Bibliomanie

L’esempio di Gianni Brera. Una via d’uscita dalla paraletteratura
di , numero doppio 46/47, luglio 2018/giugno 2019, Saggi e Studi,

L’esempio di Gianni Brera. Una via d’uscita dalla paraletteratura
Come citare questo articolo:
Giovanni Gambarelli, L’esempio di Gianni Brera. Una via d’uscita dalla paraletteratura, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 2, luglio 2018/giugno 2019

1. La crisi del soggetto dalla nascita delle metropoli ad oggi

La letteratura italiana, come quelle di tutto il mondo, si è dovuta confrontare con le problematiche che nel ‘900 hanno investito il concetto stesso di letteratura e la figura del letterato. Partendo già dalle teorie di Simmel e poi di Benjamin si è andati riscontrando come le metropoli e la società capitalistica abbiano modificato i connotati dell’individuo e della sua soggettività, arrivando a mettere in crisi il sistema di valori tradizionali e con esso anche la funzione del raccontare la realtà. Le metropoli sconvolgono lo stile di vita dei singoli individui che si devono adattare ad un ambiente regolato da elementi oggettivi ed alienanti come il tempo ed il denaro, all’insegna dell’intensificazione della vita nervosa.

La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori. L’uomo è un essere che distingue, il che significa che la sua coscienza viene stimolata dalla differenza fra l’impressione del momento e quella che precede.1

La vita delle metropoli è un rapido susseguirsi di stimoli diversi, e l’individuo metropolitano per poter resistere al ritmo di questi cambiamenti li affronta con l’intelletto.

Così il tipo metropolitano […] si crea un organo di difesa […] anziché con l’insieme dei sentimenti, reagisce essenzialmente con l’intelletto, di cui il potenziamento della coscienza, prodotto dalle medesime cause, è il presupposto psichico. Con ciò la reazione ai fenomeni viene spostata in quell’organo della psiche che è il meno sensibile ed il più lontano dagli strati profondi della personalità.2

Questo sistema di “difesa della vita soggettiva contro la violenza delle metropoli”3 ha degli effetti indelebili non solo sulle relazioni fra individui, governate dall’intelletto logico quindi di natura quantitativa e non qualitativa, ma anche, ovviamente, sulla percezione che l’individuo ha di sé e della società che lo circonda.

la perdita di funzione del racconto è legata al declino di un mon­do arcaico-rurale e a un processo di modernizzazione che ha il suo epicentro nella vita pubblica della metropoli novecentesca, dove i poteri dell’uomo sono tanto amplificati quanto virtuali, astratti, incapaci di far presa sull’esperienza e di padroneggiare la nuova complessità della vita.
4

Il problema di fondo diventa, quindi, il concetto stesso di esperienza della realtà, che esperienza si può condurre in una società metropolitana, quanto valore può avere e quanto può rimanere ancorato agli strati più profondi ed inconsci della nostra psiche se la vita quotidiana viene disciolta, per poter esser sopportata, negli strati più alti e quindi intellettuali.

Siamo molto vicini, anche cronologicamente al Benjamin del grande saggio sul Narratore (1936), che iscriverà il tramonto dell’arte della narrazione proprio nella rottura del nesso tra sog­getto ed esperienza, non tanto e non solo l’esperienza vissuta (Erlebnis) quanto l’esperienza accumulata (Erfahrung), modella­ta e arricchita nel tempo, resa comunicabile attraverso il raccon­to5

. Un’altra conseguenza fondamentale della vita delle metropoli è, dicevamo, la perdita della distinzione qualitativa in favore solamente di quella quantitativa, che si traduce, in termini pratici, nel non riuscire più a distinguere l’oggetto in termini di apporto ed accrescimento sulla base dell’esperienza, perché il concetto stesso dell’esperire è in crisi, e nel valutarlo solamente su basi quantitative, monetarie.

Economia monetaria e dominio dell’intelletto si corrispondono profondamente. A entrambi è comune l’atteggiamento della mera neutralità oggettiva con cui si trattano uomini e cose, un atteggiamento in cui una giustizia forma si unisce spesso a una durezza senza scrupoli6.

In questo contesto narrare diventa un’operazione al limite della praticabilità. Perché, come abbiamo visto, il bacino più profondo dell’esperienza accumulata (Erfahrung) è svuotato in favore di un’esperienza immediata, questo perché l’oggettualità delle società metropolitane è di tipo livellatore ed alienante, oltre che nei confronti del soggetto, anche nei confronti di ciò che sfugge all’intelletto logico: l’oggetto puro, la natura.

La rimozione della dimensione qualitativa che viene sperimentata dalla soggettività alienata sul piano sia teorico, sia morale, sia estetico è l’esito della logica dell’illuminismo, che eleva la ragione strumentale a canone della relazione dell’uomo con il mondo7.

Tutto viene livellato a merce, contraddistinto solo in maniera quantitativa (dal suo prezzo), e “tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo apparenza; e il positivismo moderno lo relega nella poesia”8.

Un relegare che ha tutta l’aria di consistere in una rimozione in senso freudiano, poiché generata dall’angoscia che la ratio prova nei confronti dell’incommensurabile alterità che vi risiede. […] l’illuminismo allontana ciò che lo minaccia perché resta fuori dalla sua portata e che rischia sempre di schiacciarlo. A sottrarsi al dominio della ratio è la natura, autentico alter, anzi aliud del processo illuministico9.

Ma non finisce qui, l’illuminismo cerca di soppiantare questa alterità che non può razionalizzare ed inglobare nel concetto, sostituendosi alla natura, diventando natura seconda, “una natura che ha l’aspetto di un meccanismo predisposto, che genera conformismo e ovviamente legittima lo stato di cose vigente”10. Riconoscere la natura seconda dalla prima è un’operazione che spesso risulta complessa, tanto è ramificata ed egemone la struttura illuministica, ed oggi, capitalistica. L’arte diventerebbe quindi il rifugio o la via d’uscita di quella residuale oggettualità che scampa al dominio dell’intelletto, in realtà intesse col processo illuministico un rapporto ambiguo, essendo ad esso funzionale “abitando una soglia ancora addomesticata ma al contempo già indomita”11. Negli ultimi decenni del ‘900, con l’imperio indiscusso del sistema capitalistico, i tratti più totalizzanti, livellanti ed alienanti del processo illuministico incarnato nella società positivista son andati acuendosi sempre più. L’arte e la poesia, nel tentativo di sfuggire alla mercificazione si sono isolate, distaccandosi sensibilmente dal mondo delle cose, e di conseguenza dalla realtà. Nuove forme paraletterarie si sono inserite nell’alveo della tradizione narrativa, anch’essa messa in crisi dalla società capitalistica, e che si è riscoperta abitare nuovi luoghi, dove forse non credeva di essere.

Una postazione storica e criti­ca ben precisa, cioè l’attuale rilancio della narratologia dopo la chiusura della prima fase “classica” che si è esaurita con l’im­plosione dello strutturalismo. È un rilancio che si inserisce in un fenomeno macroscopico, certo molto più ampio delle sorti di una singola disciplina: la diffusione di un nuovo paradigma narrativo a partire dagli ultimi decenni del Novecento e poi in una progressione inarrestabile che giunge fino a noi. È una tendenza che marca in profondità l’orizzonte culturale contemporaneo, dove il paradigma narrativo ha assunto un’importanza senza precedenti. Letteratura, cinema, serie tv, politica, economia, pubblicità, moda, gossip, cucina, turismo: ormai tutto è storytelling, è una questione di “narrazione”, più importante di qualunque richiamo al pensiero razionale o alla realtà dei fatti […] il racconto come mezzo di dominio, creazione del consenso, manipolazione di opinioni e coscienze; l’arte di costruire un racconto coerente e convincente come strumento per occupare uno spazio pubblico a livello politico, economico e sociale, per attivare e mobilitare emotivamente un pubblico di riferimento, che siano gli elettori di un politico o gli acquirenti di un prodotto12.

Sono forme ibride, spesso definite paraletterarie, che si sono imposte al gusto del pubblico, dominando la scena editoriale. Trovare il confine fra letteratura e paraletteratura, indagare se possano esserci episodi, protagonisti, brani, che rientrano nello schema più ampio della dignità letteraria anche in ambiti diversi da quelli tradizionali, è complesso ma nondimeno necessario. Cambiando i termini dell’equazione a livello sociale, cosa ormai avvenuta da decenni, deve cambiare anche il nostro sguardo nei confronti dei prodotti letterari. Per cercare nuove forme, e magari tentare di render loro una dignità che non gli è ancora riconosciuta, bisogna però cercare di riflettere su cosa voglia dire creare delle forme narrative con il linguaggio in questa epoca.

2. Alcune considerazioni fra arte e paraletteratura

a) Ciò che spesso ha definito la differenza fra letteratura e paraletteratura è la natura mercificata di quest’ultima. Nessuno mette in dubbio che alcuni prodotti paraletterari siano creati per il pubblico come vedremo nel punto seguente, ma l’isolazionismo che odora di snobismo e paura della poesia, e la crisi identitaria della narrativa tradizionale, rendono l’immagine di una letteratura che ha perso il contatto con la realtà. «Una modernità in senso forte non prospera in campi elisi al di là della merce, ma si affina attraverso l’esperienza di quest’ultima»13. La letteratura si è svuotata di molte delle sue caratteristiche peculiari, dalla messa in crisi della sua capacità di narrare la realtà ha finito spesso per rinchiudersi in se stessa, lasciando un vuoto che altri generi stanno cercando di colmare. Il contatto con la merce è una parte fondamentale ed imprescindibile per un genere che vuole porsi nel mondo, resistere alla merce isolandosi è un atteggiamento che, per quanto motivato dalle migliori intenzioni, porta la letteratura a ghettizzarsi e a non superare mai questa antitesi.
b) Vendere non significa vendersi. Ci vuole una soggettività forte, sulla scia degli esempi simmeliani, per poter navigare nella merce senza perdere la dimensione del giudizio qualitativo sulle cose e sulle persone. Infatti:

il nesso d’accecamento è quell’insieme di relazioni dentro il quale si trova impaniato l’individuo, e nel quale tutto funziona senza produrre scarti […] solo una soggettività forte al punto da riuscire con la propria rinuncia alla conformità, a sottrarsi al nesso d’accecamento è in grado di abbandonarsi all’oggetto […] è con il congedo dall’oggettività già costituita che il soggetto può davvero abbandonarsi all’oggetto e scorgerne gli aspetti rimossi, che consistono nei momenti qualitativi- e dunque potenzialmente estetici- a cui egli rende giustizia dandovi espressione attraverso la propria esperienza. 14.

È compito delle soggettività forti, «esprimere con slancio morale, per così dire in funzione di supplenza, ciò che quei più per i quali lo dicono non riescono a vedere o si vietano di vedere per conformità alla realtà»15. Occorre un soggetto ancora più forte per poter produrre, all’interno del mondo mercificato, dei prodotti che non siano puramente e solamente merce. Il punto è che si dovrebbe distinguere tra prodotti creati per il mercato e prodotti culturali che utilizzano come medium la merce, altrimenti si corre il rischio di cadere nel paradosso, spesso accettato come logico, che chiunque abbia un seguito si sia venduto e che chi invece si è isolato in forme di rarefatta comprensibilità stia invece stoicamente resistendo all’avanzata della merce. Sicuramente esistono casi diversi da entrambe le sponde, il punto è cercare di uscire dall’inquadramento da caccia alle streghe e dal reticolato ideologico nel quale eccellere diventa sinonimo di snaturarsi.
c) «La reciprocità di soggetto e oggetto nell’opera, che non può essere identità, si mantiene in equilibrio precario»16. L’idea che basti ridurre il quantum di soggettività (vedasi Sanguineti) presente nelle opere d’arte per far risaltare l’oggettualità delle stesse risulta una contraddizione in termini. Per quanto possa essere alienato, il soggetto è colui che permette all’opera d’arte di compiere il proprio percorso e di arrivare ad esistere in quanto tale. Non può esistere un’opera d’arte senza il soggetto che la aiuta ad esplicarsi. Semmai il soggetto deve fare tutto l’opposto che nascondersi, perché «per l’opera d’arte […] soggetto e oggetto sono momenti suoi propri, dialettici, in quanto di qualunque cosa essa sia composta: materiale, espressione forma, loro due sono sempre in coppia»17. Si tratta quindi di permettere all’opera il realizzarsi della sua legalità immanente, senza la pretesa da parte dell’autore di poter dominare la propria creazione. Infatti, l’oggetto per sua natura resiste alla ratio che lo vorrebbe concettualizzare depauperandone quella traccia di naturalità oggettiva, ma nel contesto della dialettica negativa, in cui il negato non è mai eliso, bensì vivificato tramite il suo opposto, all’interno dell’opera devono sussistere, anzi devono essere portati al massimo livello di attrito, le componenti di soggettività ed oggettività.
d)

In quanto negazione siffatta dello spirito che domina la natura, lo spirito delle opere d’arte non si presenta come spirito. Esso si accende in ciò che gli è contrapposto, nella materialità. Non è affatto presente al massimo grado nelle opere d’arte più spirituali. Quanto di essa è salvifico l’arte ce l’ha nell’atto con cui lo spirito al suo interno si degrada18.

Il manifestarsi di quel qualcosa in più che caratterizza gli artifici estetici non è dettato dalle forme sensibili e ancorché concettualizzabili di quest’ultimi, bensì traspare nel contrasto, nell’apparire senza mostrarsi nitidamente, perché siamo sul piano dell’esperienza estetica e non concettuale. E ancora si deve pensare l’opera d’arte «spingendola al concetto pur sapendo che essa, già nella sua esistenza e nell’apparenza di cui vive la sua paradossale vita, è qualcosa di altro dal concetto»19. La mente umana ha nell’atto stesso del comprendere, e la sua radice semantica ne è prova, il prendere possesso, l’afferrare ciò che le è estraneo per poterlo convertire in ciò che le è concettualizzabile, questo atto però risulta una violenza verso l’oggetto che perde così la sua oggettualità, la sua traccia di naturalità immanente.
e)

La verità sfugge al concetto (ne è sempre e solo il limite); che la insegue in un atto di estroflessione che giunge a lambire l’estetico. La negatività dell’estetico, dunque, determina positivamente il passaggio dalla mediazione discorsiva alla manifestazione rispetto a cui il discorso d’improvviso si fa funzionale, in un’esperienza che si basa sul portare a costellazioni piuttosto che su definizioni concettuali, mettendo in crisi la capacità designativa del linguaggio nell’atto stesso di sfruttarla in grado estremo20.

Ed ancora, l’arte:

parla secondo il modello di un linguaggio non concettuale, non coattivamente significativo […] il loro linguaggio è, rispetto a quello significante, qualcosa di più antico benché inadempiuto: come se le opere d’arte, modellandosi sul soggetto con il loro esser compaginate, ripetessero come esso sorge, prorompe21.

Il concetto arriva fino ad un certo punto, e questa tensione verso l’altro da sé è ciò che fa avanzare il pensiero. Nominare, definire, indicare è concettualizzare, è cercare di ricondurre un’esperienza estetica ad un piano concettuale così da poter esser compresa a pieno. Un linguaggio non coattivamente significativo però, non vuol dire un linguaggio puramente incomprensibile (ancora vedasi Sanguineti), bensì un linguaggio che nasce e prorompe come mimesi non del linguaggio naturale (sarebbe solamente un’imitazione concettuale) ma del modo, del come, si esplica questo linguaggio.
Ho cercato di mostrare come nella società contemporanea in cui l’arte e la poesia si sono isolate lontano dal mondo delle cose, sia accresciuta la preminenza di altre forme di pensiero letterario, narrazioni, storytelling, spesso piegate a dinamiche di mercato. Per cercare di indagare le forme paraletterarie alla ricerca di esempi virtuosi, che escano dalla dinamica mercificata del prodotto narrativo con finalità commerciali, ho elencato nei punti precedenti alcune caratteristiche che possono esser spia della differenza qualitativa. Un prodotto paraletterario può considerarsi non solo come tale, e quindi propriamente letterario, se è a contatto con la merce, e questa è caratteristica di ogni forma paraletteraria, ma non è mercificato. Per verificare il suo non essere puramente merce, perché derivatamente merce ormai lo è ogni creazione umana, si possono osservare le caratteristiche che ho cercato di elencare, vediamo con un esempio pratico, Gianni Brera e il giornalismo sportivo, se questa struttura risulti efficace.

3. Considerazioni sullo sport

Per comprendere perché Gianni Brera, rappresenti un punto di svolta, benché senza un vero seguito, all’interno della storia del giornalismo sportivo italiano, occorre capire non solo come fosse visto il suddetto giornalismo dalla cultura del tempo, ma anche quale rapporto ci fosse con la letteratura e quanto ancora sia considerato un genere minore.
Il giornalismo, in particolare quello sportivo, ha sempre dovuto convivere con un manifesto complesso di inferiorità nei confronti della letteratura, da quasi tutti ritenuta parente (nel migliore dei casi) di lontanissimo grado nei confronti della stampa. Questo rapporto sbilanciato è nato da una serie di fattori che hanno contribuito a dilatare la distanza fra la forma letteraria “pura” e le sue derivazioni. Innanzitutto, essendo relativamente recente nella sua forma contemporanea, escludendo quindi forzate parentele con aedi e rapsodi, il giornalismo sportivo è stato nei primi tentativi popolato da, come diceva Mario Fossati, tecnici che non sapevano scrivere e retori che ignoravano la tecnica, che hanno contribuito a promulgare l’immagine di un prodotto culturalmente povero. Inoltre, dovendo maneggiare una lingua di matrice letteraria e dovendo cercare di adattarla alla cronaca di un evento, i giornalisti sportivi si trovarono di fronte all’arduo compito di vivacizzare la prosa, reso ancora più arduo dal purismo linguistico imposto nel ventennio fascista che vietò loro l’uso di forestierismi e li costrinse a calchi linguistici di dubbia qualità. Il giornalismo sportivo italiano, quindi, oltre ad occuparsi di un argomento giudicato “minore”, deve scontare un debito pregresso nei confronti della letteratura che solo negli anni del miglior Brera si andrà quasi a pareggiare, salvo poi ritornare a crescere fino all’abisso di oggi. Occorre, per comprendere il rapporto che vige fra l’evento sportivo ed il giornalista che lo racconta, approfondire la descrizione stessa di evento sportivo prendendo come esempio una partita di calcio. Una partita di calcio è un evento in cui giocatori, allenatori e arbitri e, volendo, tifosi, interagiscono all’interno di uno stadio, la partita è il risultato delle interazioni fra i singoli coinvolti nelle azioni, singoli che a loro volta sono influenzati dal contesto e dagli altri attori in gioco. È chiaro quindi che una partita di calcio, pur essendo prodotta dai soggetti, si esplica di per sé ed assume una sua propria fisionomia, mai indipendente dai giocatori che sono coloro che la aiutano a generarsi, ma mai neanche puramente soggettiva perché è frutto di interazione di soggettività diverse che dà risultati variabili e difficilmente calcolabili preventivamente. Lo sport viene spesso visto come uno strumento usato dalla società della merce al fine di alienare il tempo libero: «una operazione speculativa e ideologica colossale che cela la vera realtà culturale, cioè il parossismo competitivo e l’alienazione del tempo libero»22. Che lo sport sia nato in questo contesto e che le finalità a cui era preposto, dalla società capitalistica, fossero queste o meno non è, a parer mio, il punto focale. Che lo sport possa ormai essere altro rispetto a quelle finalità alienanti penso sia sotto gli occhi di tutti. Lo sport è un medium potentissimo che arriva a persone di quasi ogni parte del mondo, ed è ovvio che, nella nostra società, questo potere venga usato per fini economici da coloro che ruotano intorno all’universo sportivo, ciò che non è ovvio è quanto il professionismo così esasperato abbia portato gli atleti in una posizione di rilievo assoluto spesso anche nei confronti dello sport stesso. Esempi di proteste, gesti eclatanti, opinioni, espresse dai massimi livelli dello sport internazionale, dimostrano come coloro che eccellono in determinate discipline (quelle con il seguito più ampio) possano attivamente e, spesso impunemente, dato lo status che hanno acquisito, esprimersi anche criticamente nei confronti dello stesso sistema che alimentano. Questo non significa che l’individuo che riceve lo sport passivamente non rischi di ricadere nell’alienazione del suo tempo libero, significa invece che è possibile per grandi sportivi e grandi giornalisti rompere il circuito auto-referenziale dello sport e poter introdurre argomenti esterni al mondo sportivo, permettendo ai fruitori di riflettere su tematiche differenti. Detto questo, lo sport è ovviamente merce ed i suoi fruitori ne sono compratori, ma ciò che avviene nell’evento sportivo non è preventivabile, non dipende dalla volontà di qualcuno, nemmeno del più potente broadcaster televisivo. Quindi per quanto i fruitori paghino per assistere all’evento, l’evento in sé rimane un piano in cui interagiscono solamente le forze degli attori partecipanti, piano di cui i fruitori fanno un’esperienza estetica. Il compito dei grandi giornalisti sportivi è, quindi, quello di uscire dalla concezione dello sport che viene alimentata dalla stessa industria per cui lavorano, e tentare di arricchirlo non solo di contenuti diversi, ma soprattutto di approcci diversi nel trattare la materia. Le pagine migliori, e le uniche realmente rilevanti, il giornalismo sportivo le ha scritte quando le soggettività forti dei giornalisti hanno rotto il nesso di accecamento, rifiutando la visione dell’oggetto precostituita, abbandonandosi al vero oggetto sportivo, distinguendo e rimarcando le qualità dell’evento. Cercando di teorizzare: un evento spettacolarizzato e con finalità commerciali, in cui interagiscono individui per finalità, sì economiche, ma anche intrinseche dell’atteggiamento sportivo ed agonistico, può produrre momenti qualitativi che vanno oltre la sua cosalità, ma che, per essere scorti, hanno bisogno di una soggettività forte che rifiuti la visione proposta dalla società e faccia esperienza di questi momenti di vero contatto con l’alterità, in maniera indipendente. In termini pratici, quei giornalisti che hanno proposto atteggiamenti nuovi, resistendo al fiume comune della massimizzazione dei profitti in quell’ambito, ed impegnandosi per promulgare prodotti di qualità ed analisi dell’evento che andassero oltre anche agli stessi bisogni dei consumatori, hanno cercato di mostrare lati nuovi ed inespressi di un evento mediatico.

4. Ritratto di Gianni Brera

Gianni Brera ha rivestito un ruolo chiave all’interno del giornalismo sportivo italiano, essendo riconosciuto quasi all’unanimità come la più fulgida stella di quel firmamento, colui che ha avvicinato il giornalismo alla letteratura. Le particolarità di Brera si snodano a più livelli, e, man mano che scendiamo in profondità, ritroviamo le motivazioni più profonde che hanno consegnato questo giornalista alla storia del genere. Innanzitutto, Brera viene e verrà per sempre ricordato per il suo linguaggio. All’interno di un periodare corretto e lineare, la grande varietà lessicale rappresenta il segno distintivo che marca un articolo di Brera rispetto a quello dei colleghi. Questa varietà viene raggiunta attingendo a vari bacini linguistici, dialettismi lombardi, forestierismi, latinismi ma soprattutto neologismi. Per comprendere la funzionalità di tale varietà lessicale bisogna ricordare la prassi compositiva di Gianni Brera:

Colmato di note il recto del taccuino e spesse volte anche il verso, rientro di filato a casa o in redazione, decifro pagina per pagina, ricostruisco le azioni determinanti, procedo alla seriazione sinottica dei tiri e delle parate, dei salvataggi e degli errori, dei cross dalle estreme e degli interventi difensivi più ricordevoli; deduco da queste seriazioni statistiche l’entità e i valori delle singole prestazioni tecniche e le sintetizzo in “pagelle” con voti da 1 a 10 come una volta a scuola. Poi, trasmetto al giornale occhiello, titolo e sommario: e finalmente procedo alla stesura del racconto. Tutto questo, in non più di un paio d’ora, a volte anche meno23.

Brera, quindi, rivive l’evento sportivo sui suoi appunti e la cronaca risulta di conseguenza essa stessa un atto agonistico, in questa fucina infiammata Brera salda a caldo i termini alla sua cronaca.

Ora capisco anch’io di essere ogni domenica in preda a un vero e proprio raptus cronistico: tuttavia, confido che almeno si apprezzi il mio scrupolo, la mia fedeltà a un mestiere e – sia detto subito – a uno sport che ho smesso di praticare da tempo ma che sempre mi ha fatto e mi fa delirare24.

I dialettismi vengono all’uso per dare vivacità ad una lingua ancora troppo letteraria, i latinismi sono spesso citazioni che sgorgano dalla sua memoria e che Brera non frena ed inserisce. Sui neologismi è necessario un discorso a parte, si dividono sicuramente in due categorie: la prima è quella dei termini che servono a colmare dei vuoti semantici del vocabolario sportivo, più spesso calcistico, italiano, non sono semplici calchi dalle lingue straniere bensì riflettono la conoscenza del gioco da parte di chi li ha creati (Es. libero, incursore, palla-goal), la seconda è invece la categoria dei termini, spesso parole ponte, che Brera utilizza in queste concitate cronache in sostituzione di un termine che al momento gli sfugge, senza però correggerli nella versione finale del pezzo.

Ti manca la parola, perché le forze oscure che presiedono alla glottopoiesi, distratte che sono mai, non hanno previsto l’occorrenza su cui t’incagli? E che, non hai mente e bocca e dita per crearla, profferirla e digitarla su una qualche Keyb it, o anche solo sulla tastiera meccanica di una Olivetti Lettera 22? Brera appunto così si regolava25.

Fondamentale per comprendere Brera è conoscere il suo carattere e la sua deontologia professionale, sempre sincero e schietto, spesso altezzoso e superbo, Brera riteneva (e come dargli torto!) che per poter scrivere di un argomento bisognasse conoscerlo nei minimi dettagli. Spesso questo lo portò a scontrarsi con altri giornalisti, ad esempio Palumbo, che spingevano per un giornale più sensazionalistico, meno tecnico, che desse più spazio al pettegolezzo piuttosto che all’analisi critica dell’evento. Avendo delineato i tratti fondamentali e storicamente riconosciuti a livello stilistico e caratteriale-deontologico, possiamo addentrarci negli aspetti più profondi del giornalismo breriano, a cominciare dalla sua visione del calcio.

Il gioco del calcio – football o soccer in inglese – è una sorta di mistero agonistico traverso il quale si nobilitano quelle che un tempo erano le mani posteriori dell’uomo. Il suo fascino viene forse dalla sfericità della palla, che per essere sempre o dovunque in perfetto equilibrio si trova in certo modo a mimare la prodigiosa armonia dei mondi26.

Per Brera il calcio è un “mistero agonistico”, questo oltre ad alcune teorie etnologiche sulla razza italiana, ormai anacronistiche, è uno dei motivi principali che lo spinge ad applicare al calcio l’esperienza vissuta negli anni della Resistenza: difendersi e contrattaccare quando possibile. L’idea difensivista del calcio di Brera è veramente una tattica di guerriglia, non rinunciataria ma consapevole dei propri limiti, ma soprattutto dell’inesplicabile misteriosità del calcio che è sempre meglio affrontare stando accorti. Il concetto di mistero agonistico ci torna utile per capire meglio l’approccio di Brera agli articoli che scriveva. Brera è sicuramente un critico calcistico, un tecnico, un tattico, si reputa buon conoscitore del gioco e si lancia in giudizi, consigli, pronostici, pur sapendo appunto che il calcio è mistero agonistico.

La partita di calcio è una lunga trama il cui epos viene immediatamente colto nei suoi aspetti più evidenti e comuni. Di qui l’enorme popolarità del gioco e del tifo che esso determina negli spettatori. Ma come una sinfonia o un poema, anche la partita può offrirsi in mille e un aspetto diverso a chi la segue con gli occhi, il sentimento e la ragione. Parlare e scrivere di calcio è facile a certi livelli, difficile a certi altri. La ciarla da caffè può essere banale e profonda come qualsiasi resoconto giornalistico. Personalmente, trovo che la partita di calcio sia lo spettacolo agonistico più difficile da raccontare. Quasi sempre l’obiettività è inficiata dal sentimento di parte, dalle convinzioni che altri discutono e perciò vengono difese da noi con accanimento particolare, direi solipsistico a volte: e per questo accanimento si forza la vista di marcature spostamenti gesti i quali esprimono gli schemi preferiti o aborriti27.

Ma la realtà dei fatti è che la teoria tattica di Brera è una chiara e inequivocabile investitura nei confronti del calcio come uno di quei fenomeni che sfuggono alla ratio umana, è un riconoscimento della componente oggettuale del calcio. La filosofia tattica che segue è mutuata da questo riconoscimento, e Brera fremerebbe di poter conoscere e concettualizzare a freddo il calcio, la sua soggettività gli imporrebbe di spingersi, di osare, di voler prevedere gli avvenimenti calcistici, anche di superare nei fatti la sua stessa idea di partenza. Brera in quanto filosofo di sport tende al massimo la concettualizzazione di quest’ultimo, cerca di assorbirlo e di giudicarlo sempre e comunque, di violentare l’oggetto calcistico inglobandolo in un sistema di regole e schemi, con la sicurezza di saperlo interpretare. I pronostici sbagliati, i giudizi ribaltati dal campo, i consigli non ascoltati (spesso per fortuna!) dagli allenatori, rappresentano un tentativo di razionalizzazione di un gioco che non è razionalizzabile. Negli articoli post-partita, Brera commenta sempre, critica comunque, giudica continuamente, ma rimangono ugualmente vivissime le sue cronache, comunque l’evento riluce anche, se non soprattutto, se la razionalizzazione fallisce. Fallisce, spesso, fragorosamente, ed allora se la grandezza di Brera non sta nel suo essere critico, tattico, tecnico, la dovremo cercare altrove, nelle sue cronache sul “mistero agonistico”, nella sua forza soggettiva di abbandonarsi all’oggetto calcistico, ciò che fa nei suoi articoli e con il suo linguaggio. Dall’alto della sua soggettività Brera scorge l’alterità del calcio, rifiutando la versione standardizzata e tentando sempre una sua interpretazione, ha la forza di intuirne l’inesplicabilità e di tendere al tempo stesso al limite massimo la concettualizzazione. Adesso quei neologismi che abbiamo solo accennato all’inizio, giustapposti nella cronaca dell’evento e poi mai corretti, si caricano di significato, perché Brera evita di correggere un’opera che si è estrinsecata, che ha esplicitato la sua legalità immanente, il non toccare quei neologismi è il segno del riconoscimento dell’opera in quanto esistente per sé, prodotto creato nella foga dell’opposizione fra soggetto ed oggetto. All’atto pratico, per potersi permettere di coniare neologismi scrivendo cronache sportive, si necessita di una soggettività forte, fortissima. Una soggettività fortissima, in grado di navigare nella merce, di usarla come medium, ma di restare sempre coerente a se stessa, di non piegarsi alle ingerenze, di non chinare il capo. Brera riuscirà nell’impresa di criticare Mussolini dalle pagine di diversi giornali fascisti con cui collaborò in tempo di guerra, prima di riuscire a mettersi in contatto con la Resistenza. Se ne andrà dalla «Gazzetta dello Sport» «sbattendo la porta»28, dopo esser stato accusato di aver concesso eccesivo risalto alla prestazione di un atleta comunista:

(titolo su quattro colonne) a un record mondiale di Vladimir Kutz: l’accusa, essere un agente del comunismo, quando Brera sente questo rimprovero […] vorrebbe avere a portata di mano una copia dell’Equipe che all’impresa ha dedicato un titolo su otto colonne in prima. Non ce l’ha29.

Ricorda Brera di come ridessero di lui all’inizio, dei suoi termini, del suo lessico, del modo di approcciarsi allo sport, aveva rotto il nesso di accecamento e stava tentando di far vedere a tutti degli aspetti che non potevano vedere da soli. La figura di Gianni Brera assume quindi una duplice valenza, da un lato come un filosofo cerca di concettualizzare l’evento sportivo, tenta di renderlo proprio, di soggettivizzarlo, ed è questo il Brera della tattica e della critica; da un altro si rende conto dell’impossibilità di razionalizzare in toto il suddetto evento e ne riconosce la componente residuale, definendolo “mistero agonistico”, e permettendo tramite i neologismi ed in generale l’approccio molto libero nel fare cronaca il realizzarsi di quella legalità immanente che una cronaca troppo controllata od una soggettiva poco coraggiosa fermerebbero e ridurrebbero ad un superfluo da non integrare. Le opere puramente letterarie di Brera sono, senza mezzi termini, considerabili minori. Sul punto di vista stilistico la critica si divide, mentre per alcuni «come scrittore ha realizzato quello che doveva e voleva»30, per altri, Il corpo della ragassa, considerato il suo miglior romanzo e certamente quello che ottenne più successo editoriale risulta «pretenzioso e sopravvalutato»31. Il giudizio più o meno unanime, rimane che «il miglior Brera […] è nelle pagine dei quotidiani»32. Nei romanzi Brera traspone i paesaggi e i luoghi da cui proviene, interiorizzati durante l’infanzia, ma quello che manca è il fulcro nevralgico del pensiero breriano, la filosofia tematica che lo guida: la sua idea tattica. Filosofia tattica che è il risultato di esperienze di vita, che riflette una visione del mondo, un atteggiamento mentale, che modula e definisce lo sguardo sulla realtà di Gianni Brera, al punto da influenzare i rapporti con le persone, ne sono esempio da un lato Rocco, dall’altro Rivera e Sacchi. Ciò che manca al Brera romanziere è il contatto con l’alterità calcistica, lo scorcio di oggettualità che infiamma le sue cronache e vivifica la sua prosa, che nei romanzi risulta spesso più complessa da capire, perché non forgiata a caldo come nelle sue cronache.

Conclusioni

La lezione di Brera, dicevo in precedenza, non è stata colta dai suoi colleghi, e ciò a cui si assiste oggi è un giornalismo sportivo svuotato di contenuti sia tecnici che culturali, ciò è dovuto anche all’avvento dei nuovi media che hanno messo ancora più in ginocchio la carta stampata. Ogni testata giornalistica ha adesso un sito web che viene aggiornato rapidamente spesso a discapito della qualità degli articoli, ad esempio La Gazzetta dello Sport continua a battere record su record per le visualizzazioni del suo sito, attuando una linea editoriale composta soprattutto di pettegolezzo e sensazionalismo, con titoli volti al clickbait ed un imbarazzante tentativo di associare il più possibile lo sport con la mercificazione del corpo femminile, creando il sito perfetto per lo stereotipo del troglodita nostrano che pensa solamente a calcio e donne. Questi sono i frutti marci di un seme piantato già ai tempi di Palumbo, e che il mercato editoriale ha reso quasi necessari per la sopravvivenza delle testate sportive. In generale, anche a livello televisivo, raramente si assiste al giusto mix di competenza tecnica dell’argomento e libertà creativa che, nella storia della stampa sportiva, ha generato i frutti migliori di quel genere. Brera non lascia eredi, quando la sua lezione avrebbe dovuto essere il seme fondante di una scuola giornalistica diversa, che si battesse non per vendere poche copie in più abbassando la qualità, ma per elevarsi al rango di genere letterario e ricercare il proprio riconoscimento, e con esso un accrescimento di diffusione, continuando a lasciare libertà a chi narra e teorizzando il ruolo del giornalista sportivo. Rimangono pochi esempi virtuosi e lavorano quasi tutti sulle pay-tv (potremmo citare dei non coevi breriani Federico Buffa e Marco Bucciantini) proprio perché si avverte meno il peso stringente di dover vendere subito e di dover raggiungere la fascia di pubblico più ampia possibile. I generi paraletterari (e dovrebbero essere ormai svicolati da questa odiosa definizione) stanno colmando il vuoto lasciato dalla letteratura tradizionale (oltre ai pochi casi virtuosi di giornalismo sportivo si potrebbero citare sicuramente anche gli esempi migliori del genere fantasy) e dovrebbero riflettere sul loro status e sui fondamenti teoretici che, come ho cercato di far intravedere, sono molto più solidi e legittimi rispetto alla categoria di forma letteraria minore nella quale vengono classificati. Ricercare forme artistiche in luoghi che prima non venivano considerati capaci di produrne è ormai doveroso al fine di dimostrare che si può fare arte in questa società, che è possibile riuscire ad essere compresi facendola, e che, anche all’interno di quelli che vengono considerati solamente prodotti della società capitalistica si possono trovare vere e proprie opere d’arte, che giacciono nascoste, impolverate e dimenticate, ma che, se riconosciute come vere opere, sono il simbolo della possibilità di una rinascita artistica e letteraria.

Note

  1. Georg Simmel, Le Metropoli e la vita dello spirito, [1^ edizione 1903], edizione italiana a cura di Paolo Jedlowski, Armando, Roma, 1995 p. 36.
  2. Ivi, p. 37.
  3. Ibidem
  4. Federico Bertoni, Impossibile chiusura. Il romanzo moltiplicato, «SIGMA», 2017, Vol. 1, p. 19
  5. Ibidem
  6. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 38.
  7. Giovanni Matteucci, L’artificio estetico, moda e bello naturale in Simmel e Adorno, Mimesis, Milano-Udine, 2012, p. 127.
  8. Ibidem.
  9. Ivi, p. 128.
  10. Ivi, p. 129.
  11. Ibidem.
  12. F. Bertoni, Impossibile chiusura, cit., p. 13
  13. Theodor W. Adorno, Teoria Estetica, [1^ ed. 1970] (a cura di Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci), Einaudi, Torino, 2009, p. 405
  14. G. Matteucci, L’artificio estetico, cit., p. 125
  15. Ivi, pp. 124-125
  16. T.W. Adorno, Teoria Estetica, cit., p. 223
  17. Ivi, pp. 223-224
  18. Ivi, p. 159
  19. Ivi, p. IX
  20. G. Matteucci, L’artificio estetico, cit., p. 108
  21. T.W. Adorno, Teoria Estetica, cit., pp. 90, 152
  22. Aldo Biscardi, Storia del giornalismo sportivo: Da Bruno Roghi a Gianni Brera, Morrone Editore, Siracusa, 2015, p. 99
  23. Ivi, p. 218
  24. Ibidem
  25. Paolo Brera e Claudio Rinaldi, Giôann Brera: Vita e scritti di un Gran Lombardo, Boroli Editore, Milano, 2004, p. 176
  26. Id., Gioannfucarlo: La vita e gli scritti inediti di Gianni Brera, Edizioni Selecta, 2001, p. 206
  27. Ibidem
  28. P. Brera e C. Rinaldi, Giôann Brera,cit., p. 266
  29. Ibidem
  30. Franco Brera, Vi racconto Gioânn mio padre, in «la Repubblica», 24 dicembre 1992
  31. Cesare Lanza, C’erano una volta/Gianni Brera.
  32. Alberto Saibene, La storia di Gianni Brera.

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