Bibliomanie

Compos sui. Poesie nello stile del 1940 di Massimo Sannelli
di , numero 42, luglio/dicembre 2016, Letture e Recensioni,

Compos sui. <em>Poesie nello stile del 1940</em> di Massimo Sannelli
Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Compos sui. Poesie nello stile del 1940 di Massimo Sannelli, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 42, no. 6, luglio/dicembre 2016

Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.

È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.
Il tu di Poesie nello stile del 1940 è Sannelli stesso, come il tu del Mestiere di vivere era Cesare Pavese. Ovviamente quello di Sannelli è un tu nel sermo del 1940. Una clonazione? Un caso di dissonanza con l’idioma contemporaneo? Un gesto magrittiano? Un esercizio di stile? In Lotta di classico rilevavo l’inattualità di Sannelli, quella sua difficoltà a situarsi, autore spaesato, fuori del tempo e fuori luogo nell’estenuazione di grado di un odierno essenzialmente feriale e senza stile al limite. Quel suo sentimento quasi krögeriano «della separazione, del non c’entrare, del venire riconosciuto e osservato, nella sua faccia c’è qualcosa di regale e insieme di imbarazzato» (come traduce Enrico Filippini).
Sappiamo che non crede che l’arte prefiguri il futuro. Per lui è sempre troppo generale un discorso cosí. La colonia penale di Kafka è la profezia del Lager, ma è la Colonia ed è Kafka. Sappiamo inoltre che non crede – anzi, che non ha mai creduto – alle generalizzazioni heideggeriane, l’Arte, la Poesia, il Poeta. Laforgue non è Rilke, tutto qui. Altrimenti qualsiasi scrittore sarebbe uguale in quanto comunicatore, e invece per Sannelli il fondo della questione non è affatto il comunicare, che in lui resta l’eterno inconseguito, quanto la qualità del sermo addotto e il suo esplicarsi nella totalità: «l’arte è un sogno pieno di organi», qui si dice; «tutto è in tutto» è il suo motto mai sconfessato. Se vogliamo, per chi lo conosce, il punto è anche l’artista totalitario, perché l’artista è di fatto autoritario, anche solo per la circostanza di pubblicarsi, di farsi pagare e di imporsi, e tutto questo in base a un talento che ha in modo innato, che dunque gli viene immeritatamente, perché da sé si è fatto la cultura ma non il talento. Ecco il motivo per cui il cosí detto ‘artista nato’ è totalitario, perché si impone sui non talentuosi, e vuole per lo meno la loro attenzione.
«L’età matura / è il grande cave canem dove il cane / è l’anima animale che conosce / l’anno quaranta del secolo venti». Sannelli scrive nello stile del 1940, il suo modello sono i Mottetti di Montale (1938-1940), le Poesie (1939) di Sandro Penna, Diario d’Algeria di Sereni (1947). Nel 1940 la parola letteraria, da pubblicare e pubblicata, non era libera ma sotto condizione. Oggi accade esattamente il contrario, «l’ultimo rifugio dei vigliacchi» è «la comunicazione», secondo L’aggettivo «mitico» di Francesco De Gregori.
Sannelli sa di non essere vigliacco. Questi sono versi, non atti di comunicazione vigliacca, perché non era sua intenzione comunicare concetti, quanto essere fisicamente quei concetti in modi linguistici sottratti al destino di scarto. Nello Stato totalitario, pieno di ‘padri-padroni’ e della loro retorica, la comunicazione, letteraria ed editoriale, non poteva esimersi dal porsi un problema, giorno dopo giorno: si può o non si può? Si deve o non si deve? E soprattutto: pubblicare in modo acquiescente, oppure distruttivo, oppure autodistruttivo?1
È superfluo dirlo, ma Sannelli non ha nostalgia di quello Stato, né di un qualsivoglia duce, quanto di quel contesto dove una censura superiore paradossalmente determinava l’eccellenza o meno delle situazioni creative: nella prospettiva del 1940 c’era piú arte che comunicazione. Oggi l’accesso incontrollato di chiunque alla cultura tramite gli attuali media fa sí che spesso la comunicazione soppianti l’arte, e che l’arte sia soprattutto comunicazione. Il fatto è che Sannelli non si accontenta della comunicazione. Come lui dice, se l’arte consistesse nel comunicare concetti, sarebbe meglio stampare manifesti e affiggerli ai muri: la forma-libro non è comoda né immediata, ma un libro è un’esperienza, e questa ovvietà sta sparendo dall’orizzonte. Che noi sappiamo, non è l’ultimo dolore di Sannelli, questo.
Sannelli pensa al 1940 come estremo riferimento ideale non ancora postumano (le immagini di Chiara De Luca sono armoniche, severe, seducenti, in osmosi con i testi), quando la borghesia era generalmente cólta e ancora esisteva un mondo eroico, quasi perfetto, in cui si vestiva bene, si mangiava poco, non si urlava, non si gesticolava, non si facevano ad alta voce battute sui diversi, e chi «pubblicamente bestemmia[va]… contro la Divinità» era punito, ai sensi dell’art. 724 del codice Rocco, anno 1930. Gli esempi sono di Sannelli, e mostrano alcune delle sue bestie nere, intellettuali e morali; alcune delle sue ossessioni comportamentali (per lui la poesia è in primo luogo un comportamento, come ripete, anche troppo barbaramente e senza mezzi termini, in un suo libro un po’ maledetto, Scuola di poesia, uscito anni fa nella terra di Leopardi, che è poi la mia).
Insomma un’idea altissimo-borghese del 1940: come se Sannelli fosse oggi un novantacinquenne spiantatissimo che vive con la pensione minima, pur essendo nato a un livello sovrumano di borghesia, lucido benché decrepito. Assomiglia un po’ – come dicevo in Lotta di classico – al vampiro Adam di Solo gli amanti sopravvivono di Jarmusch: un genio segreto della musica, che ha dato qualche suggerimento a Schubert, e poi, eternamente giovane, immortale e depresso, si esilia nel purgatorio di Detroit, dove si ricorda di Byron per disprezzarlo.
Immaginiamo Sannelli come quell’anziano e come Adam. Diciamo che è sopravvissuto all’estinzione della maggior parte dei suoi coetanei. È un anziano signore, credente ma non praticante, né oggi né settantasei anni fa. Nel 1940 regnava da un anno Pio XII, e lui lo trovava comunque interessante, perché era cólto e rigoroso. Non che venerasse il Papa in quanto Papa, però lo trovava glorioso, ecco il punto, glorioso. In realtà quel superborghese di novantacinque anni non è decaduto, perché non esiste. È proprio caduto, una volta per tutte, disintegrato tra eroi e macchine della guerra mussoliniana (secondo il titolo di Marinetti, 1942), in un momento del 1944 o del 1945.
Supponiamo per assurdo che si reincarni e si ritrovi nel «secol morto». Una vaga idea di metempsicosi del resto c’è: «Domani un’altra vita, nuova, sorge, / risorge lievemente come affonda, / e io non so perché affonda e risorge». Prendiamo per buona questa cosa inspiegabile, simile a quella che scrissi per introdurre Intendyo. Quindi bisogna rifare un corpo, magari esploso in un aereo, allora. Ci sono tracce di questa visione nelle Poesie nello stile del 1940 nel pilota morto, nei settenari seguenti: «L’abitacolo ha / il corpo frantumato / a settecento all’ora, / la guida non c’è piú, / e i libri sono libri, / e carta canterà». E piú velatamente anche qui: «Dopo la febbre il sogno degli aerei / viene e la guerra viene, con l’ardesia / nera rotta. Ma è classico l’ardore / della mano su tutti gli strumenti, / in questo tempo, per felicità». E ora la finisco con questa allegoria del giovane-vecchio, stiamo al presente.
E l’opera in sé? Ho accennato a un solo testo, paradigmatico quanto si vuole, ma è troppo poco. Ecco qualche schizzo preliminare. Poesie nello stile del 1940 recupera la metrica, compreso l’incredibile decasillabo – da quanti decenni non appariva? – usato in modo sonoro e afono, caso per caso; compreso il novenario, che, per quanto ne sappiamo, non appariva pubblicamente dal tempo dell’Inno alla morte di Ungaretti (1925). Il laboratorio metrico di Sannelli serve a qualcosa per pochi. Che cosa? Probabilmente – conoscendo l’autore – a una rivendicazione, e persino a una vendetta. L’esergo al libro è l’affermazione di Marco Giovenale secondo cui la poesia del 2006 era contemporanea al 1940: cioè troppo lirica, troppo sentimentale, troppo privata. La critica secondo Sannelli non metteva in conto l’abilità metrica media del 1940, perché la poesia del 2006 – e quella successiva ancora peggio – era semplicemente fuori metrica, esattamente come la poesia che voleva essere sperimentale e antilirica.
L’indole vera di un ‘poeta’2 si distingue da quello che Umberto Eco in una celebre Bustina del 1992 (Allegria! M’illumino d’immenso) definiva un «ungarettismo» come «prima risorsa del cattivo poeta, il quale ritiene che “Io sono contento” diventi poetico solo perché si scrive “Io-sono-contento”». Il che rende l’impressione che spessissimo si ignori il fondamento delle regole della poesia, che non si abbia cioè nelle orecchie quello che, sempre restando in campo ungarettiano, l’Ungaretti composto e classico di Sentimento del tempo chiamava «il canto italiano». Di ‘non poetico’ del resto si può anche dire quando la trama versale è schiacciata da un eccesso di sentimentalismo o da un intellettualismo effuso.
Sannelli deve aver preso molto sul serio queste prese di posizione. Ha voluto imporsi e imporre – per quell’autorità disperata da talento immeritato e talent scout di se stesso – una gabbia metrica. Come dire che di 1940 non si parla impunemente, di poesia nemmeno, e la poesia non è l’io lirico, non è il cattivo poeta, ma è anzitutto un io musicale, e la musica è disciplina (e Sannelli ha fortissime basi musicali, oltre che attoriali e artistiche). Altrimenti si è come nel popolo dei topi del racconto di Kafka: c’è una moltitudine troppo immusicale per capire, e cosí immusicale da cercare sempre e solo contenuti – una piccola gratificazione, molto scolastica– e non da solfeggiare un suono dopo l’altro e ogni accento. La musica può fare paura perché non è parafrasabile, piú ancora se in quella musica ci sono anche dei contenuti che ci imbarazzano (destino, vocazione, morte, rinascita, ecc.).
Poesie nello stile del 1940 non è soltanto un epicedio dello stile. È un’opera nella quale Sannelli si sdoppia e si espone nello «scrivere la vita» senza implicarsi nel polo dialettico uomo-natura, e senza schermarsi dietro false effigi o emblemi o in evocazioni acustiche che eccedano la giusta cadenza del verso. «Sei caduto? E con chi eri? / Se era sesso, perché? Se non lo era, per chi? […] Io voglio / note per questo morbo colorato». Spesso l’io e il tu sono a confronto solidali-sodali, e talora convengono nel noi. A se stesso (due ricorrenze), allora, non è una citazione, tutto è perduto e ritrovato in un soggetto ora rimesso dall’errore e padrone di sé, come si trae dalle parole maestà, regista, re, imperio, padrone, dette senza alea di autodeificazione, anzi, con la consapevolezza che ‘amare’, nella sua accezione piú integrale, «è servitú». È evidente che lo stile per Sannelli non è questione di estetica, è questione di felicità. Lo scrive da vent’anni: la grande esclusa da tutte le arti è la felicità. Massimo Sannelli è un caso, ma a ben vedere è un caso tendenzialmente, percepibilmente direi, antieretico.

Note

  1. Ricavo quest’ultima domanda da una comunicazione privata dello stesso Sannelli.
  2. Le virgolette traducono tutte le riserve di Sannelli nei confronti di questo lemma, in merito alle quali rimando a Lotta di classico. Il caso Massimo Sannelli, di cui queste pagine sono il prolungamento provvisorio.

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