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Il colombo triganino modenese. Uno scorcio “in bianco e nero” sul campanile del Duomo
di , numero 42, luglio/dicembre 2016, Note e Riflessioni,

Il colombo triganino modenese. Uno scorcio “in bianco e nero” sul campanile del Duomo
Come citare questo articolo:
Federico Majolino, Il colombo triganino modenese. Uno scorcio “in bianco e nero” sul campanile del Duomo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 42, no. 5, luglio/dicembre 2016

Come vecchio mozzicone di candela, spento e dimenticato da lustri su un candelabro annerito, la cui unica speranza è riposta in una mano curiosa, disposta a riaccenderlo, a riportarlo “all’onor del mondo” onde perpetuarne il senso – ormai desueto, forse, ma poetico, poetico tout court –, il trattato di Clemente Polacci (Reggio Emilia α 31 maggio 1868, ω 18 marzo 1945) intitolato Il colombo triganino modenese (Modena, 1978) permane oramai quasi inerte nella sua metastorica analiticità, propria di quei passatempi “in bianco e nero” tipici dell’alta borghesia e della nobiltà reggiane e modenesi d’antan.
Clemente Polacci, di professione “segretario della Regia Deputazione Provinciale di Reggio Emilia”, consacrò molta parte della vita allo studio e all’allevamento dell’uccello in discorso. Invero, alle giuste ragioni di questo volatile, singolare quanto rilevante, donò con fervida passione ticchettanti ore fra gabbie e carte. Né mai mancava, nelle tavole illustrative dei colombi, il suo occhio esigente e meticoloso, che supervisionava sistematicamente la pur egregia mano della pittrice. Tale passione trovava, d’altronde, antiche radici nella famiglia Polacci: inter alia, fu Massimiliano Polacci, padre di Clemente, a suscitare nel figlio, sin dalla più tenera età, dapprima la curiosità e quindi il lucido entusiasmo in questa direzione pressoché inesplorata.
Tale vera e propria vocazione fermentò nell’animo del Polacci al punto da indurlo a scrivere quello che diventerà il libro di riferimento in materia; basti por mente a quanto l’illustre professor Socrate Gambetti, già direttore del Civico Museo di storia naturale “Lazzaro Spallanzani”, ebbe a scrivere nel 1946:

Clemente Polacci fu mio valoroso collaboratore in questo insigne Museo Spallanzaniano, uomo di alti sensi, di grande e vasta intelligenza, zoologo e zootecnico di fama nazionale. Da molti anni avevo affidato a lui le cure e la sistemazione della splendida collezione di colombi instaurata nel museo con meraviglioso esito. Conoscendo, per fatti, la sua immensa cultura colombofila, tengo a grande personale soddisfazione il merito di averlo spinto a stendere un trattato completo di colombicultura riuscito alla perfezione, che manca in Italia e che farà testo. Intendo che la sua memoria viva nel cuore della cittadinanza tutta e che nella vetrina che comprende gli esemplari da lui studiati sia posta la sua fotografia a perenne ricordo.

ra costume del nostro appassionato colombofilo illustrare a coloro che gli domandavano quali fossero le caratteristiche del colombo perfetto che «la risposta si presenta abbastanza difficile, perché dovrebbe consistere nell’enumerazione di tutti i pregi e le qualità di un colombo, i quali sono ben distinti a seconda della razza e varietà cui esso appartiene». Egli sostenne, infatti, che il pieno apprezzamento del «gentile e prezioso volatile» era analogo alla comprensione di un testo scritto in lingua straniera, che può essere inteso funditus unicamente da chi possieda una familiarità antica e autentica con tale idioma.
Clemente Polacci stigmatizzò nelle cosiddette “finezze speciali” la quintessenza della classe, dell’eleganza e dello stile del colombo. È questo il “quid armonico” discriminante e proprio soltanto di pochi esemplari, riconoscibili a patto di essere esaminati minuziosamente da occhi esperti ed avvezzi alla colombicultura, considerata nelle innumerevoli sue sfaccettature. Ed è proprio questo tassello, mancante in molti esemplari privi di difetti ben distinti, a generare “nobili guerre” tra colombofili modenesi e reggiani dell’Ottocento e del primo Novecento.
Il Triganino è soggetto a due diramazioni: Gazzi e Schietti – la prima delle quali era (e resta, va da sé, per gli happy few…) particolarmente apprezzata a Modena.
La denominazione di “Triganino” viene motivata dal grande storiografo modenese Carlo Sigonio (Historiae de regno Italiae ab anno 570 ad annum 1200 libri XX, 1574), il quale vuole la si riconduca all’anno 217 avanti l’era volgare; in quell’anno Triganius, «assessore municipale a Modena» (E. Canevazzi), collocò sull’Enza un deposito di piccioni per mezzo dei quali allertò la città dell’imminente assedio di Annibale. Ne derivò così l’appellativo di “triganiere”, riferito a coloro che si occupavano dell’addestramento dei colombi al volo, anticamente utilissimo e, talora, decisivo per la trasmissione di messaggi.
Tale usanza è attestata in numerose gride risalenti ad epoche anteriori al ’400, ora conservate presso gli Archivi di Stato di Modena e Reggio, ove si possono riscontrare le “taglie” stabilite quale compenso per quanti avessero ritrovato i colombi dispersi in volo.
Nel 1978 (a trentatré anni, dunque, dalla scomparsa del nostro ornitologo), Don Pietro Polacci, figlio di Clemente e canonico della Cattedrale di Reggio Emilia, affidò alle mani del dottor Lorenzo Manfredini il manoscritto del libro per la cui pubblicazione si era battuto insieme coi fratelli: Prospero, Elena, Giulia Polacci Carpanoni e – soprattutto – la dottoressa Giuseppina Polacci Grasselli, fervente promotrice ed esecutrice delle comuni intenzioni; esse furono prontamente accolte dal Banco di San Geminiano e San Prospero, editore del saggio, che oggi è finalmente disponibile alla lettura.
Il nobile intento dei fratelli Polacci, ben memori degli infaticabili, originali studi del padre, fu quello di «rendere con questa pubblicazione umile, ma prezioso servizio ai colombicultori tutti, considerati dall’autore sempre dei preziosi collaboratori, ciascuno nel libero esercizio delle proprie esperienze personali in colombicultura».
Una carissima voce dai capelli argentei permane indissolubile nei miei intimi ricordi d’infanzia, quasi impressa a caratteri di fuoco: è quella della mia bisnonna Giuseppina, che rimembra con cristallina soddisfazione il coronamento del sogno di una vita: dare alle stampe quanto alleviò e, per più versi, allietò gli impervi anni di guerra dell’anziano padre, sfollato dalla sua diletta Reggio: un brillante che risplende nella notte.

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