Bibliomanie

Per l’Esteta Armato di Maurizio Serra
di , numero 39, maggio/agosto 2015, Saggi e Studi,

Per l’<em>Esteta Armato </em> di Maurizio Serra
Come citare questo articolo:
Stefano Chemelli, Per l’Esteta Armato di Maurizio Serra, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 7, maggio/agosto 2015

Non capita sovente che sia un editore trentino, pur prestigioso e apprezzato dal Canada al Giappone, a pubblicare in Italia l’editio princeps di un testo superbo di storia della cultura europea, che – inter alia – il 10 settembre prossimo prenderà anche la strada delle librerie francesi, attraverso l’onorata ospitalità delle Éditions du Seuil, da sempre insigni quanto esigenti.
Eppure ciò avviene per L’esteta armato, il poeta-condottiero nell’Europa degli anni Trenta, approdato finalmente in edizione ne varietur per La Finestra Editrice di Lavis (Une génération perdue. Les poètes guerriers dans l’Europe des années 1930, nella versione transalpina).
D’altra parte, non accade frequentemente d’incrociare un autore come Maurizio Serra (1955-), biografo, storico della cultura e delle idee, nonché diplomatico di fama internazionale (è rappresentante permanente del nostro Paese alle Nazioni Unite, presso le Organizzazioni Internazionali di Ginevra). Già stimatissimo per studi affatto originali sopra Curzio Malaparte, la Francia di Vichy, Italo Svevo e diverse altre figure e problematiche centrali del Novecento, egli ha dato forse il meglio di sé ne I fratelli separati – uno studio “binario” sulla triade Aragon, Drieu, Malraux.
Quanto al volume in discorso, ci troviamo dinanzi a un saggio di 382 pagine, che intesse dalla decade degli anni Trenta del ’900 una mobilissima, accattivante rete di rapporti fra generazioni e individui colpiti nel pieno delle loro contraddizioni, tra letteratura, arte, engagement politico e altro. È un formidabile e, non di rado, imprevedibile gioco di triangolazioni, capace di sondare con magistrale scandaglio fonti (europee e non) di prima mano, illustrando il dialogo continuo fra voci dissonanti e amiche di forte, talora inaudita intensità.
Ecco perché il lettore vivrà quasi a contatto con personalità di primo piano (Auden, Wyndham Lewis, Lauro de Bosis, Drieu La Rochelle, Malraux, Aragon, Lawrence, Gundolf, Larbaud, Du Bos, Ortega y Gasset, Guglielmo Ferrero, Ernst Robert Curtius, Stefan George, D’Annunzio, Montherlant, Klaus Mann, Osvald Mosley, Weinheber etc.), ma avrà altresì il privilegio non comune di conoscere altre frequentazioni dell’autore, che aprono orizzonti insperati, se non unici: René Gerhard Podbielski, Christian von Krockow, Sebastian Haffner, Wolf Jobst Siedler, Werner Sombart.
Sono intellettuali, gli “esteti armati”, che seguono un’interpretazione autentica del loro essere, al di sopra delle parti: sono spiriti fondamentalmente liberi ma, non per questo, privi di infinite debolezze e in grado di prevederle, seppur travolti dal temperamento mosso delle loro poetiche, dalle affinità essenziali e dal tumulto degli affetti. Nel passaggio insidioso delle generazioni, nei delicati tramandi fra padri e figli, fra il demone dell’assoluto e l’uomo della rinuncia, prende forma ed evolve il poderoso fantasma dell’ambiguità sussistente fra individualità accese e identificazioni collettive.
Sono esemplari gli “esteti armati”; basti por mente al nostro Lauro de Bosis (sua, non per combinazione, una delle quattro immagini che campeggeranno sulla copertina dell’edizione francese): «commistione – scrive Maurizio Serra – tra progetto politico e culto del bel gesto, che raggiunse allora notorietà internazionale, egli fu l’“Icaro antifascista”, che volò su Roma la sera del 3 settembre 1931, lanciando manifestini che incitavano il popolo alla rivolta, per poi scomparire al largo delle coste».
E aggiunge subito: «Il testamento di de Bosis, redatto alla vigilia del suo volo, non è lontano, sul piano della sensibilità, dalla meditazione dell’aviatore di Auden davanti alla propria ferita, solo che qui il senso di colpa investe un’intera generazione. Redatta in francese, pubblicata postuma in inglese sul “Times” e sul “New York Times” del 14 ottobre 1931, l’Histoire de ma mort, o The Story of my Death, fu poi raccolta in una bella edizione di Faber and Faber, illustrata da un ritratto dell’autore, tradotta e diffusa ovunque. È un documento che merita di figurare a pieno titolo nella storia civile come nella sensibilità di un’epoca».
Il nostro dottissimo ambasciatore italiano – invidiato, ironia della sorte, dai suoi colleghi perché scrittore zem>de race, e da questi ultimi perché impeccabile ambasciatore… – tratteggia altri profili memorabili (Richard Hillary, a esempio), distillando, fra il resto, citazioni elette: «Eravamo scettici e viziati, avidi ed egocentrici, diffidenti verso emozioni che sembravano buone per la massa come il patriottismo. Ma con la guerra potevamo dimostrare che, malgrado la nostra indisciplina, avremmo saputo tener testa alla gioventù hitleriana nutrita di dogmi», scandisce il coetaneo esatto di Giaime Pintor in The Last Enemy, un long seller steso poco prima del suo decesso affatto prematuro: aveva solo ventitré anni.
Sono figli della modernità, delle sue paure e dei suoi miti, gli “esteti armati”, di una rivolta dei sensi circolare che fugge da una decadenza apparentemente irreversibile anche ricercando figure femminili smaglianti, abbacinanti, fatali (Nancy Cunard, Diana e Unity Cooper, Frieda von Richtofen et aliae), nel dispiegarsi esteso e dilatato di un’incertezza collettiva; così, mentre inglesi e francesi intraprendono viaggi erotici, esotici, ideologici, spirituali e persino religiosi, italiani, tedeschi, centroeuropei, spagnoli – a metà degli anni Trenta – ambiscono alla fuga.
La guerra civile spagnola corrobora poi la figura del poeta-condottiero per quasi tre anni duri e feroci oltre il dire, magistralmente descritti – oggi ben si sa – in Homage to Catalonia da George Orwell: sono pagine che suonano versus le illusioni degli esteti armati.
Ma, accanto a quelle pagine egregie, non sfigurerebbero, con ogni probabilità, taluni scritti di Antonio Delfini o di Carlo Rosselli – come Serra ricorda con giusta ragione – e persino quelli di un grande, incomparabile dimenticato, Lorenzo Giusso: «Antonio Delfini è un marginale di lusso, un esteta armato-disarmato di ricca famiglia modenese e finissima sensibilità. Il suo congenito disimpegno politico fa storcere il naso degli ultraimpegnati amici Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, ma non al punto di rifiutare i soldi con cui finanzia le loro prime imprese editoriali. Dopo la guerra, Delfini firmerà il manifesto di un «partito comunista-conservatore» – accostamento meno bizzarro oggi di quanto apparisse allora… – e cercherà di dimostrare che la Certosa di Parma, descritta da Stendhal, è in realtà quella della sua città natale. Nessuno lo prenderà sul serio. Eppure Delfini ha pubblicato sin dal 1938 il miglior testo letterario italiano sulla guerra di Spagna, che rimane sullo sfondo, Il ricordo della Basca, racconto del casto idillio tra un sognatore di provincia e la figlia di un professore basco in esilio; scelta di evidente protesta morale, sullo sfondo del bombardamento di Guernica e dei massacri di Santander».
Ma lo sguardo di Serra è amplissimo già solo nel quarto capitolo, che tratteggia claris verbis con invidiabile rigore metodologico la definizione dei caratteri tipici dell’“esteta armato” per passare quindi ai suoi interpreti – non prima, però, di avere glossato il mirabile “esame di coscienza” di Emmanuel Berl, nonché il pacifismo integrale e davvero umanistico di Jean Giono, maturato proprio attraverso il filtro del dramma spagnolo.
Nella seconda parte di questa vera e propria sinfonia saggistica, rivivono Stefan George – è peraltro appena uscito in lingua italiana il magnifico ritratto di George vergato dal suo discepolo e, poi, eminente germanista Friedrich Gundolf, e a breve (sempre in italiano ma con, beninteso, l’originale a fronte) verrà data alle stampe per la prima volta tutta l’opera poetica di George –, Josef Weinheber, Erika e Klaus Mann in pagine bellissime, per aprire alle muse berlinesi cesellate sull’onda di una conoscenza diretta, senza dimenticare il Broch poetico del romanzo augusto-virgiliano e l’immane Tetralogia di Giuseppe di Thomas Mann.
Ma in questo autentico capolavoro insieme narrativo, descrittivo e argomentativo – steso da un homme de lettres italiano davvero cosmopolita che sembra, come qualcuno ha scritto a giusto titolo, dotato di energia, intelligenza e raffinatezza squisitamente rinascimentali – è forse nelle battute decisive consacrate a una figura proteiforme e ancor discussa come Henry de Montherlant che possiamo cogliere la prismatica, irriducibile, mefistofelica fluorescenza degli “esteti armati”: «il patrizio o perfetto romano, il samurai, il capitano di ventura, il torero, il voyager traqué, l’atleta, il soldato di Verdun, il poeta persiano, indù, bramino, il mandarino cinese, il condottiero rinascimentale, Don Giovanni, il templare… I nemici di Montherlant sono i nemici tradizionali dell’“esteta armato”, tutto ciò che di conformista e convenzionale, di contrario agli istinti, porta con sé la società adulta, il mondo cosiddetto reale: intellettuali impegnati, femministe e donne emancipate, politicanti, confessori, superiori, parenti, eredi. Il nemico è per eccellenza il civis, usurpatore della vera cittadinanza poetica..
«Tritt keinem Verein bei, dessen sämtliche Mitglieder du nicht aufrichtig Freund und Bruder nemmen kannst», ci ricorda da lontano il maggior poeta tedesco del Novecento e, con lui, uno dei più eminenti saggisti europei.

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