Bibliomanie

La parola della trascendenza
di , numero 40, settembre/dicembre 2015, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Denise Trocchi, La parola della trascendenza, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 40, no. 7, settembre/dicembre 2015

Premessa
Il problema va al di là dei limiti di quest’opera (Emmanuel Lévinas, Totalité et Infini).
La direzione di questo scritto si può cogliere a partire dalla struttura sintattica del suo titolo, “La parola della trascendenza”: il genitivo può leggersi come soggettivo o come oggettivo a seconda che rappresenti il soggetto o l’oggetto dell’azione implicata dal sostantivo “parola”, da cui il genitivo dipende.
In senso oggettivo, la parola della trascendenza è la parola che tenta di esprimere la trascendenza. Tentativo votato al fallimento, come testimoniano i versi di Giuseppe Ungaretti e Dante Alighieri.
In senso soggettivo, la parola della trascendenza è la parola pronunciata dalla trascendenza, fatta risuonare dall’oltre stesso. Questa Parola è l’Altro (Emmanuel Lévinas), è Cristo di carne e di sangue (San Giovanni evangelista), è “the unheard Word” (Thomas Stearns Eliot).
In un modo o nell’altro, la parola per gli autori citati è stato il termine di un rapporto personale e ha rivelato loro la possibilità della relazione più misteriosa di tutte: la relazione con la trascendenza.

Giuseppe Ungaretti

Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so – la poesia sola può recuperare l’uomo (Ragioni di una poesia)

Giuseppe Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio del 1888 e morto a Milano l’1 giugno 1970, amò e studiò con passione la parola. Trasferendo sulla carta il silenzioso deserto alle porte di Alessandria, il poeta diede vita alla parola isolata nel verso; una parola essenziale che tenta di comunicare il mistero umano e di elevare l’uomo alla luce per forza d’illuminazioni, cosicché anche per un istante egli possa scorgere un barlume di verità.
Sin dalla giovinezza, Ungaretti fu sedotto dalla parola di Mallarmé, pura e capace di esprimere l’indicibile, per poi venire irrimediabilmente attratto da Apollinaire e dalla magia delle sue poesie visive. Ma fu sul Carso che il fante Ungaretti scoprì davvero la fragilità dell’uomo e tentò di esprimere tutto questo con parole, immagini, similitudini, analogie non logorate dal peso della tradizione. Le poesie del Porto Sepolto nascono proprio dalla volontà di scavare con fatica dentro l’uomo, dentro il suo dolore. La poesia diventa così ricerca del valore segreto della parola che “dissangua” il corpo “dissanguato”.
Scrisse Ungaretti nel 1963: “Ecco, questa è in fondo l’ispirazione e il linguaggio di quella mia poesia [del Porto Sepolto], la nascita della mia poesia, la nascita, la prima conquista, la conquista del valore che può avere una semplice parola quando si arriva a colmarla di significato”. I “versicoli” del Porto Sepolto, divenuto sezione dell’Allegria, sono composti da parole in risalto, cercate con paura, fatica, sofferenza infernale. È in queste parole che si condensa l’attesa di una rivelazione dell’ignoto, del mistero.
Dall’Allegria:

Il porto sepolto
Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

Commiato
Locvizza il 2 ottobre 1916

Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso


La parola “riconduce, nella sua oscura origine e nella sua oscura portata, al mistero, lasciandolo tuttavia inconoscibile”, secondo quanto affermerà Ungaretti nel 1922 sulla “Ronda”. Il mistero c’è, è in noi, scrive l’autore, e con esso la misura non del mistero (“cosa umanamente insensata”), ma di qualche cosa che al mistero si opponga, “pure essendone per noi la manifestazione più alta”. La poesia, insomma. Da Poesie disperse:

Poesia
Sagrado il 28 novembre 1916

I giorni e le notti
suonano
in questi miei nervi
di arpa


vivo di questa gioia
malata di universo
e soffro
di non saperla
accendere
nelle mie
parole.


Col passare del tempo, il cuore di Ungaretti resterà sempre “sbigottito / di non sapere” il mistero dell’esistenza, e la ricerca del poeta continuerà, evolvendosi in nuove forme. Vissuta la stagione delle avanguardie e delle sperimentazioni, l’autore sentì la necessità di recuperare la poesia del passato: sono i cosiddetti “anni romani” (1919-1932), che vedranno nascere le poesie di Sentimento del Tempo. Ungaretti si volgerà qui al canto degli antichi, tentando di affrontare i grandi temi legati all’esistenza e all’inquieta e millenaria ricerca di un significato che la trascenda.
Come chiarisce Ungaretti in Ragioni di una poesia, ormai non si trattava più “d’intendere la misura come mezzo per chiarirsi il sentimento del mistero; ma di spalancare gli occhi spaventati davanti alla crisi d’un linguaggio, davanti all’invecchiamento d’una lingua, cioè al minacciato perire di una civiltà – si trattava di cercare ragioni di una possibile speranza nel cuore della storia stessa: di cercarle, cioè, nel valore della parola”. Il “poeta d’oggi”, secondo le parole di Ungaretti, ha provato e prova l’orrore e la verità della morte, ha imparato il valore dell’istante ed è “così effimero e teso il suo concentrarsi nell’attimo d’un oggetto che non saprebbe più immaginare misura”. L’avventura del poeta è stata allora di costringere l’eternità nell’attimo d’un oggetto. Solo così “l’oggetto s’è alzato dall’inferno all’infinito d’una certezza divina”. Ungaretti continua:

Ecco come dal poeta è colta oggi la parola, una parola in istato di crisi – ecco come con sé la fa soffrire, come ne prova l’intensità, come nel buio l’alza, ferita di luce. Ecco un primo perché la sua poesia sanguina, è come uno schianto di nervi e delle ossa che apra il volo a fiori di fuoco, a cruda lucidità che per vertigine faccia salire l’espressione all’infinito distacco del sogno.

E il tentativo del poeta sarà allora di connettere immagini lontane e “quando, dal contatto d’immagini, gli nascerà luce, ci sarà poesia, e tanto maggiore poesia, per quest’uomo che vuole salire dall’inferno a Dio, quanto maggiore sarà la distanza messa a contatto”. La “logica” in cui crede Ungaretti è “tanto più appassionante quanto più si presenti insolubilmente ricca d’incognite” e il suo secolo, così pieno di sofferenza, è un secolo di missione religiosa e “tale è sempre stata la missione della poesia”. Il “poeta d’oggi” vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile, ma “non cerca di violare il segreto dei cuori; egli sa che spetta solo a Dio leggere infallibilmente nell’abisso dei singoli”. La poesia vera “si presenta innanzitutto a noi nella sua segretezza”. Come si legge nella raccolta Il Dolore, “nel mistero delle proprie onde / Ogni terrena voce fa naufragio” (Il tempo è muto).
Il mistero inesauribile dell’uomo accompagnò Ungaretti in tutti i giorni della sua lunga vita, così come la fede nella parola. Fu questa parola scavata nel silenzio, circondata dal silenzio, a restituire fiducia al poeta lungo quei tratti di deserto privi di oasi, permettendogli di affrontare il dolore della perdita delle persone amate. Una parola riscoperta nella sua verità che è salvezza, luce e grazia.

Anche Thomas Stearns Eliot ebbe a che fare con il Mistero e si rassegnò a non poterlo dire, sancendo l’infinita distanza tra la parola umana e la Parola divina.

Thomas Stearns Eliot

No place of grace for those who avoid the face
No time to rejoice for those who walk among noise and deny the voice
(Ash Wednesday, 166-167)


Thomas Stearns Eliot nacque nel 1888 in Missouri e morì nel 1965 a Londra. Studiò alla Harvard University, alla Sorbona e al Merton College di Oxford. Nel 1922 Eliot pubblicò The Waste Land, capolavoro della poesia modernista e sua opera più celebre. Questo poemetto narra il sentimento di disillusione provato da Eliot nei confronti del mondo moderno ed è portavoce di quel nichilismo estremo che è tipico della prima produzione eliotiana. La civiltà occidentale non è altro che decadimento, sterilità, frammentazione, impossibilità della Fede:

What are the roots that clutch, what branches grow Out of this stony rubbish? Son of man, You cannot say, or guess, for you know only A heap of broken images […] (The Burial of the Dead, 8-11, The Waste Land; cfr. le parole di Dio a Ezechiele)

Sebbene alcuni critici reputino la poesia di Eliot una progressione “dalla spoglia mancanza di scopi di The Waste Land all’alto e intensamente focalizzato misticismo cristiano del suo ultimo più grande lavoro, Four Quartets” (Bruce Toien), non si può negare che in The Waste Land emerga un’intensa spiritualità. In un certo senso, la sete d’acqua esternata in The Waste Land prefigura la conversione di Eliot e simboleggia l’intima ricerca spirituale che muove il poeta.
Tra gli anni ’20 e ’30, Eliot trovò la via d’uscita dal nichilismo nella religione. L’autore accolse gradualmente la fede cristiana e nel 1927 fu ufficialmente accettato nella Chiesa Anglicana. La poesia post-conversione è in un certo senso la risposta del poeta a questa rivelazione personale: l’atto poetico in sé rappresenta proprio quel “movement up the stairway” descritto in Ash Wednesday e incarna il tentativo di Eliot di trovare nel deserto dell’esistenza una fonte a cui dissetarsi. La ricerca poetica di Eliot si fa così biblica, quasi profetica.
È proprio tramite i componimenti religiosi che il poeta tenta di rispondere alla Rivelazione, ma la sua risposta consiste in realtà nell’incapacità di formulare una vera, adeguata risposta. Il linguaggio poetico non è infatti all’altezza di un simile compito, perché le parole umane hanno completamente perso la capacità di elaborare una risposta adeguata alla Parola. E tale Parola – Parola della Rivelazione, Parola che è Dio – è solo apparentemente silenziosa: la realtà è che essa è sempre o inascoltata o fraintesa. Sono le parole umane a fallire, non la parola divina:

Still is the unspoken word, the Word unheard,
The Word without a word, the Word within
The world and for the world;
And the light shone in darkness and
Against the Word the unstilled world still whirled
About the centre of the silent Word.
(Ash Wednesday,151-156)


I Four Quartets, pubblicati nel 1943, recuperano e sviluppano l’incertezza già mostrata in Ash Wednesday. I quartetti possono essere letti in base al giudizio che Eliot diede di Dante: il vero obiettivo del poeta non consiste tanto nel persuadere il lettore della verità del messaggio cristiano, ma nel trasmettere tale messaggio al modo dantesco, cioè come l’esperienza personale che il cristianesimo effettivamente è.
Nei Quartets, i numerosi e oscuri simboli di cui il testo è costellato interagiscono per poi riallacciarsi nel nodo della Fede vissuta dall’autore. I toponimi che intitolano ogni quartetto sono, per esempio, immagini delle migrazioni vissute da Eliot – i passi lungo il cammino verso la luce. L’esperienza personale è infatti fondamentale, in quanto travalica i limiti della saggezza individuale: gli uomini vivono nel tempo, ma possono percepire il momento “fuori dal tempo” – l’eterno – come una subitanea inserzione della Trascendenza nella umana dimensione temporale. Questi momenti sono rivelazioni che l’uomo è incapace di definire: la Trascendenza è infatti essenzialmente indicibile.
Rilevanti considerazioni sulla parola si trovano all’inizio del quinto tempo di ogni quartetto, fatta eccezione per The Dry Salvages.
In Burnt Norton, ricco di citazioni dai Vangeli, la Parola nel deserto supplisce all’inadeguatezza delle parole umane. Il passaggio dalle parole alla Parola è fluido:

Words move, music moves
Only in time; but that which is only living
Can only die. Words, after speech, reach
Into the silence. Only by the form, the pattern,
Can words or music reach
The stillness, as a Chinese jar still
Moves perpetually in its stillness.
[…]
Words strain,
Crack and sometimes break, under the burden,
Under the tension, slip, slide, perish,
Decay with imprecision, will not stay in place,
Will not stay still. Shrieking voices
Scolding, mocking, or merely chattering,
Always assail them. The Word in the desert
Is most attacked by voices of temptation,
The crying shadow in the funeral dance,
The loud lament of the disconsolate chimera.
(Burnt Norton, V, Four Quartets)


In East Coker – che ad alcuni è parso influenzato dalle parole di John of the Cross – la conoscenza umana è ritenuta inadeguata a spiegare la realtà: chi attende solo a una comprensione scientifica e razionale vive in realtà nell’ignoranza. Ancora una volta, il poeta riflette sui limiti della parola, sulla sua incapacità di esprimere l’esperienza della Trascendenza:

That was a way of putting it—not very satisfactory
A periphrastic study in a worn-out poetical fashion,
Leaving one still with the intolerable wrestle
With words and meanings. The poetry does not matter
It was not (to start again) what one had expected.
What was to be the value of the long looked forward to,
Long hope for calm, the autumnal serenity
And the wisdom of age? Had they deceived us
Or deceived themselves, the quiet-voiced elders,
bequeathing us merely a receipt for deceit?
[…] There is, it seems to us,
At best, only a limited value
In the knowledge derived from experience.
The knowledge imposes a pattern, and falsifies,
For the pattern is new in every moment
And every moment is a new and shocking
Valuation of all we have been.
[…]
Do not let me hear
Of the wisdom of old men, but rather of their folly,
Their fear of fear and frenzy, their fear of possession,
Of belonging to another, or to others, or to God.
The only wisdom we can hope to acquire
Is the wisdom of humility: humility is endless.
(East Coker, II, Four Quartets)


Quel che realmente conta non è una risposta a livello intellettuale, perché “in order to arrive at what you do not know, / You must go by a way which is the way of ignorance” e “what you do not know is the only thing you know”. Anche il quinto tempo esordisce con il tema dell’inadeguatezza della parola poetica:

[…] one has only learnt to get the better of words
For the thing one no longer has to say, or the way in which
One is no longer disposed to say it. And so each venture
Is a new beginning, a raid on the inarticulate
With shabby equipment always deteriorating
In the general mess of imprecision of feeling,
Undisciplined squads of emotion. And what there is to conquer
By strength and submission, has already been discovered
Once or twice, or several times, by men whom one cannot hope
To emulate—but there is no competition—
There is only the fight to recover what has been lost
And found and lost again and again: and now, under conditions
That seem unpropitious. But perhaps neither gain nor loss.
For us, there is only the trying. The rest is not our business.
[…]
Old men ought to be explorers
Here and there does not matter
We must be still and still moving
Into another intensity
For a further union, a deeper communion
Through the dark cold and empty desolation,
The wave cry, the wind cry, the vast waters
Of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.
(East Coker, V, Four Quartets)


The Dry Salvages è incentrato su Speranza, Tempo e Incarnazione. Gli uomini cercano sempre delle astuzie per predire il futuro, ma questi stratagemmi altro non sono che inutili “pastimes and drugs, and features of the press”. Passato e futuro sono riconciliati solo nell’Incarnazione:

[…] But to apprehend
The point of intersection of the timeless
With time, is an occupation for the saint —
No occupation either, but something given
And taken, in a lifetime’s death in love,
Ardour and selflessness and self-surrender.
(The Dry Salvages, V, Four Quartets)


I temi sviluppati nei Quartets sono tutti sintetizzati in Little Gidding. L’uomo può rispondere alla Rivelazione solo inginocchiandosi “where prayer has been valid”: ciascun essere umano non può infatti “verify, / Instruct” o “inform curiosity / Or carry report” (Little Gidding, I, Four Quartets).
Il secondo tempo di Little Gidding inizia con un enigmatico incontro tra Eliot e un “dead master” che è “both intimate and unidentifiable”. In questa “intersection time / Of meeting nowhere”, Eliot prega il maestro di parlare, anche se lui potrebbe non comprendere o non ricordare. “These things have served their purpose” – risponde l’uomo – “last year’s words belong to last year’s language / And next year’s words await another voice”. Solo il fuoco raffinatore della Fede potrà dare sollievo a una vita di errori, solo la colomba dell’Amore che “breaks the air / With flame of incandescent terror / Of which the tongues declare / The one discharge from sin and error”.
Nel quinto tempo il poeta formula altre considerazioni sulla parola e sulla poesia. In quest’ultimo passo tutti i temi precedentemente trattati sono riconciliati nella Fede:

With the drawing of this Love and the voice of this
Calling
We shall not cease from exploration
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started
And know the place for the first time.
Through the unknown, unremembered gate
When the last of earth left to discover
Is that which was the beginning;
At the source of the longest river
The voice of the hidden waterfall
And the children in the apple-tree
Not known, because not looked for
But heard, half-heard, in the stillness
Between two waves of the sea.
Quick now, here, now, always—
A condition of complete simplicity
(Costing not less than everything)
And all shall be well and
All manner of thing shall be well
When the tongues of flame are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one.
(Little Gidding, V, Four Quartets)


È stato notato che, così come alcune delle fonti per The Waste Land furono l’Inferno e il Purgatorio di Dante, in quest’ultima produzione Eliot assume e rielabora idee tratte dal Paradiso dantesco. In entrambi i casi la salvezza si rivela per l’uomo un’ardua e faticosa conquista.

Dante Alighieri

Ond’io non so da qual matera prenda;
e vorrei dire, e non so ch’io mi dica:
così mi trovo in amorosa erranza!
(Tutti li miei penser parlan d’Amore, X, Vita Nova)


Il Sommo Poeta nacque a Firenze settecentocinquant’anni fa e spirò a Ravenna nel 1321, non prima d’aver composto quella Commedia che Boccaccio chiamerà “divina” e i cui versi cingeranno l’Alighieri del lauro della gloria sempiterna. Il sacro poema – terzine incatenate di versi endecasillabi – è suddiviso nelle tre cantiche di Inferno, Purgatorio e Paradiso.
Il problema del rapporto tra l’umana parola e la trascendenza emerge nella sua complessità proprio nell’ultima cantica della Commedia. È infatti nel corso della mistica ascesa al Paradiso al fianco di Beatrice che sono messe più duramente alla prova le capacità espressive del poeta, che nell’Empireo vede “cose che ridire / né sa né può chi di là su discende” (I, 5-6).
Gli inevitabili limiti della parola sono confessati sin dal primo canto, dov’è narrata l’ascensione del poeta al Cielo. Canta Dante che “transumanar significar per verba / non si porìa” (I, 70-71): l’innalzarsi oltre i limiti dell’umano non è cosa esprimibile tramite le parole umane, al punto che il poeta conia un neologismo (transumanar) quale estremo tentativo di suggerire al lettore l’esperienza della trascendenza.
Anche nel canto X il fiorentino dichiarerà l’inadeguatezza delle umane parole di fronte alla meraviglia delle anime nel cielo del Sole. Difatti, sebbene Dante si sforzi chiamando a rapporto “lo ‘ngegno e l’arte e l’uso” (X, 43), la parola dell’uomo resta impotente rispetto alla parola di Dio, che rimane “in infinito eccesso” (XIX, 45). Scrive a questo proposito Gianfranco Ravasi che la parola rivela due volti, quello della “carne”, del limite, della finitudine, e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania. Il Verbo – su cui l’universo si modella – non può che eccedere infinitamente il contenuto del mondo creato e l’orizzonte dell’intelligenza umana è limitato rispetto al consiglio di Dio. La logica divina è ben più alta e inattingibile (Natalino Sapegno) e il linguaggio umano non è d’origine divina. Quest’ultima tesi – relativa alla corruttibilità della parola umana – è in contrasto con quanto aveva sostenuto l’Alighieri nel De vulgari eloquentia. L’occasione per rettificare la passata convinzione è fornita dal dialogo tra Dante e Adamo: nel canto XXVI, Adamo spiega al fiorentino che il linguaggio umano non è incorruttibile ma destinato a modificarsi continuamente con un movimento tanto irrequieto quanto quello della “fronda / in ramo”.
La parola umana è dunque instabile, incapace di fissare l’inattingibile mistero divino, al punto che anche nel canto XXIII Dante riconosce – in preda all’excessus mentis – l’assoluta ineffabilità del fulgore dell’umanità gloriosa del Cristo risorto:

Io era come quei che si risente
di visione oblita e che s’ingegna
indarno di ridurlasi alla mente,
quand’io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che ‘l preterito rassegna.
Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnìa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verrìa, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto il facea mero;
e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
(Paradiso, XXIII, 49-63)


La penna “salterà” anche nel canto XXIV, quando la fantasia di Dante non saprà ridire il canto “tanto divo” dei beati, voce di indefinibile dolcezza. Ineffabile bellezza è anche quella che appare all’Alighieri nel canto XXX, dove di Beatrice si scrive che “se quanto infino a qui di lei si dice, / fosse conchiuso tutto in una loda, / poca sarebbe a fornir questa vice”. E ancora: “Da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo; / ché, come sole in viso che più trema, / così lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema”. Dire l’altissima bellezza di Beatrice è compito inadempibile, più di ogni punto trovato arduo da qualsiasi scrittore.
La parola poetica è tanto insufficiente che, salendo ancora nel Paradiso, Dante sarà costretto a invocar l’aiuto divino per poter proseguire nella narrazione: “O isplendor di Dio, per cu’io vidi / l’alto triunfo del regno verace, / dammi virtù a dir com’io il vidi!” (Canto XXX, 97-99). Solo così il racconto potrà proseguire sino all’ultimo canto, dove emerge prepotentemente il contrasto insanabile tra la maestà dell’oggetto della narrazione e l’amara consapevolezza dell’insufficienza a esprimerla delle parole umane. Un’impotenza che stimola Dante a fare sforzi sempre maggiori per dare anche solo un’impressione di questa realtà che trascende ogni figurazione sensibile. Dante si trova ad essere “qual è colui che somniando vede, / che dopo il sogno la passione impressa / rimane, e l’altro alla mente non riede”. “Così la neve al sol si disigilla; / così al vento nelle foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”, confessa Dante rievocando Virgilio. E supplica:

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, alla mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
(Paradiso, XXXIII, 67-75)


Dante – quasi novello Prometeo – chiede che anche una sola favilla dell’immenso fiammeggiare della luce di Dio possa essere espressa con le sue umane parole, cosicché gli uomini possano attingere anche solo in minima parte questo magnifico fuoco.
Ma d’allora in avanti la parola di Dante “sarà più corta” (106), più insufficiente d’un bambino “che bagni ancor la lingua alla mammella” (108). Sino a che il poeta non pronuncerà l’estrema ma appassionata confessione:

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’io vidi,
è tanto, che non basta a dicer “poco”.
(Paradiso, XXXIII, 121-123)


Quest’impossibilità di tematizzare l’Infinito che Dante sperimentò e cantò nella Commedia è stata al centro della riflessione di un filosofo vissuto settecento anni dopo l’Alighieri. Il suo nome è Emmanuel Lévinas.

Emmanuel Lévinas

Altri è ineffabile, ma è per questo che si parla a lui (Lo Scritto e l’Orale)

Emmanuel Lévinas nacque in Lituania nel 1905 e morì a Parigi nel 1995. Internato in un campo di concentramento nazista, vedrà la matrice della tragedia dei campi nel rifiuto dell’Altro che è proprio di gran parte della cultura dell’Occidente. Secondo Lévinas si tratta di uscire da quella totalità che soffoca ogni forma di alterità e trascendenza: tale distacco non avviene a livello teoretico, ma a livello etico e pratico tramite l’incontro con l’Altro. È proprio l’Altro a catapultarci con la sua irriducibile alterità oltre i confini della nostra soggettività autocentrica.
Secondo Lévinas il modo in cui l’Altro si presenta è il volto. Il volto è autosignificante, in quanto non è un segno che rinvia ad altro, ma una presenza viva che si auto-presenta. Inoltre il volto appare assolutamente trascendente e la trascendenza, per il suo porsi al di là d’ogni totalità immanente, rappresenta proprio la maniera con cui l’infinità dell’infinito ci viene incontro e si rivela come tale. Il volto “significa” dunque l’Infinito e si configura come la traccia o la presenza etica del vero Dio.
Il volto di cui parla Lévinas si dà originariamente come linguaggio e discorso. Esso mi coinvolge, mi mette in discussione, mi rende responsabile nei suoi riguardi. L’apertura all’Altro è appunto “l’altrimenti che essere”, l’autrement qu’être, cioé il trascendimento dell’essere egoistico e conflittuale in direzione dell’alterità e della fraternità. Questa distinzione fa sì che il discorso tenda a strutturarsi su due piani: il piano del Detto, cioè dell’essere, e il piano del Dire, ossia dell’altrimenti che essere.
La distinzione tra Dire e Detto è enunciata proprio in Autrement qu’être, ou au-delà de l’essence, che Lévinas pubblicò nel 1974. Il Dire è anteriore ai segni verbali che coniuga, ai sistemi linguistici e ai riflessi semantici: il Dire è la prossimità dell’uno all’altro, “la significanza stessa della significazione”. L’essenza riempie il Detto del Dire, ma il Dire in forza dell’enigma di cui detiene il segreto sfugge all’épos dell’essenza che lo ingloba, e significa al di là, essendo al di qua dell’anfibologia dell’essere e dell’ente.
Il Dire “eccede l’essere stesso che tematizza per annunciarlo ad Altri”. Il Dire originale o preoriginale, il discorso della prefazione, annoda un intrico di responsabilità e si muta in un linguaggio in cui Dire e Detto sono correlativi l’uno dell’altro e dove il Dire si sottomette al suo tema. Questa subordinazione del Dire al Detto, al sistema linguistico e all’ontologia è il prezzo che esige la manifestazione – chiarisce l’autore. Nel linguaggio come Detto, anche se a costo di un tradimento, tutto si traduce davanti a noi. Il linguaggio è “ancillare” e perciò indispensabile, perché permette di dire l’al di fuori dell’essere “pur tradendolo”. L’αποφάνσις suppone dunque il linguaggio, che risponde come responsabilità, e la gravità di questa risposta “non si misura sulla base dell’essere”. La responsabilità per Altri è una “passività più passiva di ogni passività”, è “esposizione senza riserbo”, è espressione e Dire. Non è il Dire che si accontenta della chiacchiera, che “si nasconde e si protegge nel Detto”, ma è il Dire che “si scopre, si spoglia della propria pelle, sensibilità a fior di pelle, a fior di nervi, che si offre fino alla sofferenza: così ogni segno significa”. La significanza del Dire va evidentemente al di là del Detto, dell’essenza raccolta nel Detto che potrà giustificare l’esposizione dell’essere o l’ontologia.
Precisa Lévinas che “la responsabilità per altri è precisamente un Dire prima di ogni Detto. Il Dire sorprendente della responsabilità per altri è, contro gli ostacoli dell’essere, un’interruzione dell’essenza, un disinteressamento imposto con buona violenza. Tuttavia, gratuità esigita dalla sostituzione – miracolo dell’etica prima della luce – è necessario che questo Dire sorprendente si metta in luce in ragione della gravità stessa dei problemi che l’assillano. Esso deve esporsi e raccogliersi in essenza, deve porsi, ipostatizzarsi, farsi eone nella coscienza e nel sapere, lasciarsi vedere, subire l’influenza dell’essere. Influenza che l’Etica stessa, nel suo Dire di responsabilità, esige”.
E il Dire indicibile si presta al Detto, “all’indiscrezione ancillare del linguaggio abusivo che divulga o profana l’indicibile, ma si lascia ridurre senza cancellare l’indicibile nell’enigma del trascendente in cui lo spirito ansante trattiene una eco che s’allontana”. Difatti alla significazione del Dire si risale solo a partire dal Detto e dalla domanda “che ne è di…?”: è necessario che il Dire dell’al di qua si tematizzi (dunque si manifesti) entrando in una proposizione in un libro ed è nel già detto che le parole trovano la loro funzione di segno.
Ma il Dire-propriamente-parlando non è invio di segni ed è comunicazione in quanto condizione di ogni comunicazione, in quanto “esposizione”:

La comunicazione non si riduce al fenomeno della verità e della manifestazione della verità concepiti come una combinazione di elementi psicologici: pensiero di un Io, messaggio attraverso un segno che designa questo pensiero – percezione del segno da parte dell’altro Io – decifrazione del segno. Gli elementi di questo mosaico sono già situati nella mia preliminare esposizione all’Altro, nella non-indifferenza per l’Altro, che non è una semplice intenzione di inviare un messaggio.
(Autrement qu’être, ou au-delà de l’essence, 1974)


Dire è invece approssimarsi al prossimo, lui “bailler signifiance”. La comunicazione non dipende dai contenuti inscritti nel Detto e trasmessi all’interpretazione e alla decodificazione effettuata dall’Altro, ma è “nella rischiosa scoperta di sé, nella sincerità, nella rottura dell’interiorità e nell’abbandono di ogni rifugio, nell’esposizione al trauma, nella vulnerabilità”. Il senso dell’esposizione differisce dalla tematizzazione: “l’uno si espone all’altro come una pelle si espone a ciò che la ferisce, come una guancia offerta a colui che percuote”.
“La passività del soggetto nel Dire non è la passività di un “linguaggio” che parla senza soggetto (Die Sprache Spricht)”, ma è un offrirsi “che è sofferenza, una bontà malgrado se stessa”, dove il “malgrado” – precisa Lévinas – è responsabilità, Dire. L’esposizione ad Altri ha senso solo come dare, che ha senso solo come “strappare da sé malgrado sé e non soltanto senza io, ma lo strapparsi da sé malgrado sé ha senso solo in quanto strapparsi dalla compiacenza in sé del godimento; strappare il pane dalla propria bocca. Solo un soggetto che mangia può essere per-l’altro o significare”. La significazione – l’uno per l’altro – ha senso solo “tra esseri di carne e di sangue”, “viscere in una pelle”, scrive il filosofo.
“La soggettività è sensibilità – esposizione agli altri, vulnerabilità e responsabilità nella prossimità degli altri, l’uno-per-l’altro, cioè significazione – e la materia è il luogo stesso del per-l’altro, il modo in cui la significazione significa prima di mostrarsi come Detto nel sistema linguistico”.
La significazione è quindi pensata a partire dall’uno-per-l’altro della sensibilità e questo per della relazione è la mia responsabilità per l’altro, “la significanza stessa della significazione che significa nel Dire prima ancora di mostrarsi nel Detto”. Significanza della significazione che è testimonianza – “intelligibilità prima della luce, prima del presente dell’iniziativa grazie alla quale la significazione del λόγος, nel suo presente, nella sua sincronia, significa l’essere”. Tanto che limitarsi alla significazione del Detto – e del Dire che se ne va in αποφάνσις, dimentichi della proposizione e dell’esposizione all’altro in cui essi significano – significa limitarsi al “soggetto-coscienza”. Scrive Lévinas in Autrement qu’être che “partendo dalla sensibilità interpretata non come sapere ma come prossimità, ricercando nel linguaggio, dietro allo scambio d’informazioni che esso diviene, il contatto e la sensibilità, abbiamo tentato di descrivere la soggettività come irriducibile alla coscienza e alla tematizzazione”. La prossimità è infatti la relazione con Altri, che non può esporsi come tema. Quest’approssimarsi “non è parola empirica, ma responsabilità”, relazione con Altri che “resiste alla tematizzazione in quanto an-archica”. Tematizzare la relazione è infatti perderla, uscendo dalla passività assoluta di sé.
In Etica e Infinito Lévinas precisa ancora che la relazione autentica è il discorso (“epifania dell’infinito”), che è reso possibile ed è cominciato dal volto, la cui tematizzazione tuttavia “disfa” l’approssimarsi. “Che il Dire debba comportare un Detto” si legge sempre in Etica e Infinito “è una necessità dello stesso ordine di quella che impone una società con leggi, istituzioni e relazioni sociali. Il Dire invece è il fatto che di fronte al volto io non resto semplicemente là a contemplarlo: gli rispondo. Il Dire è un modo di salutare altri, ma salutare altri significa già rispondere di lui. E’ difficile tacere in presenza di qualcuno, e questa difficoltà deriva in ultima analisi dalla significazione propria del Dire, qualunque sia il Detto”. Ed è proprio nell’approssimarsi del volto che “la carne si fa verbo, la carezza Dire”:

Il Dire è questa rettitudine da me a te, questa dirittura del faccia a faccia, dirittura per eccellenza dell’incontro, […] un tra-noi, già intra-tenersi nel discorso, già dia-logo e anche distanza e tutto il contrario del contatto in cui si produce la coincidenza e l’identificazione. Ma è precisamente la distanza della prossimità, meraviglia della relazione sociale. In questa relazione, la differenza tra me e l’altro resta. Ma essa si mantiene come negando, nella prossimità che è anche distanza, la propria negazione, come non-in-differenza dell’uno per l’altro.
(Al di là del dialogo, da Alterità e trascendenza)


È nell’estrema prossimità del prossimo che avviene l’Infinito, che non entra con essere in un tema per darsi e così smentire il suo al di là. L’Infinito ha un senso malgrado l’essere e il nulla, malgrado il concetto; esso è fraternità prima dell’essenza e della morte.
L’“eccomi” è testimonianza dell’Infinito – scrive Lévinas – ma testimonianza che non tematizza ciò che testimonia. Prima di mettersi al servizio della vita in qualità di scambio d’informazioni attraverso un sistema linguistico, il Dire testimonia la gloria dell’Infinito:

L’Infinito si presenta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si erge dura e assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria. La comprensione di questa miseria e di questa fame instaura proprio la prossimità dell’Altro. Ma è così che l’epifania dell’Infinito è espressione e discorso. L’essenza originale dell’espressione e del discorso non risiede nell’informazione che fornirebbero su un mondo interno e nascosto. Nell’espressione un essere si auto-presenta. L’essere che si manifesta assiste alla propria manifestazione e quindi fa appello a me.
(Totalité et Infini, 1961)

Questo volto dell’altro, senza scampo, senza sicurezza, esposto al mio sguardo nella sua debolezza e mortalità è anche colui che mi ordina: “Tu non ucciderai”. Vi è nel volto la suprema autorità che comanda, e io dico sempre: è la parola di Dio. Il volto è il luogo della parola di Dio. C’è in altri la parola di Dio, parola non tematizzata.
(La prossimità dell’altro)

Nella misura in cui altri mi parla – vale a dire nella misura in cui io parlo ad altri – Altri è Dio. Io non divinizzo altri, è al contrario la categoria del divino – se mai è possibile porre il divino come categoria – che deriva dal Dialogo. La relazione con il volto – in cui un essere o meglio un essente senza apparirmi è in relazione con me, al di fuori di ogni proprietà o attributo – in cui è in relazione con me ma rimane in sé – cioè rimane senza entrare nella conoscenza – relazione che è precisamente parola – è questa relazione che proponiamo di chiamare religione. Il Dio monoteista si rivela attraverso la parola. Oltrepassa tutti i paganesimi, non perché in lui il Perfetto si occupa degli uomini, ma perché offre al divino la situazione eccezionale dell’interlocutore, il carattere assoluto della parola.
(Lo Scritto e l’Orale)


Quest’incontro con la Parola di Dio è descritto nei brandelli di un testo antichissimo: il Prologo o Inno al Λόγος del Vangelo secondo Giovanni.

Prologo del Vangelo di Giovanni

Onde l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque
u’ la natura, che dal suo fattore
s’era allungata, unì a sé in persona
con l’atto sol del suo etterno amore.
(Paradiso, VII, 28-33, Divina Commedia)


Η Καινή Διαθήκη – κοινὴ greca che traduciamo in “Nuovo Testamento” – è un corpus di ventisette testi in lingua greca raccolti sotto un titolo indicante la “nuova alleanza” stabilita tra Dio e l’uomo per mezzo di Gesù. Nel corpus, che fu fissato ufficialmente alla fine del IV secolo, figurano anche i Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, tra i quali il più recente è appunto quello tradizionalmente attribuito al figlio di Zebedeo.
Il manoscritto più antico contenente un brano del “Quarto Vangelo” risulta essere il Papiro 52, rinvenuto in Egitto e attualmente conservato nella britannica Manchester. La datazione attualmente proposta per i testi è del 125 circa.
Il Vangelo secondo Giovanni risulta diverso dai vangeli sinottici: è infatti il primo tentativo di intendere filosoficamente la figura di Cristo e il principio del suo insegnamento. Un tratto distintivo dello scritto giovanneo è indubbiamente il Prologo o Inno al Λόγος (1,1-18), in cui è suggerita la chiave di lettura di tutto il Vangelo: Gesù Cristo è il Λόγος – “Verbum” in San Girolamo – incarnato che si rivela agli uomini.

1 Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος,
καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,
καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος.
2 οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν.


3 πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο,
καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν. ὃ γέγονεν


4 ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν,
καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων·
5 καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει,
καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν.


6 Ἐγένετο ἄνθρωπος ἀπεσταλμένος παρὰ θεοῦ, ὄνομα αὐτῷ Ἰωάννης·
7 οὗτος ἦλθεν εἰς μαρτυρίαν, ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός,
ἵνα πάντες πιστεύσωσιν δι’ αὐτοῦ.
8 οὐκ ἦν ἐκεῖνος τὸ φῶς, ἀλλ’ ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός.


9 ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινὸν
ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον
ἐρχόμενον εἰς τὸν κόσμον.
10 Ἐν τῷ κόσμῳ ἦν,
καὶ ὁ κόσμος δι’ αὐτοῦ ἐγένετο,
καὶ ὁ κόσμος αὐτὸν οὐκ ἔγνω.


11 εἰς τὰ ἴδια ἦλθεν,
καὶ οἱ ἴδιοι αὐτὸν οὐ παρέλαβον.


12 ὅσοι δὲ ἔλαβον αὐτόν,
ἔδωκεν αὐτοῖς ἐξουσίαν τέκνα θεοῦ γενέσθαι,
τοῖς πιστεύουσιν εἰς τὸ ὄνομα αὐτοῦ,


13 οἳ οὐκ ἐξ αἱμάτων
οὐδὲ ἐκ θελήματος σαρκὸς
οὐδὲ ἐκ θελήματος ἀνδρὸς
ἀλλ’ ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν.


14 Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο
καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν,
καὶ ἐθεασάμεθα τὴν δόξαν αὐτοῦ,
δόξαν ὡς μονογενοῦς παρὰ πατρός,
πλήρης χάριτος καὶ ἀληθείας·


15 Ἰωάννης μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ καὶ κέκραγεν λέγων·
Οὗτος ἦν ὃν εἶπον·
Ὁ ὀπίσω μου ἐρχόμενος ἔμπροσθέν μου γέγονεν,
ὅτι πρῶτός μου ἦν·


16 ὅτι ἐκ τοῦ πληρώματος αὐτοῦ ἡμεῖς πάντες ἐλάβομεν,
καὶ χάριν ἀντὶ χάριτος·


17 ὅτι ὁ νόμος διὰ Μωϋσέως ἐδόθη,
ἡ χάρις καὶ ἡ ἀλήθεια διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ ἐγένετο.


18 θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε·
μονογενὴς θεὸς
ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς
ἐκεῖνος ἐξηγήσατο.


Analisi del testo greco
La testimonianza giovannea esordisce con “Ἐν ἀρχῇ” (in principio), corrispondente all’ebraico בראשית, “bereshìt” (Genesi, 1:1), con la differenza che ἦν non indica un atto compiuto all’inizio, bensì uno stato esistente per l’appunto ἐν ἀρχῇ (si parla a questo proposito di “imperfetto di eternità”). E il Λόγος che era all’inizio era “πρὸς τὸν θεόν”, che si potrebbe tradurre come “presso Dio” o come “verso Dio”, cioè in relazione con Dio. Una relazione vitale, perché la parola è necessariamente rivolta a qualcuno: l’espressione implica un dialogo sia in senso filologico che in senso teologico. Secondo qualche commentatore, qualsiasi traduzione si voglia dare della preposizione πρὸς, è qui affermata la “distinzione personale ma unità sostanziale” di Cristo con Dio. Aggiunge del resto Giovanni che “θεὸς ἦν ὁ λόγος”: Dio, la realtà suprema e trascendente, è il Verbo tramite il quale tutto è stato fatto (πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο) e niente fu fatto senza di lui (χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν ὃ γέγονεν).
In 1, 3-4 si rileva un’ambiguità sulle divisioni possibili. Le opzioni sono: “…niente. Ciò che è stato fatto in lui era vita”; “…niente di ciò che è stato fatto. In lui era vita”; “…niente di ciò che era stato fatto in lui. Era vita”. A ogni modo, “ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν” e la vita “era la luce degli uomini”: la vita è luce, e tale luce c’è nonostante coloro i quali non sono in grado di vederla (i peccatori). La luce di Dio (non φῶς, ma τὸ φῶς, perché si tratta dell’unica vera luce) risplende dunque nella tenebra, “καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν”. “Κατέλαβεν”, aoristo di καταλαμβάνω, può supporre più rese, dal fallimentare “accogliere” a “sopraffare”, “comprendere”, “vincere” (Gianfranco Ravasi).
Aggiunge l’evangelista che questa lux divina della Rivelazione è testimoniata da Giovanni Battista, il quale “ἦλθεν εἰς μαρτυρίαν ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός” [nella κοινὴ è di vastissimo impiego la particella ἵνα]. Giovanni venne affinché tutti credessero per mezzo di lui, “pur non essendo lui la luce”. Luce che è chiamata “vera” (“ἀληθινὸν”, da ἀλήθεια), luce che “battezza” ogni uomo di luce spirituale (“φωτίζει”, al presente).
E sebbene il Λόγος fosse nel mondo (κόσμος), il mondo “αὐτὸν οὐκ ἔγνω”, non lo riconobbe (γινώσκω non solo nel senso intellettivo di “riconoscere come vero”, ma anche in senso relazionale). Egli venne “εἰς τὰ ἴδια”, che San Girolamo traduce con “propria” (altri con “patria”, anche se il sostantivo non è al femminile ma al neutro), ma “i suoi non lo accolsero” (“παρέλαβον”, che può significare “prendere in consegna” ma anche “intendere”).
È tuttavia vero che “[a] quanti l’hanno accolto, a loro ha dato” – “ἔδωκεν”, un dono – “ἐξουσίαν”, il potere (facoltà, al tempo possibilità e libertà), “di diventare figli di Dio”. E chi crede nel suo nome (πιστεύω è costruito non con il dativo ma con εἰς + accusativo, “aver fede in”) è stato generato non “ἐξ αἱμάτων”, non “ἐκ θελήματος σαρκὸς”, non “ἐκ θελήματος ἀνδρὸς” (“viri”, il maschio), ma “ἐκ θεοῦ”. E il λόγος “σὰρξ ἐγένετο” ed “ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν” (σκηνόω nel greco classico è “accamparsi”, in Platone è “trovarsi, essere”, mentre qui è un vero e proprio “dimorare”). E noi “ἐθεασάμεθα – stessa radice di θαυμάζω – τὴν δόξαν αὐτοῦ”, dove la δόξα non è l’“opinione” ma è la gloria stessa di Dio (seconda accezione nel greco classico). “Gloria in quanto” (l’ὡς può essere causale o comparativo; San Girolamo sceglie il latino “quasi”) “μονογενοῦς παρὰ πατρός”, cioè uni-genito dal Padre, e “πλήρης χάριτος καὶ ἀληθείας”, ricolmo (plenus) di Grazia e Verità – per alcuni un’endiadi, perché il dono è la Rivelazione stessa.

“Ἰωάννης μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ καὶ κέκραγεν” (κέκραγεν al perfetto: la proclamazione ancora risuona nel deserto) dicendo: “Ecco l’uomo che dissi, colui che, pur essendo giunto dopo di me, mi fu davanti, perché era [in quanto λόγος] prima di me”. Poiché “dalla sua pienezza noi tutti ricevemmo, e (anche) χάριν ἀντὶ χάριτος”: in questo caso ἀντὶ + genitivo si presta a più traduzioni, da “in luogo di” a “in cambio di”; solitamente il senso dato è quello di un’“aggiunta” (“grazia su grazia”).
Negli ultimi versi Giovanni scrive che “siccome la legge fu data per mezzo di Mosé, la Grazia e la Verità avvennero per mezzo di Gesù Cristo” (ἡ χάρις καὶ ἡ ἀλήθεια διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ ἐγένετο): secondo il teologo Henry Alford il senso è che Mosé non poté diramare la pienezza della Grazia e della Verità perché solo Cristo può ἐξηγεῖσθαι θεόν. Difatti “Dio nessuno mai lo vide: il Figlio uni-genito, che è rivolto al seno [εἰς τὸν κόλπον, un “fondo incurvato”, un “abisso” d’intimità] del Padre, l’ha rivelato [da ἐξηγέομαι, che nel mondo ellenistico pagano è il verbo della rivelazione di divinità oracolari, mentre in autori di cultura giudaica indica l’interpretazione dei testi sacri]”.

Annotazioni sulla parola λόγος
La parola λόγος deriva da λέγω, verbo dagli innumerevoli significati. In un breve elenco si possono radunare le traduzioni più comuni: scegliere, raccontare, enumerare, parlare, pensare. Anche la parola λόγος assume nella lingua greca molteplici significati: stima, misura, studio, relazione, legame, spiegazione, ragionamento, ragione.
È tuttavia chiaro che l’inchiesta sul significato della parola Λόγος in Giovanni non può condursi solo sul piano grammaticale, ma deve svolgersi anche a livello storico. Il λόγος è infatti uno dei concetti chiave della filosofia greca. In Eraclito, per esempio, il λόγος è tutto, è la ragione come struttura stessa delle cose, mentre nell’ambito dello stoicismo il λόγος è la ragione seminale di cui è fatto il κόσμος, in cui ogni avvenimento è retto da un destino e da una ragione ferrei.
E’ inoltre doveroso fare riferimento al contesto della filosofia greco-giudaica, in particolare alle opere di Filone d’Alessandria, che visse tra il 20 a.C. e il 45 d.C. circa. Ammiratore di Platone e fervente lettore della Bibbia, Filone supera il politeismo greco e approda, non senza qualche incertezza, alla nozione di un Dio unico e creatore. In Filone il platonico “mondo delle idee” diviene l’intelletto divino, il Λόγος: “Si può dire che il cosmo intelligibile non è altro che il Λόγος di Dio nell’atto di formare il mondo”. Questa dottrina del Λόγος come intermediario tra Dio e il mondo è presente nell’Antico Testamento e sarà effettivamente ripresa dal Prologo del Vangelo secondo Giovanni.

È altresì vero che dalle parole dell’apostolo emerge che il Λόγος è sì mediazione tra Dio e il mondo, ma in quanto soggetto di carne e sangue, Persona, il Messia stesso. Osservano i commentatori che sia in Giovanni che in altri autori biblici la parola λόγος non è usata per indicare la divina “ragione” o “mente”: queste idee sono infatti espresse da vocaboli come πνεῦμα, νοῦς, σοφία τοῦ θεοῦ. Solitamente il significato di λόγος nelle Scritture equivale invece a “parola” o “discorso”. Il Λόγος non sarebbe dunque un attributo di Dio ma una realtà in atto, con cui l’Eterno e Infinito è causa del Creato. Del resto anche l’ebraico “dabar” significa al contempo “parola” ed “evento”, “atto”. Nel Prologo questo Λόγος è indubitabilmente personale: non una mera astrazione, ma una persona (ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν e ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο). Tale Λόγος è Gesù Cristo, non perché “pronuncia la parola” (λέγων), non perché “detto” (λεγόμενος), ma perché la Parola è in lui come sono in lui ζωή e φῶς (Henry Alford). E questo Λόγος ha sì parlato nelle Leggi e nei Profeti, ma solo parzialmente e imperfettamente (Gv, 1:17; Gv, 5:39; Gv, 5:46; e del resto lo stesso Giovanni non può dire di Dio altro che ciò che un uomo può dirne): il Λόγος personale invece parla nella pienezza della Grazia e della Verità. La Rivelazione di cui parla l’autore è una rivelazione personale, l’incontro con la Parola di Dio, con il Simbolo perfetto che fonde in sé Λόγος e σάρξ, Cristo umano che “ἀγάπη ἐστίν”.

Riflessioni

La domanda sul rapporto tra la parola e la trascendenza è una questione fondamentale che mi coinvolge non solo in veste di studentessa, ma soprattutto come persona. Ad avvicinarmi al problema è stata la consapevolezza del peso che ogni parola ha per me, sia che la trovi incastonata in un verso, sia che essa fiorisca dalle labbra di un volto incontrato per strada. E questa parola non risponde forse al mio bisogno di relazionarmi con qualcos’altro, con qualcun altro – di essere in relazione con te, lettore?
Come in ogni ricerca che si rispetti, più volte mi sono smarrita nella selva di problemi ulteriori che la domanda sulla parola fa affiorare. Gli ostacoli in cui mi sono imbattuta mi hanno costretto a mettermi in gioco sempre di più, a espormi nella mia nuda inesperienza, a esplorare ed esplorarmi.
Ho esordito parlando della parola e di un oltre, ho intravisto – assieme e grazie agli uomini di cui ho studiato le riflessioni – la possibilità di quest’oltre e ho capito di non poterlo conoscere.
La parola per me rappresenta proprio questo: l’inestinguibile ricerca di un oltre tanto misterioso quanto affascinante.

Bibliografia
Emmanuel Lévinas, Alterità e trascendenza, Il Nuovo Melangolo
Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, traduzione di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Jaca Book Editore
Emmanuel Lévinas, Etica e Infinito, Castelvecchi
Thomas Stearns Eliot, Four Quartets, traduzione di Filippo Donini, introduzione e note di Attilio Brilli, Garzanti Editore
Rocci, Grammatica greca, Società Editrice Dante Alighieri
Dante Alighieri, La Divina Commedia, vol. III, Paradiso, a cura di Natalino Sapegno, “La Nuova Italia” Editrice
Abbagnano e Fornero, La ricerca del pensiero, con la collaborazione di Burghi, Paravia
Porro, Lapini, Bevegni, Letteratura greca, volume 3, Da Platone all’età tardoantica, Loescher
Arturo Cattaneo e Donatella De Flaviis, Millennium 2, Mondadori
Daniele Del Giudice, Umberto Eco, Gianfranco Ravasi, Nel segno della parola, a cura e con un saggio di Ivano Dionigi, BUR
Fornero, Restaino e Antiseri, Storia della filosofia, volume IV, La filosofia contemporanea, tomo secondo, UTET
Anna de Simone (a cura di), Ungaretti: vita, poetica, opere scelte, Il Sole 24 Ore (collana “I Grandi Poeti”)



Sitografia
bibilistica.it Greek Testament Critical Exegetical Commentary Centro Studi Biblici “G. Vannucci”

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