisati nati tra i gruppi resistenziali, privi di qualsiasi legittimità giuridica e caratterizzati dalla volontà atavica di ‘chiudere i conti’6.

1. Problemi interpretativi: chi sono i colpevoli?
Uno dei primi aspetti da approfondire riguarda la questione delle colpe e dei colpevoli. Si tratta di un interrogativo di non poco conto, che si è collocato al centro, a partire dall’8 settembre, di ampi dibattitti sia all’interno della Resistenza7 – in particolare il Clnai – sia in dottrina8. Il punto di partenza riguarda il fatto che la categoria giuridica, nonché forma di reato, di collaborazionismo sarà ideata ex post. Il diritto penale ordinario, salvo quello militare in tempo di guerra, non prevedeva questa tipologia di reato. Pertanto, il legislatore di unità nazionale fu costretto a prevedere una legislazione specifica che, in molte delle sue parti, sacrificava il principio tradizionale nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege. Così, la creazione di una nuova legislazione per punire i crimini fascisti e di collaborazione fece sì che – specifica Claudio Pavone – «la colpa diveniva essenziale per dimostrare l’esistenza di quel “nesso causale” fra l’azione del singolo e il fatto storico fascismo che i giudici riterranno indispensabile per riconoscere la responsabilità penale e amministrativa dei fascisti»9. In sintesi, il fascismo era ora riconosciuto propriamente come «fatto storico» e, di conseguenza, penalmente perseguibile nelle diverse fattispecie di reato previste per coloro i quali, in maniera diretta o subordinata, avevano partecipato al suo mantenimento.
Questo tipo di conclusione, però, risulta estremamente semplicistica. In quanto, in base a tale sillogismo, possono essere chiamati alla sbarra parimenti sia i grandi gerarchi sia coloro che svolgevano funzioni amministrative a livello locale senza nessun rilievo apicale. E cosa dire di tutti coloro che nel lungo ventennio portavano nel proprio portafoglio la tessa d’iscrizione al Pnf? Anch’essi erano da ricomprendere nell’elenco dei collaboratori di Mussolini?
A dissolvere tutti gli eventuali dubbi sui soggetti e i criteri volti a sanzionare i fascisti interviene il Decreto Legislativo Luogotenenziale del 27 luglio 1944, n. 15910. Il nuovo dispositivo giuridico, figlio del primo gabinetto Bonomi, nonostante l’estrema frammentarietà e caoticità delle norme, è la prima e significativa risposta da parte dello Stato italiano verso la sanzione dei crimini fascisti. In particolare, l’articolo 2 del decreto riconosce soggetti ben precisi passibili di denuncia, nonché: «I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe»11. Tuttavia, il dispositivo fu formulato in maniera assai vaga, lasciando ampio margine ai singoli magistrati nello stabilire la concreta possibilità di perseguire i gerarchi più noti o meno12. Pavone, non a caso, evidenzia una triste prassi che va affermandosi tra i togati della Alta Corte di giustizia, la quale, sulla base della logica del «nesso causale», permette ai magistrati di «non riuscir[e] a trovare neppure un fascista di cui si potesse dimostrare che con la sua azione personale aveva provocato quell’insieme di disastri elencati dalla legge»13. Se il precedente articolo puniva i cosiddetti ‘pesci grossi’, l’art. 3 invece riconosce alcuni reati minori:

Coloro che hanno organizzato squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza o di devastazione, e coloro che hanno promosso o diretto l’insurrezione del 28 ottobre 1922 sono puniti secondo l’art. 1120 del Codice penale del 1889. Coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925 e coloro che hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista sono puniti secondo l’art. 118 del Codice stesso. Chiunque ha commesso altri delitti per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo è punito secondo le leggi del tempo14.

Per i crimini appena citati, relativi alla sicurezza dello Stato, il legislatore sceglie di punire gli stessi applicando le pene previste dal Codice Zanardelli, così da evitare la controversa questione della retroattività della legge penale15.
In definitiva, risultava estremamente difficile perseguire in maniera coerente da parte della magistratura i principali crimini fascisti, considerando anche il fatto che, salvo per l’Alta Corte di giustizia, tale compito venne affidato alle magistrature ordinarie: Pretori, Tribunali e Corti d’Assise16. Mentre, dato il carico di lavoro e la materia penale particolare, sarebbe risultato più idoneo prevedere sin da subito organismi giurisdizionali straordinari in gradi di perseguire con celerità e sanzionare i principali colpevoli, senza oberare l’attività della magistratura ordinaria e dando, in questo modo, la sensazione di essere in grado di rendere effettivamente giustizia.

2. La nuova legislazione straordinaria: l’avvento delle Cas e i suoi protagonisti
L’inerzia con cui si attiva la macchina punitiva così come l’imminente Liberazione dei territori dell’Italia settentrionale rende necessari l’introduzione di una nuova legislazione in materia di punizione e la sanzione dei crimini fascisti. A farsi carico dell’elaborazione un nuovo decreto sarà il rinnovato gabinetto presieduto da Bonomi, il quale, esortato dalle agitazioni di piazza e dagli eventi drammatici del processo Caruso17, decide di intervenire al più presto in materia di punizione dei fascisti onde evitare l’esplosione di forme di giustizia sommaria nei territori appena liberati18.
La decisione del Governo è quella di introdurre, oltre ad un chiarimento sui profili relativi alla collaborazione, un nuovo organo giurisdizionale: le Corti d’Assise Straordinarie (di seguito Cas). Il Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 14219, all’articolo 1 specifica che dette Corti erano competenti a giudicare coloro che: «posteriormente all’8 settembre 1943, abbiano commesso i delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, previsti dall’art. 5 del decreto legislativo Luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore e di aiuto o di assistenza ad esso prestata»20; vengono inoltre inclusi coloro che avevano preso parte attivamente ai quadri dirigenziali e politici della Rsi.
Le Cas avevano una giurisdizione a livello provinciale, vale a dire che una o più sezioni erano costituite presso il capoluogo di provincia all’interno dei singoli distretti di Corte d’Appello. L’elemento certamente più significativo riguarda la loro composizione. Essendo le Cas riprodotte su modello delle Corti d’Assise ordinarie, si è voluto riaffermare il principio di una giustizia popolare: a fianco al Presidente, ossia un magistrato di Corte d’Appello, partecipano al giudizio quattro giurati popolari21. I giudici laici sono selezionati, mediante la compilazione di un elenco a livello provinciale da parte dei Cln, tra i cittadini «maggiorenni di illibata condotta morale e politica»22. L’albo predisposto dai comitati a livello provinciale viene poi inoltrato al presidente del Tribunale il quale provvede, in seguito ad appositi controlli, a nominare i giurati effettivi per ogni sessione. Ne consegue una amministrazione della giustizia che, secondo il commento di diversi autori, risulta a certi tratti parziale: spesso infatti il desiderio di queste giurie era proprio quello di punire, una sorta di cieca vendetta, senza prendere in considerazione le forme e le garanzie alla base del procedimento accusatorio. Come ha giustamente sottolineato Andrea Martini, i giudizi dei laici – per lo più soggetti appartenenti alla Resistenza o attigui al mondo ciellenistico – erano «ben lontani dall’essere super partes» tanto da poter ipotizzare che «quei giurati non desiderassero altro che dure sanzioni nei confronti dei fascisti e dei collaborazionisti con cui a lungo avevano combattuto e che erano stati a lungo responsabili delle loro sofferenze»23. Al di là dei banchi riservati ai giudici figura il pubblico ministero. Costui è responsabile di condurre l’azione penale e svolgere le indagini preliminari. Il decreto n. 142 prevede inoltre la possibilità, in caso di necessità, di affidare tale compito anche agli avvocati designati dai Cln24. Tale decisione fu il frutto delle difficoltà che si erano riscontrate all’interno degli organici giudiziari nelle varie province25 e, onde evitare un rallentamento nell’azione epurativa, il governo preferì estendere tale ruolo anche ai membri dell’ordine forense.
Ben più complessa è la ricostruzione dei profili e dell’attività svolta dalla magistratura giudicante. La storiografia più recente in materia ha rivolto grande attenzione alla figura dei giudici: analizzandone l’esperienza biografica sin dalla messa in ruolo e focalizzandosi particolarmente sul livello di compromissione con il precedente regime, sino all’avanzamento di carriera successiva nel contesto repubblicano26. Gli studi sulla magistratura hanno fatto emergere che, nonostante il venire meno dell’indipendenza dell’organo durante il Ventennio, questa fu in grado di preservarsi al suo interno, continuando ad applicare la legge attraverso una lettura attenta della norma, senza cadere nella spirale degenerativa del giustizialismo27. Tuttavia, uno degli aspetti più critici riguarda la mancata epurazione dell’organico giudiziario28, la quale genera così il paradosso secondo cui personalità spesso troppo compromesse con il regime – in molti casi anche con la Rsi – erano poi le prime a dover decidere su i reati di collaborazionismo29.
Infine, il pubblico. Esso può essere considerato l’ultimo grande attore attivo durante i procedimenti giudiziari30. Le aule delle Cas divengono sin da subito uno spazio emozionale non indifferente: qui familiari e amici delle vittime uccise dalle forze naziste e fasciste si ritrovano e, attraverso l’ascolto e l’osservazione del processo penale, conoscono un vero e proprio processo catartico interiore31. Tuttavia, la pubblicità dei dibattimenti non ha una sola funzione riparativa per i familiari delle vittime, bensì diviene un momento pedagogico per l’intera comunità divisa32. Dalla punizione del reo doveva nascere un nuovo sentimento nazionale funzionale al nascente quadro democratico-costituzionale che fosse in grado di ricomporre l’unità nazionale scissa dai difficili mesi di guerra civile33. Dunque, il ruolo svolto dal pubblico è ben lontano dall’essere presente solo in forma passiva, anzi esso svolge un ruolo attivo di primo piano: attraverso la manifestazione dei propri sentimenti, come urla e pianti, questo era in grado di condizionare in maniera travolgente il giudizio finale. Diverse sono le testimonianze di processi sospesi per l’incapacità del Presidente di garantire l’ordine dell’adunanza oppure di avvocati difensori intimoriti dalle accuse e minacce provenienti dalle tribune34. Una lettura più attenta circa l’irruenza della partecipazione popolare denota chiaramente la richiesta da parte di quella stessa collettività di partecipare energicamente all’emissione del giudizio di condanna. In definitiva, il pubblico arrogava a sé una duplice funzione: quella di farsi giustizia, accusando attraverso denunce in Procura i principali collaborazionisti, e allo stesso tempo quello di darsi giustizia, partecipando attivamente durante il processo e forzando, tramite manifestazioni del proprio stato d’animo, la sentenza di condanna in modo tale da chiudere i conti.

3. Pene esemplari per crimini esemplari
«Che il paese travolto in un disastro voglia erigere il patibolo per chi ve lo ha portato, è comprensibile, ma allo stesso modo che è comprensibile il gesto del bambino che percuote, senza distinguere, l’uomo o l’animale o l’oggetto inanimato che lo ha urtato e gli ha cagionato dolore»35. Si esprime in questi termini Carlo Jemolo, nel 1945 sulle pagine de “Il Ponte”, riguardo i principi di legalità contenuti nelle disposizioni contro il fascismo. Non a caso, il tratto distintivo della legislazione penale presso le Cas è dato proprio dalla straordinarietà delle pene inflitte e, secondo il fine giurista, da una compressione di quegli elementi di legalità alla base della tradizione giuridica.
Questo fu un tema assai discusso in dottrina, in quanto la giurisprudenza nella sua veste ordinaria, escludendo dunque quella militare, non prevedeva forme di reato compatibili con i crimini commessi nei mesi della guerra civile36. Pertanto, l’interrogativo che si pone riguarda proprio le forme e i contenuti dell’azione penale nel tempo della transizione. Basti pensare che il «delitto di collaborazionismo»37 non aveva precedenti nella tradizione penalistica italiana e che l’unico riferimento era contenuto nel Codice penale militare di guerra38. Tuttavia, il Governo ha risolto questo problema con la pubblicazione del decreto del 27 luglio 1944 n. 159 relativo alle sanzioni contro il fascismo; detto decreto prevede la possibilità di infliggere la pena capitale o l’ergastolo, in virtù dell’art. 5 che recita:

Chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra. Le pene stabilite per i militari sono applicate anche ai non militari. I militari saranno giudicati dai Tribunali militari, i non militari dai giudici ordinari39.

Nondimeno, al fine di applicare tali condanne era prima di tutto essenziale circoscrivere i fondamenti giuridici che si celano dietro a tali procedure. Come ha giustamente evidenziato Marina Giannetto, era necessario punire delle responsabilità oggettive, le quali fossero «collegate a posizioni ricoperte nelle alte cariche del Partito fascista, nelle istituzioni politiche e amministrative dello Stato e negli organismi dirigenti del capitale finanziario»40. Eppure, giungere a conclusioni sbrigative riguardo al tipo di attività svolta e il grado di compromissione dei membri dell’apparato fascista non risulta così semplice. Sempre Giannetto sottolinea che «i concetti di “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” erano difficili da individuare nei comportamenti, e dunque da imputare, e soprattutto applicare nei procedimenti sanzionatori»41.
Ad ogni modo, l’applicazione della legislazione penale militare si dimostra estremamente duttile nelle mani dei giudici nel reprimere i principali reati42. Ad esempio, la pena di morte è prevista nei casi più gravi di crimini contro lo Stato e i civili: partecipazione a stragi e rappresaglie, rastrellamenti, corrispondenza col nemico, torture e violenze. Mentre le misure cautelari hanno a che fare con reati minori dove spesso è difficile definire il grado di compromissione e di partecipazione da parte del reo.
Tuttavia, per avere un quadro più chiaro riguardo le pene inflitte è opportuno osservare le statistiche circa le condanne suddivise nelle diverse regioni italiane. Un primo chiarimento può essere fatto riguardo l’azione delle Cas tra Nord e Sud43. Nelle regioni settentrionali il numero di condanne è significativamente maggiore, anche per il fatto che, non va dimenticato, gli ultimi anni della guerra furono estremamente più duri in questi territori rispetto al Sud liberato; mentre nel Mezzogiorno, dove le Cas non entreranno in azione, saranno attive soltanto le Sezioni Speciali delle Corti d’Assise – oltretutto l’occupazione delle forze Alleate, così come le prime misure epurative del governo Badoglio, avevano già condotto un’azione epurativa sin dal settembre del 194344. Sebbene ad oggi manchi un dato definitivo a livello nazionale sul numero di processi presso le Cas tra il 1945 e il 1947, è possibile ricostituire un quadro sufficientemente esaustivo consultando gli studi offerti dalla più recente storiografia circa l’azione delle Cas su scala locale o regionale45. Diversi sono i contributi che hanno analizzato i procedimenti nel Piemonte, in Lombardia, alcune zone del Veneto e dell’Emilia; più esigui invece quelli relativi all’Italia centro-meridionale, o più in generale alle località provinciali più piccole.
Se si considerano i dati tra la Cas di Torino e quella milanese è possibile osservare un numero estremamente alto di procedimenti e di altrettante condanne. Nel primo caso, sono 564 le sentenze nei confronti dei collaborazionisti, per un totale di 993 imputati e 54 condanne a morte46; mentre nel secondo caso si hanno 884 sentenze per un totale di 1.225 imputati di cui le pene capitali ammontano a 25 unità47. Già da questo primo confronto si osserva un’attività più intensa a Milano, nonostante le condanne più gravi siano state pronunciate a Torino. Altrettanto intesa è l’attività presso la Cas di Genova, la quale ha pronunciato 301 sentenze delle quali 25 di condanna a morte48. Mentre, rimanendo ancora al Nord, emblematica è l’esperienza della Cas di Trento: qui figura una sola condanna a morte (poi mai eseguita) su un totale di 77 procedimenti aperti su 120 persone a processo49.
Questi sono solo alcuni esempi riguardo l’attività delle Cas in diversi territori in cui l’applicazione delle condanne a morte – esclusa Roma – è stata significativa nei giudizi emessi dai giudici popolari. Nondimeno, una analisi più attenta imporrebbe di ricercare le motivazioni alla base di giudizi così severi da parte dei giurati, così come chiarire il numero effettivo di condanne eseguite. Questo tipo di indagine, però, necessariamente si intreccia con un altro aspetto estremamente significativo al tema di questo scritto, ossia l’analisi dei giudizi nel lungo periodo.

4. I tempi della giustizia di transizione
Un aspetto tipico dei procedimenti svolti dinnanzi le Cas è la loro estrema brevità. Secondo quanto stabilito dal decreto n. 142, infatti, a norma rispettivamente degli articoli 13 e 14 si specifica che: «I termini stabiliti dal Codice di procedura penale per la istruttoria ed il giudizio sono ridotti alla metà» e «Per i reati di competenza delle Corti straordinarie di Assise si procede con istruzione sommaria a cura degli uffici di pubblico ministero»50. Tali disposizioni mostrano chiaramente la volontà da parte del Governo di procedere in maniera spedita nel giudicare e sanzionare i reati di collaborazionismo. Una scelta, questa, che renderà ancora più evidenti i caratteri di una giustizia straordinaria tout court, dove al rigore del procedimento penale ordinario di antica tradizione liberale si sostituì – anche in maniera alquanto sommaria – una nuova procedura che sembrava aver lasciato da parte quella precedente tradizione, a favore invece di una giustizia più celere e di rivalsa, in grado di saziare le aspettative popolari relative alla punizione dei crimini fascisti.
Uno spaccato di questo ribollire di sentimenti viene proposto nelle colonne dei principali quotidiani dell’epoca. Le testate giornalistiche che seguono con grande attenzione i principali procedimenti, oltre che informare sull’avanzamento dei processi, forniscono un quadro assai completo sui sentimenti e gli stati d’animi vissuti da una popolazione frustrata da lunghi mesi di guerra civile e dilaniata dagli orrori della guerra.
Si prenda, a titolo d’esempio, il caso giudiziario Tartarotti, svoltosi a Bologna nel luglio del 1945. Renato Tartarotti era noto nella città felsinea per via dei suoi trascorsi, prima come fascista, poi quale aderente al fascismo repubblicano ed attivo all’interno della polizia federale. Nei mesi della Rsi, Tartarotti guida e conduce diverse stragi a danno soprattutto di partigiani e antifascisti, le cui sevizie saranno i capi di accusa che peseranno sulla sua testa dinnanzi alla Cas locale51. Il processo, che si svolse il 3 luglio 1945, condannò a morte l’imputato mediante fucilazione. Dalle pagine del “Corriere dell’Emilia”, il quale dedica ampia attenzione al processo Tartarotti, si può constatare il ruolo esercitato dall’opinione pubblica assiepata nei locali dell’Assise e in Piazza Maggiore – allestita con un sistema di radiodiffusione che trasmetteva il dibattito per coloro che erano rimasti fuori dall’aula. Nell’edizione del 4 luglio 1945 si legge, riguardo all’ampia partecipazione popolare: «Ma non è l’eccitazione sadica di una folla morbosamente curiosa e avida di sensazioni forti: è un legittimo umano anelito di giustizia, lo stesso che suscita l’applauso incontenibile del pubblico semplice di un dramma popolare che si conclude col castigo del tiranno»52. Pertanto, il processo qui brevemente ricostruito mostra in maniera evidente i caratteri della giustizia di transizione presso le Cas. Tartarotti sarà giudicato dopo appena due udienze, nel corso delle quali saranno limitati all’estremo i diritti della difesa, al fine così di giungere ad una sentenza di condanna nel minor tempo possibile.
Tuttavia, ad essere resi sempre più celeri non saranno solo i dibattimenti, bensì anche le indagini d’istruttoria. A scarseggiare erano i membri della magistratura inquirente, spesso sostituiti dagli avvocati, e le indagini che venivano condotte non erano svolte nella maniera più attenta. Basti pensare al fatto che le funzioni di polizia giudiziaria erano svolte, soprattutto nei primi mesi successivi alla Liberazione, dagli stessi membri dei Cln locali53. Appare assai evidente che, anziché concentrarsi sulla qualità dei procedimenti, l’attenzione sia del mondo togato sia dell’opinione pubblica è rivolta alla quantità dei giudizi: laddove si processava un numero elevato di collaborazionisti, lì si aveva la percezione generale che giustizia fosse fatta.

5. Due tempi e due misure: lo specchio di una giustizia di transizione nella transizione
Uno sguardo più approfondito all’esperienza dei processi svolti dalle Cas conduce a considerare il rapporto tra la tipologia delle pene comminate e il lasso di tempo in cui esse sono state inflitte. Potrà sembrare paradossale che, dal 1945 al 1947, i giudici di tali organi giurisdizionali abbiano giudicato diversi imputati con metri di giudizio differenti riguardo agli stessi tipi di reato. Questo andamento, caratterizzato da una sua evoluzione interna, è frutto di due fattori: il primo ha a che fare con il progressivo scemare del sentimento resistenziale contestualmente all’allontanarsi dai mesi concitati della Liberazione; il secondo riguarda invece il cambiamento d’atteggiamento della giurisprudenza, in particolare quella di Cassazione, che a sua volta sembra essere maggiormente ‘clemente’ riguardo i casi di collaborazionismo, talvolta ribaltando il giudizio di primo grado, talvolta rinviando il caso ad altra Corte così da garantirsi un giudizio più equo54. Eppure, questi due fattori non furono gli unici ad influire sul giudizio riguardo ai collaborazionisti. È possibile intravedere anche un terzo fattore, di tipo politico. La crisi dei governi di unità nazionale, espressione dei partiti antifascisti, e l’avvicinarsi del referendum istituzionale del 2 giugno, avevano infatti spinto il dibattito politico verso un superamento – nelle forme di un vero e proprio oblio nazionale – dei processi verso i fascisti, aspirando ad una pacificazione generale del Paese55. Non a caso, dopo la caduta del governo Parri e l’avvento del primo gabinetto De Gasperi, si rileva in maniera assai evidente questo spostamento degli intenti politici relativamente alla punizione dei crimini di collaborazionismo56. Basti pensare che la nota amnistia Togliatti57, che risale proprio al giugno 1946, si inserisce a pieno titolo all’interno di questa cornice governativa; così come una disposizione precedente, la quale, già nell’ottobre del 1945 – dopo appena sei mesi di attività –aboliva le Cas sostituendole con le Sezione speciale di Corte di Assise58.
L’aspetto della temporalità circa i giudizi pronunciati dalle Cas rappresenta il punto più critico e allo stesso tempo più emblematico della giustizia di transizione in Italia. I fattori che determinarono questa asimmetria hanno necessariamente a che fare con il contesto politico-giudiziario venutosi a creare nei mesi successivi all’aprile 1945. Se per i primi sei mesi dall’istituzione di tali Corti si assiste ad una intensa attività d’indagine e di giudizio, tale quadro andò modificandosi già nei mesi successivi59. A cambiare non sono stati solo il numero degli imputati chiamati alla sbarra ma, soprattutto, la tipologia dei giudizi emessi, tanto più la severità delle pene. Come ha evidenziato Hans Woller la crisi dei giudizi presso le Cas andò manifestandosi sin dall’estate del ‘45:

Ma in agosto non solo era ormai troppo tardi per intervenire ma era anche inutile, dal momento che le stesse corti d’assise avevano già cominciato a mitigare la loro iniziale transigenza, e non senza motivo: nell’estate del 1945, infatti, la pressione dell’opinione pubblica antifascista si venne progressivamente allentando e l’influenza dei Cln andò progressivamente declinando60.

Una prima spiegazione del fenomeno ha strettamente a che fare con gli impulsi scatenatesi nei mesi successivi alla fine della Resistenza – tra l’estate e l’autunno 1945 – i quali avevano coinvolto in maniera progressiva un numero elevatissimo di persone, richiamando presso le aule di tribunale una folla variegata di soggetti in una attesa spasmodica – seppur si rivelerà presto effimera – nel vedere processati i collaboratori e i gerarchi del vecchio fascio o della Repubblica saloina. Tuttavia, non appena i territori liberati passarono, prima sotto il controllo alleato poi al Governo italiano, l’azione cardine esercitata dai Cln andò svanendo per effetto delle decisioni prese dal potere politico, il quale vedeva in tali organi una minaccia per l’ordine interno e ne richiedeva, pertanto, l’immediata smobilitazione61. Sul tema del tradimento della Resistenza si deve considerare un articolo pubblicato nel 1947 dal quotidiano “La Voce”, in occasione del primo congresso della Resistenza italiana, dal titolo Gli ideali della Liberazione verranno realizzati contro chi li ha dimenticati e traditi. Nelle colonne del quotidiano si legge: «i partigiani, tornati alla vita civile, sono stati tenuti lontani dai gangli vitali della Nazione e si è impedito allo spirito della Resistenza di permeare di sé la vita politica e di darle un nuovo slancio democratico e sociale; i caratteri ideali della Resistenza sono minacciati e la minaccia di rinascita fascista grava sul paese»62. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’esautorazione dei Cln si ebbe anche relativamente alla procedura di nomina dei giurati nelle Cas. Infatti, il d.lg.lgt. 12 aprile 1946, n. 20163, prevede che siano nominati giurati tutti i cittadini ricompresi in apposite liste provinciali, senza più alcuna decisione da parte dei comitati della Resistenza.
Un altro dato significativo riguardo alla crisi delle sanzioni contro il fascismo è rappresentato dalla graduale diminuzione del numero di denunce e accuse da parte di cittadini e cittadine, rispetto alle primissime settimane di attività delle Cas, le cui procure erano stracolme. Col passare dei mesi, un senso di pacificazione sembra spirare lungo la Penisola – seppur ancora caratterizzata da forme di violenza residuale – distogliendo così l’attenzione della società dai fatti giudiziari, per provvedere invece ai problemi concreti della ricostruzione postbellica.
Ma non solo, come ha messo in luce Laura Bordoni, le mancate punizioni esemplari dei crimini fascisti sono determinate da fattori endogeni ed esogeni delle Cas – come la lacunosità della legislazione, suscettibile di interpretazioni, la volontà dei giudici di non volere divenire arbitri di una giustizia politica e la difficoltà di ricostruire, da parte dei pubblici ministeri, le prove di colpevolezza – che, se sommati insieme, danno il senso di un fallimento generale, sicché nell’immaginario pubblico esso si tramutò tragicamente in una giustizia mancata. Scrive Bordoni a proposito:

La mancata epurazione, l’estrema povertà umana e materiale, le fragilità della legislazione predisposta nei confronti del fascismo, concorrendo tutte insieme a rendere più difficile il lavoro delle CAS, ebbero come tragica conseguenza quella di generare nella popolazione un diffuso e pericoloso sentimento di sfiducia rispetto alla possibilità che i crimini commessi durante la guerra civile e anche prima, nel corso del Ventennio, venissero effettivamente puniti64.

Il cambiamento di rotta assunto dai giudici, sempre più essenziali nell’addure i giudizi nelle Corti65, è estremamente evidente confrontando i dati statistici relativi all’attività e alle condanne emesse dalle Sezioni speciali a partire dai primi mesi del 1946. Secondo la ricostruzione fornita da Andrea Martini si assiste ad un calo drastico del numero di condanne e delle pene più elevate. I dati mostrano un atteggiamento più benevolo verso gli imputati dinnanzi alle Sezioni speciali rispetto invece alla prima ora delle Cas: «se nei primi mesi di attività le pene di morte pronunciate furono 195, ora ne furono comminate 84», così che – prosegue sempre Martini – «le pene capitali passarono dal costituire il 13,5% delle sanzioni complessive al 4,2% del totale». Anche le pene detentive pari a 30 anni ricalcano lo stesso trend: «se quelle comminate durante il primo periodo erano state 110, nel secondo furono 83. In termini percentuali, le condanne a trent’anni di carcere calarono dal 7,6% al 4,6%, mentre si registrò un aumento significativo delle condanne inferiori a 5 anni di reclusione»66.
Dietro queste motivazioni prettamente sociali – intese nella partecipazione diretta del popolo nell’amministrazione della giustizia sia nella veste di giudici popolari sia nella partecipazione attiva come pubblico durante i dibattimenti – si cela, in ogni caso, anche l’esito dell’azione giudiziaria: la quale darà prova di non essere completamente all’altezza di portare a termine il proprio ruolo di attore per l’epurazione. Dunque, l’amara conclusione sull’avanzamento dei processi è che esso fu determinato da fattori eterogenei: sicuramente la farraginosità della legislazione; ma, ad incidere per la maggiore, sarà l’interpretazione giuridica della stessa proposta dalla Corte di Cassazione.
Riguardo al secondo punto, è diffusamente biasimato il comportamento assunto dalla Suprema Corte: lasciando il segno di una mancata giustizia sui collaborazionisti, i quali sono graziati in appello oppure, a partire dal giugno 1946, amnistiati con grande facilità. Basti pensare all’interpretazione estremamente estensiva dei termini contenuti nella legge d’amnistia garantita dagli ermellini riguardo ad esempio alla definizione giuridica del concetto di «sevizie particolarmente efferate»67.
Infine, un elemento critico ha strettamente a che fare con la composizione stessa della Cassazione, popolata da ‘giudici conservatori’ (ossia da carrieristi del ventennio) e, pertanto, ampiamente compromessi per il fatto di essersi piegati, al fine di arrivare a tale grado della gerarchia, alle richieste espresse dal regime. Secondo la conclusione di Giovanni Focardi, si trattava di una magistratura che «fingeva di essere diventata democratica e che, nella realtà, restò assai autoritaria, classista, ed estranea ai valori che i politici avrebbero voluto caratterizzassero la nuova Italia»68.

6. Note a margine. Quello che è rimasto sospeso
Pertanto, il quadro che si è presentato pone – e gli studi in materia sono ancora molto giovani – una serie di criticità da discernere attraverso un metodo che, sebbene avendo chiaro l’aspetto prettamente sociale, si focalizzi sul procedimento giudiziario, facendo delle Corti d’Assise Straordinarie, intese nel loro complesso organico ed amministrativo, il luogo privilegiato per ricostruire le fasi più drammatiche che seguirono la Liberazione fino a giungere ai primi anni della neonata Repubblica. Nondimeno, questa linea di ricerca impone una riflessione più ampia rispetto al solo studio della legislazione sui collaborazionisti e sull’attività concreta di detti organi giurisdizionali straordinari. Piuttosto, ciò che è necessario ricercare sono i protagonisti con il loro bagaglio di storie personali – spesso vittime dell’oblio pubblico – che presso le Cas furono chiamati a rispondere direttamente, spesso toccando la sfera dell’intimità personale, sulle scelte compiute nel ventennio precedente69. In altre parole, l’auspicio per ricerche future è che si vada necessariamente a riaprire i cassetti della memoria collettiva che, nel contesto nazionale italiano, appare ancora estremamente divisa e contraddistinta da una forte divisione ideologica. Per cui la ricostruzione storica, politica, giudiziaria e sociale diviene così l’unica soluzione realmente percorribile al fine di andare a sanare o, per meglio dire, ricostruire i difficili momenti che videro gli italiani contrapporsi in una lotta senza campo sia in sede giudiziaria sia in quella extragiudiziaria70.

Note

  1. Uno studio particolarmente interessante e ricco di fonti inedite riguardo gli ultimi giorni del regime di Mussolini è il saggio di Paolo Cacace, Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio, Bologna, Il Mulino, 2021.
  2. Nella sterminata produzione di studi sulla Resistenza italiana mi pare opportuno citare due testi di rifermento: il primo è il lavori magistrale di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; altrettanto significativo è lo studi proposto da Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004.
  3. Massimo Salvadori, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016, Torino, Einaudi, 2018.
  4. Sull’occupazione militare tedesca dell’Italia centro-settentrionale si consideri il saggio di Enzo Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945, Milano, Lerici Editori, 1963.
  5. Riguardo gli studi sulla violenza politica si veda il contributo di Enzo Traverso, A ferro e fuco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
  6. Sulla giustizia di transizione la storiografia più recente ha mostrato un progressivo interesse, a titolo d’esempio si vedano i seguenti saggi: Andrea Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Roma, Viella, 2019; Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Bologna, Il Mulino, 2008.
  7. Riguardo al dibattito interno sulle sanzioni contro il fascismo del Clnai si veda il testo di Gaetano Grassi (a cura di), Verso il governo del popolo. Atti e documenti del CLNAI (1943-1946), Milano, Feltrinelli, 1977; e il capitolo La giustizia della Resistenza in Andrea Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Roma, Viella, 2019, pp. 41-75. Anche nel saggio canonico di Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 1997, sono riportati diversi riferimenti anche con alcuni esempi a livello locale.
  8. Per quanto attiene al dibattito in dottrina l’opera di riferimento è sicuramente quella di Achille Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza, in A. Battaglia e al., Dieci anni dopo 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1955, pp. 317-408. Altrettanto di rilievo è il contributo di Giuliano Vassalli e Giuseppe Sabbatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Diritto materiale, diritto processuale, testi legislativi, Roma, Edizioni La Giustizia penale, 1947, pp. 8-29.
  9. C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in David Bidussa (a cura di), Gli uomini e la storia. Partecipazione e disinteresse nella storia d’Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, p. 107 (ed. or. La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Enzo Piscitelli e altri, Torino, Giappichelli, 1974, pp. 139-289).
  10. Dllgt. 27 luglio 1944, n. 159, Sanzioni contro il fascismo, in «Gazzetta ufficiale», serie speciale, 29 luglio 1944, n. 41.
  11. Si veda l’art. 2, dllgt. 27 luglio 1944, n. 159.
  12. Come illustrato da Toni Rovatti, infatti, «l’interpretazione letterale della norma, espressa erroneamente in forma cumulativa, impone infatti la compresenza di tutte le azioni criminose menzionate in ogni singolo imputato. Di fatto una pluralità e complessità della figura di reato concretamente individuabile in circostanze estremamente limitate», vd. T. Rovatti, Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia. La definizione per legge di un immaginario normalizzatore, in «Italia contemporanea», marzo 2009, n. 254, pp. 75-84, qui rif. p. 78.
  13. C. Pavone, La continuità dello Stato, cit., p. 114.
  14. Si veda l’art. 3, dllgt. 27 luglio 1944, n. 159.
  15. Cfr. H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 200.
  16. Si veda l’art. 4, dllgt. 27 luglio 1944, n. 159: «I delitti preveduti dall’articolo precedente sono giudicati, a seconda della rispettiva competenza, dalle Corti d’assise, dai Tribunali e dai Pretori. Le Corti d’assise sono costituite dai due magistrati, previsti dal Testo unico delle disposizioni legislative sull’ordinamento delle Corti di assise, e da cinque giudici popolari estratti a sorte da appositi elenchi di cittadini di condotta morale e politica illibata».
  17. Sulle vicende del processo Caruso una fonte interessante è il resoconto del dibattimento processuale raccolto da Zara Algardi in Il processo Caruso. Resoconto stenografico integrale. Documenti inediti, Roma, Darsena, 1945; così come il saggio di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999. Inevitabilmente il processo Caruso si intreccia con il linciaggio nei confronti di Donato Carretta avvenuto all’interno della fase processuale in Alta Corte di giustizia; sull’episodio si ricorda Gabriele Ranzato, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944, Milano, Il Saggiatore, 1997.
  18. Tra le agitazioni dei mesi tra il marzo e l’aprile 1945 degna di nota sarà la manifestazione a Roma organizzata dalle forze di Sinistra e scaturita dalla fuga di Mario Roatta, quest’ultimo in attesa di essere giudicato presso l’Alta Corte di giustizia. Degli eventi drammatici del 6 marzo, che portarono all’occupazione anche del palazzo del Viminale, si veda la ricostruzione di H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 308-310.
    Mentre riguardo le violenze e le esecuzioni sommarie nei territori sotto il controllo provvisorio dei Cln si veda il testo di M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 91-132.
  19. Dllgt. 22 aprile 1945, n. 142, Istituzione di Corti straordinarie di Assise per reati di collaborazione con i tedeschi, in Supplemento alla «Gazzetta Ufficiale», 24 aprile 1945, n. 49.
  20. Si veda l’art. 1, dllgt. 22 aprile 1945, n. 142.
  21. Riguardo le competenze territoriali delle Cas e la loro composizione si vedano rispettivamente gli artt. 3, 4, 6, dllgt. 22 aprile 1945, n. 142.
  22. Si veda l’art. 5, dllgt. 22 aprile 1945, n. 142.
  23. A. Martini, Dopo Mussolini, cit., p. 130. Bisogna segnalare che la storiografia italiana non si è mai interessata alla figura del giurato popolare, tant’è che gli studi in materia sono pressoché inesistenti, salvo qualche considerazione generale come quella riportata dallo stesso Autore. Considerando il fatto che riguardo le Cas si è ampiamente analizzata l’organizzazione interna, in particolare il ruolo svolto dai giudici e dai pubblici ministeri, appare doveroso avviare una riflessione più attenta anche nei confronti di queste figure, il cui ruolo non è affatto secondario.
  24. Si veda l’art. 10, dllgt. 22 aprile 1945, n. 142.
  25. Come afferma Antonella Meniconi l’attività giudiziaria era estremamente difficile: «Negli uffici giudiziari il clima era infatti reso difficile dalle condizioni materiali ed economiche in cui veniva amministrata la giustizia: affollamento delle cause civili e penali, diminuzione del numero dei magistrati, dovuto al blocco dei concorsi, stipendi falcidiati dalla inflazione post-bellica. L’organico effettivo presentava, in effetti, gravi carenze (mancavano oltre 1.000 magistrati sui 4.967 previsti)», A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 263-264.
  26. Tra i contributi principali, oltre il saggio generale offerto da Meniconi, si vedano gli studi offerti da Giovanni Focardi: id., Sotto la toga con la camicia nera? Presidenti ordinari per una giustizia straordinaria, in Cecilia Nubola, Paolo Pezzino, Toni Rovatti (a cura di), Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 71-96; id., Arbitri di una giustizia politica. I magistrati tra la dittatura fascista e la Repubblica democratica, in Nei tribunali, cit., pp. 91-134. Di rilievo anche i contributi proposti da Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi, Guido Neppi Modona, Silvana Testori (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11-40. Una menzione va fatta anche riguardo i primi studi in materia compiuti da Pietro Saraceno, il quale favorì l’aprirsi di un dibattito più ampio riguardo la magistratura negli anni di transizione; si veda, ad esempio, P. Saraceno, I magistrati italiani tra fascismo e repubblica. Brevi considerazioni su un’epurazione necessaria ma impossibile, in «Clio», 1 (1999), pp. 74 ss. (ora riedito in A. Meniconi, G. Neppi Modona (a cura di), L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2022, pp. 29-64).
  27. Tuttavia, questo discorso non può essere assoluto e generalizzato, in quanto furono diversi i magistrati che scesero a patti, si per ragioni personali sia professionali, con il regime. Plurimi sono gli studi in senso prosopografici sulle personalità più compromesse: coloro che parteciparono attivamente presso il Tribunale Speciale o ai vertici della Cassazione. Si veda il contributo offerto da Mario Sbriccoli, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli anni del fascismo, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», Milano, Giuffrè, 28 (1999), pp. 817-850.
  28. Come rileva Neppi Modona in merito all’epurazione interna alla magistratura: «In astratto l’apporto dei magistrati era ineccepibile: grazie alla loro preparazione e formazione tecnico-giuridica avrebbero potuto assicurare equilibrio, coerenza e omogeneità di giudizio. Ma condizione essenziale e prioritaria perché potessero assolvere adeguatamente al compito di epuratori, sia sul terreno amministrativo, sia su quello penale delle sanzioni contro il fascismo e contro i collaborazionisti della Repubblica di Salò, era evidentemente la preventiva defascistizzazione della magistratura, quantomeno degli alti gradi che sarebbero stati chiamati a presiedere o a fare parte delle varie commissioni per l’epurazione»; vd. G. Neppi Modona, La magistratura italiana tra fascismo e Repubblica: l’epurazione mancata (1940-1948), in Marco De Nicolò, Enzo Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Roma, Viella, 2019, p. 45.
  29. Cfr. G. Focardi, Arbitri di una giustizia politica, cit., pp. 117-123.
  30. Riguardo la partecipazione e il ruolo svolto dal pubblico nelle aule delle Cas si veda il capitolo I cronisti e il pubblico nelle aule dei tribunali in M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 49-56.
  31. L’aspetto emozionale che avvolge i processi della giustizia riparativa è stato ampiamente indagato da J. Elster in Chiudere i conti, cit., pp. 301-338.
  32. Espressione utilizzata da Mark J. Osiel, Politica della punizione, memoria collettiva e diritto internazionale, in Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, Napoli, Ancora del Mediterraneo, 2005, pp. 106-119. L’espressione fu poi ripresa anche da Andrea Martini parlando di «teatro pedagogico» per indicare il carattere delle udienze presso le Cas, per il fatto che – prosegue l’Autore – «nel corso di una transizione i procedimenti giudiziari debbano caricarsi di una dimensione palingenetica e pedagogica. In altri termini, le aule fi giustizia rappresenterebbero il luogo in cui la comunità ricompone lo status quo o apre “nuovi scenari”», vd. A. Martini, Dopo Mussolini, cit., p. 141.
  33. Come afferma da Toni Rovatti infatti «La giustizia legale è, infatti, nell’Italia del 1945, una forma di rieducazione pedagogica della società a forme di governo istituzionali, che gradualmente sottrae il monopolio della violenza ai privati per riconsegnarlo allo Stato legittimo (rappresentato dal nuovo governo democratico), attraverso la drammatizzazione pubblica all’interno dei tribunali del giudizio e della punizione dei responsabili degli eventi di guerra più atroci: ferite ancora fresche indelebilmente impresse nella memoria locale rispetto alla quale la società civile reclama urgentemente “soddisfazione”, sia quest’ultima rappresentata dal riconoscimento ufficiale o dalla rivalsa privata», vd. T. Rovatti, Politiche giudiziarie per la punizione dei delitti fascisti in Italia. La definizione per legge di un immaginario normalizzatore, in “Italia Contemporanea”, n. 254 (2009), pp. 75-84, qui p. 83.
  34. In alcuni casi si tratta di veri e propri atti di violenza a scapito di imputati, avvocati, giudici, si veda ad esempio A. Martini, Giustizia di transizione. Il processo al Battaglione Muti, in “Contemporanea”, 2 (2017), pp. 213-238.
  35. Arturo Carlo Jemolo, Le sanzioni contro il fascismo e la legalità, in “Il Ponte”, vol. 1, n. 4 (1945), pp. 277-286.
  36. Si veda il confronto tra il giudizio sulle sanzioni contro il fascismo espresse rispettivamente da Piero Calamandrei sulle colonne di “Italia libera” nell’agosto del 1944 e la risposta mossagli da Arturo Carlo Jemolo su “Il Ponte” nell’articolo del 1945 dal titolo Le sanzioni contro il fascismo e la legalità.
  37. G. Vassalli, Collaborazionismo, in “Enciclopedia Italiana”, appendice II, Roma, 1948, p. 648.
  38. Cfr. CPMG: art. 51 Aiuto al nemico; art. 54 Intelligenze o corrispondenza con il nemico; art. 55 Agevolazione colposa; art. 56 Comunicazione illecita con il nemico; art. 58 Aiuto al nemico nei suoi disegni politici
  39. Si veda l’art. 5, dllgt. 27 luglio 1944, n. 159 (corsivo mio).
  40. Marina Giannetto, Defascistizzazione: legislazione e prassi della liquidazione del sistema fascista e dei suoi responsabili, in “Ventunesimo Secolo”, vol. 2, n. 4 (2003), pp. 53-90, qui p. 53.
  41. Ibidem.
  42. Riguardo la flessibilità del Codice penale militare, Dondi afferma che «l’impiego della legislazione di guerra si dimostra utile per coprire il maggior numero di casi, pur venendo graduato con pene ancora più clementi di quelle previste dalla legislazione ordinaria e dal Codice militare di pace», vd. M. Dondi, La lunga liberazione, cit., p. 36.
  43. Di straordinaria importanza è la banca dati relativa ai procedimento presso le Corti d’Assise Straordinarie che, attraverso la compilazione di diversi metadati, permette una ricerca sugli imputati, i procedimenti e i fatti contesti. Tale database rientra nel progetto, curato dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia.
  44. Cfr. H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 80-169.
  45. Mi riferisco in particolare al saggio curato da Cecilia Nubola, Paolo Pezzino e Toni Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, cit., il quale, grazie anche al contributo di diversi ricercatori in materia, ha il pregio di fornire una ricostruzione sull’attività di questi organi sia in termini statistici sia dal punto di vista della qualità dei giudizi.
  46. Riguardo i dati sull’attività delle Cas piemontesi si veda L. Bernardi, G. Neppi Modona, S. Testori (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, cit.
  47. Leonardo Pompeo D’Alessandro, Per uno studio delle sentenze della Corte d’assise straordinaria di Milano, in Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia, cit., p. 32.
  48. Maria Elisabetta Tonizzi, Chiara Dogliotti, La Corte d’assise straordinaria di Genova e Chiavari (1945-1948). Il contesto e l’attività giudiziaria, in ivi., pp. 177-207.
  49. Lorenzo Gardumi, La Corte d’assise straordinaria di Trento (1945-1947). Giudicare il collaborazionismo in un’ex “provincia” del Reich, in ivi., pp. 277-301.
  50. Si veda l’artt. 13 e 14, dllgt. 22 aprile 1945, n. 142.
  51. Per una ricostruzione della vita e del processo di Renato Tartarotti si veda: Vita, crimini, condanna del famigerato ‘capitano’ Tartarotti: fotocronaca completa del processo Tartarotti, Bologna, STEB edizioni, 1945; per quanto riguarda le fonti archivistiche si veda AS Bologna, Corte d’Appello penale, CAS Bologna, sentenze 1945, n. 27 del 4/07/1945.
  52. “Corriere dell’Emilia”, 4 luglio 1945.
  53. L’analisi proposta da Dondi sottolineò come «le inchieste si aprono con facilità, ma con altrettanta facilità possono venire archiviate», facendo prevalere «[…] le inchieste sui fascisti più noti all’opinione pubblica e le denunce meglio circostanziate che non richiedono un eccessivo impegno di tempo e di uomini per la raccolta delle prove». E ancora «l’impressione è che nei casi dubbi si preferisca l’archiviazione al supplemento d’inchiesta, alle volte soltanto per la semplice valutazione dei mezzi a disposizione», vd. M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 43-44.
  54. Riguardo il rovesciamento dei criteri di giudizio applicati dai giudici delle Cas e confermati dalla Cassazione si veda il commento in A. Battaglia, Giustizia e politica nella giurisprudenza, cit., pp. 346-357.
  55. Su questo punto si veda Mariuccia Salvati, Amnistia e amnesia nell’Italia del 1946, in Marcello Flores (a cura di), Storia, verità e giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, Bruno Mondatori, 2001.
  56. Come rilevò il magistrato azionista Alessandro Galante Garrone furono due i fattori che fecero tramontare le aspirazione a compiere una vera e propria epurazione generale: «primo, perché chi la voleva davvero non ebbe un adeguato consenso democratico; secondo, e soprattutto, perché premevano e agivano sempre di più, in senso contrario, gli Alleati e il governo centrale italiano. Per rifarmi a una immaginosa locuzione di quei giorni, il “vento del Nord” fu soverchiato dal “vento del Sud”, che spirava sempre più impetuoso. E già nel novembre del 1945 De Gasperi era succeduto a Parri», vd. A. Galante Garrone, Il mite giacobino. Conversazioni su libertà e democrazia raccolta da Paolo Borgna, Roma, Donzelli, 1994, p. 21.
  57. Cfr. Decreto Presidenziale 22 giugno 1946, n. 4, Amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari, in «Gazzetta Ufficiale» n. 137 del 23 giugno 1946. Riguardo l’amnistia Togliatti si veda l’approfondimento offerto da Mimmo Franzinelli, L’ Amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Feltrinelli, 2016; e Paolo Caroli, Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli, Edizione scientifiche italiane, 2020.
  58. Cfr. d.lgs.lgt. 5 ottobre 1945, n. 625, Modificazioni alle norme sulle sanzioni contro il fascismo, in «Gazzetta Ufficiale» Serie Generale n.123 del 13 ottobre 1945.
  59. Cfr. M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 47-48.
  60. H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 415.
  61. Sugli aspetti e le forme con cui si è realizzata la smobilitazione partigiana si veda il paragrafo La smobilitazione delle formazioni. Consegna delle armi e dei prigionieri in M. Dondi, Azioni di guerra e potere partigiano nel dopoliberazione, in “Italia Contemporanea”, n. 188 (1992), pp. 458-477, il paragrafo pp. 470-473.
  62. “La Voce. Quotidiano del Mezzogiorno d’Italia”, 5 dicembre 1947.
  63. Si veda l’art. 5 del d.lg.lgt. 12 aprile 1946, n. 201, in “Gazzetta Ufficiale”, n. 98 del 27 aprile 1946.
  64. Laura Bordoni, La resa di conti con la Repubblica Sociale Italiana. I processi delle CAS lombarde nel secondo dopoguerra, Roma, Viella, 2022, p. 133.
  65. Secondo il giudizio di Hans Woller – riprendendo alcuni studi di Guido Neppi Modona – il venire meno dei “giurati politici”, espressione dei Cln locali, favorì un emersione del ruolo esercitato da parte del giudice al momento della decisione della pena, vd. H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 415-416.
  66. A. Martini, Dopo Mussolini, cit., p. 254.
  67. Riguardo al problema di definire quando una pratica di tortura divenne un reato ascrivibile alla categoria di «sevizie particolarmente efferate» si veda il commento di M. Dondi, La lunga liberazione, cit., pp. 65-66; ed anche il capitolo La Corte di Cassazione all’opera in Romano Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo (1943-1948), Milano, Baldini & Castoldi, 1999, pp. 341-357.
  68. G. Focardi, Arbitri di una giustizia politica. I magistrati tra la dittatura fascista e la Repubblica democratica, in Nei tribunali, cit., p. 110.
  69. Un approccio simile è stato proposto nel saggio curato da Giovanni Focardi, Cecilia Nubola, Nei Tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016; il quale, considerando soggetti diversi (magistrati, avvocati e imputati), ricostruisce una storia più complessa circa il funzionamento della giustizia di transizione.
  70. Il tema dell’eredità storica coniugata ai concetti di memoria e oblio all’interno dei singoli contesti nazionali è stato al centro di diversi studi. Le ricerche di Traverso sono sicuramente le più note, in particolare si veda Enzo Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Einaudi, 2012. Degna di nota è anche l’eredità di Paul Ricœur in La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003; e di François Hartog, Regimi di storicità, Palermo, Sellerio, 2007. Più specificatamente riguardo l’eredità del ventennio fascista e l’esperienza del dopoguerra si vedano i seguenti contributi: Filippo Focardi (a cura di), La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattitto politico italiano dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005; id., Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013; Filippo Focardi, Bruno Groppo, L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Roma, Viella, 2013; Gabriella Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, Roma, Viella, 2020.

tag: , , , ,

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2022 Federico Ricci